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Cap. VEstrella fa gli onori di casa. Una gemma nella
gemma: ecco che cosa era la casa di Estrella a Siviglia. I1 marchese del
Basto, uno dei primi protettori della celebre cortigiana, l'aveva acquistata per
lei dal duca d'Alba, diventato vecchio,
che l'aveva usata da giovane come abitazione sussidiaria o, per dirla più
chiara alla francese, garçonnière. I1 marchese del Basto si riprometteva di arredarla convenientemente a
nuovo; ma la pinguedine che lo affliggeva, rendeva purtroppo lente le sue
decisioni, mentre la gotta suol essere sollecita con chi meno se l’aspetta:
infatti lo prevenne, uccidendolo in poche ore, una settimana dopo l'acquisto
della palazzina. Estrella non ci perdette nulla, poiché
la leggiadra dimora degli spassi del duca d'Alba rimase a lei, e il
ricchissimo conte di Peňaflor, già amico del defunto marchese, le domandò
la grazia di lasciare a lui la pena di compire quel che del Basto aveva
iniziato, accettando in cambio di lasciarsi proteggere. Estrella chiese
ventiquattr'ore per riflettere, in capo alle quali si dichiarò propensa ad
acconsentire, a patto però che il nobile conte la considerasse sciolta da ogni
impegno di riconoscenza in capo a un anno: essa aveva ventitré primavere,
ormai, non era più una bambina e non poteva legarsi troppo a lungo. Il conte,
che reggeva trentadue autunni su l’omero, destro e, a dir dei maligni,
altrettanti sul sinistro, sottoscrisse quel contratto a termine, ed Estrella
ebbe l’arredo che volle. Ma sei mesi non
erano trascorsi, che il conte una mattina non poteva alzarsi dal letto: la metà
inferiore della sua persona era diventata improvvisamente un peso morto, le sue
gambe due appendici inerti, grevi come sacchi pieni di pallini da caccia. Addio
Estrella! Un Peňaflor, però da vecchio hidalgo andaluso, grande di
Spagna di prima classe, gentiluomo di camera di S.M. Cattolica, mantiene gli
impegni a dispetto di qualsiasi incidente o accidente; e pregò il suo giovane
amico, il duca d'Olmedo, ricchissimo quanto lui, grande di Spagna quanto lui e
per giunta cavaliere dello Spirito Santo, di sostituirlo nei suoi obblighi di
protettore verso la preziosa creatura. II duca d' Olmedo,
giovane - diciamo - poiché non contava che quarantanove estati – aveva sul
conte il vantaggio dell'età ma non quello degli inconvenienti fisici. Egli
infatti, accusava disturbi dispeptici, cardiopalma e fiato corto, frutto delle
guerre a cui aveva preso parte fino a pochi anni prima, sia per mare che per
terra, distinguendosi nella rotta navale degli ispano-olandesi nel golfo di
Palermo ove gli era toccato restare quattro ore in acqua attaccato a un rottame
del suo vascello colato a picco; alla ritirata di Lussemburgo ove era rimasto
tutta una notte all'aperto senza stivali, perduti nel traversare un pantano; e
alla resa di Barcellona, ove lo avevano trovato in una cantina, costretto per
tre giorni a sfamarsi con solo prosciutto e a dissetarsi con solo vino, ciò che
aveva definitivamente compromesso il normale funzionamento del suo apparato
digerente. Un simile stato di salute non
consentiva prodigalità erotiche al terzo protettore di Estrella; ma da
intrepido guerriero e da illustre discendente di un fratello d'armi del Cid
Campeador, egli sapeva mantenersi ossequente ai dettami della galanteria e
ripagava la sua protetta con prodigalità monetarie. Sicché Estrella, lungo
gli altri sei mesi dell' impegno contratto col conte di Peňaflor e col suo
sostituto, non mancò del necessario e del superfluo, al di là dei suoi
desideri. L'impegno era scaduto da due giorni, ma né lei né il duca avevano curato o ricordato di fare atto di disdetta. Quella mattina Estrella era uscita così di buon'ora per assistere alla prima messa della Cattedrale, nella ricorrenza della Beata Vergine Maria del Pilar, di cui essa portava il nome: “Estrella” non era che un soprannome datole dai suoi primi adoratori, da quando a Cordova aveva cominciato a farsi fama come “la bella figliuola del locandiere Joaquin Turilla”. Maria del Pilar
Turilla intendeva chiedere all'Altissima sua patrona una benedizione e una
ispirazione. L'incontro con don Giovanni la distrasse dapprima dalla pia
intenzione; poi, al momento di montare in portantina con lui, essa giustificò
ai propri occhi il mancato adempimento dell'atto devoto, con l’assegnare a
quell' incontro il senso di una volontà divina: il cielo aveva mandato quel
peccatore a lei peccatrice perché insieme potessero peccar meno e a poco alla
volta fare ammenda dei peccati trascorsi con preghiere, voti ed offerte.
Estrella ormai era talmente ricca da poter ottenere dal vicario confessore e dal
parroco quante indulgenze chiedesse per sé e per un'altra anima, dovesse anche
rifare tutto in argento il mantello della Beata Vergine! E, per giunta, quel
segno del volere supremo secondava il malioso fulmine che la protetta dei vecchi
hidalgos aveva
sentito scoccare nella sua fantasia alla vista del bel don Giovanni, cinto dal
doppio alone della curiosità e del successo. La palazzina del
duca d'Alba era un edificio a due piani di stile moresco, situato in mezzo a un
piccolo giardino, che da una balaustrata di marmo si affacciava sulle acque
azzurrine dell'ampio Guadalquivir. Le stanze giravano intorno a un patio a colonne,
che sorreggevano il loggiato del piano superiore; una fontanella nel centro e
un velario in alto mantenevano una deliziosa frescura nella lunga stagione
estiva d'Andalusia, mentre grandi bracieri di rame sbalzato diffondevano durante
l’inverno un costante tepore in tutti gli ambienti, che incensieri di bronzo e
fiori sempre rinnovellati profumavano. II patio e due sale adiacenti, quella
da pranzo e quella da gioco, erano dello stesso stile moresco dell'esterno, e
cioè ripetevano in piccolo alcuni motivi dell'Alkazar,
con mosaici alle pareti, alti zoccoli di marmo o di maiolica, volte di
legno scolpito, porte e finestre ad arco lanceolato. La terza sala, da ballo e
da musica, insieme con un salottino destinato alla conversazione in piccola
compagnia, erano addobbati alla francese, con tappezzerie, specchi e dorature,
mobili in lacca e dipinti. Qui ogni tanto Estrella adunava artisti, musici,
poeti e perfino filosofi, in trattenimenti intellettuali dei più raffinati,
ai quali partecipava ascoltando e apprendendo, ma non di rado anche interloquendo,
ora per cantare, ora per esprimere una sua opinione in fatto d'arte, di
letteratura e (perché no?) di politica. In quel
salottino, cervello della casa, si ammiravano preziose tele di grandi maestri
spagnuoli, fiamminghi e italiani, per le quali il fondatore del palazzetto
prima, e poi i successivi protettori di Estrella, non avevano lesinato le grosse
somme occorrenti per riscattarle dai possessori di prima o di seconda mano. Tra
esse figurava il Giudizio di Paride di
Rubens, a cui la padrona di casa teneva moltissimo, non per il solo valore del
quadro, ma anche perché più di uno dei suoi ammiratori aveva detto essere
inesplicabile che Paride avesse assegnato il pomo a quella Venere alquanto
matura e sgraziata, mentre accanto a lei splendeva la giovanile nudità di
Pallade, che somigliava a pennello a lei, Estrella. Questo giudizio sul giudizio di
Paride ripeteva la bella creatura a don Giovanni, mentre gli faceva gli onori di
casa conducendolo in giro pel suo appartamento. E il giovane doveva durare una
fatica da non si dire per non mostrarsi stupefatto di tante magnificenze, nuove
per i suoi occhi. Per fortuna gli teneva dietro il più che sveglio Ubriaco, il
quale al passare di meraviglia in meraviglia lo manteneva in continua all’erta
con frasi di
questo genere: - Ah, Rubens;
sicuro: voi avete posseduto a Parigi un altro quadro celebre di quel pittore,
che vi fu donato dalla duchessa di Motteville - ricordate? - un nudo di Elena
Fourment. - Rembrandt ? Sì
abbastanza bello. Però quelI' altro che vostro padre portò dall'Olanda, il Ratto
di Ganimede, era forse più
caratteristico... - Van Dyck, già,
si riconosce subito dall'eleganza del tocco. A un'aria di famiglia col Crocefisso
che avevate nella vostra camera da letto, a Genova. - Velasquez:
appunto. Chissà cosa se n'è fatto del ritratto della contessa vostra madre,
dipinto da lui, che si conservava nel vostro castello di Marana? -
Tiziano :
oh,
guarda... non vi ricorda quell'altra tela, Venere
e Adone, che voi compraste da un
ebreo a Venezia, per portarla in dono a Madrid a donna Casilea de Villacabras y
Tortojada, la prima dama della regina? Quella Venere, però, a mio vedere non
peccava come questa e come tante altre, nei piedi, che sono grandi e piatti.
Guardate invece il piede della senorita Estrella: benché calzato, rivela il
capolavoro della sua nudità. - Ma insomma, chi
sei tu? - domandò finalmente Estrella - meno lusingata dal complimento quanto
infastidita dalla saccenteria di quell'individuo che, attaccato alle costole di
don Giovanni, benché scarruffato e male in arnese, non aveva sentito il dovere
di restarsene in anticamera coi servi. - Chi sono ? -
rispose sorridendo - Eh, certo, io merito questa domanda, mia bella signora. Ma
che importa il mio nome? Esso non ha la storicità di quello del mio illustre
padrone: mi chiami io Pedro, o Jaime, o Prosdocimo, resterò nel buio che mi ha
generato. Non sono illustre, ma utile. Sono il confidente e il cameriere
particolare del bel cavaliere al quale concedete in questo momento le vostre
grazie. Qualche volta sono anche la sua voce poiché stanco e annoiato com’è,
non ama spesso parlare. Si vede però che non avete letto don Tirso de Molina, né
don Antonio de Zamora, e tanto meno Molière, perché allora sapreste che il
valletto di don Giovanni si chiama Sganarello. Ma siccome io non amo i plagi,
anzi mi piace essere originale anche nelle generalità, vi prego chiamarmi
semplicemente Maggiordomo. Estrella, da
buona figliuola portata al buon umore qual'era, si mise a ridere. - Capisco - gli
disse - che anche tu hai fatto un lungo viaggio in compagnia del tuo
padrone, e mi spiego la tua brutta presenza. Mi hai l’aria di un furbo
matricolato, ma non mi dispiaci. Va di là, intenditi col mio vecchio Blasco:
penserà lui a farti ripulire e rimpannucciare a modo. Così la tua dot trina,
che per ora figura male, sarà messa in più degna cornice. Essa continuò a
far gli onori di casa al suo ospite taciturno. Montarono al
loggiato del piano superiore, ove le decorazioni, a stucchi ed affreschi,
avevano uno stile più moderno. I dipinti erano in parte di mano di Murillo; ma
nell'appartamentino personale della padrona di casa, avevano un fare meno
castigato di quello del grande pittore sivigliano: opere certamente di un suo
allievo, precursore della graziosità francese, vi si notava grande sfoggio di
nudi classicamente carezzati, in composizioni allegoriche di leggiadra
inverecondia. Estrella mostrava
le eleganze e le bellezze della sua casa, e le veniva man mano illustrando, con
una semplicità che non si poteva dire modesta, ma neppure sfrontata. Per lei
era naturale e giusto possedere quelle ricchezze ed essersele guadagnate facendo
il mestiere di dare un po' di fuoco alle vene più restie. Essa non si chiamava
che Estrella, senza titolo e senza cognome (affinità con l’Ubriaco, che
glielo aveva reso simpatico); ma che male c'è a non avere i lunghi cognomi e
titoli di una gran dama? Forse una cortigiana per bene non può essere fatta,
di dentro e di fuori, tale e quale una duchessa e, in molti casi, anche meglio?
Anche lei vantava un palazzo, - un gioiello - cocchi, cavalli, staffieri e
cameriere, un cuoco fra i più magistrali di Spagna, uscito dalle cucine reali,
che perfino il marchese de Guimera, governatore di Andalusia, le invidiava. Non
poteva ugualmente vantare ricchezze terriere in feudi, parchi, castelli, né
miniere d'argento nel Messico, né cave di diamanti e di smeraldi nel Perù,
come le donne dei Cortez, dei Pizzarro, dei Navarez che le avevano rubate ai
massacrati legittimi possessori. Ma essa era ricca di tutto quel che poteva
bastarle, soltanto perché sapeva usare la parola “Sesamo” che apre
qualunque forziere: senza uccidere, né devastare, né incendiare, come i
bestiali conquistatori, ma carezzando; senza spargere sangue, ma miele di baci. I suoi vezzi
erano le armi dolcissime delle sue conquiste: tra i confini delle sue labbra e
della rosea collana delle sue braccia un ricco ed eroico imbecille, sazio di
ogni cosa, veniva a cercare quel lembo di paradiso terrestre che non aveva
trovato in mille luoghi più serii, più importanti e più castigati. Per questo
Estrella poteva asserire che il suo letto era imbottito di blasoni, meglio di
quello di un'imperatrice, a cui non è lecito dormire ogni notte che con lo
stesso uomo, non di rado fiacco, infermiccio e maleodorante. Le cacce che
troncano il bellissimo volo dei cigni e degli aironi colmavano di piume i suoi
guanciali e le sue materasse quanto quelli di una marchesa. I palombari di
Ceylon e di San Domingo affrontavano gli abissi degli oceani per adornare di
monili di perle il suo collo, come quello di una principessa. Gli schiavi delle
Indie s'intossicavano sottoterra il respiro o morivano sotto le battiture, per
cercare le piccole stelle chiuse nella roccia, che dovevano poi brillare alle
orecchie, alle dita o sul seno delle regine e di Estrella. Eppure, fra tanti
incendii di cuori e di sensi che l'attorniavano, ella era la salamandra;
fingeva, qualche volta per pietà, qualche altra volta per spassarsi, ma più
spesso, così, perché doveva farlo; e rispondeva alla questua degl'innumerevoli
amori che l’incalzavano, con un'elemosina carnale, concedendo un po' della
sua superficie. Niente altro, del resto, le chiedevano. Per questo il suo cuore era
lieve come un bocciuolo e la sua anima limpida come una fonte a cui nessuno si
è mai dissetato. Così,
approssimativamente, parlò di sé Estrella a don Giovanni quando furono soli
nella camera dagli affreschi inverecondi, e concluse stringendoglisi al petto. - Tu non somigli
agli altri uomini che ho conosciuto, non mi offri nulla, non mi chiedi
nulla, sei muto ed assente, non mi sembri nemmeno ricco, e mi piaci tanto, che
se mi guardi sento qualche cosa che mi carezza qui dentro... Un po' più
tardi, fra sbalordita e allietata, gli diceva: -
Allora, era vero? Sono io la prima!... Cap. VINel quale Estrella del presunto maestro fa uno scolaro. - …Ma allora tu
non sei don Giovanni!!... Del resto, bisognava capirlo: io e mille altri scemi
non abbiamo riflettuto che don Giovanni, quello di cui si è tanto parlato,
dovrebbe avere oggi almeno novantacinque anni! Sei forse suo figlio o piuttosto
suo nipote? - No - rispose,
pensieroso e serio, il giovanotto - sono proprio suo figlio. Fu don Giovanni a
generarmi, come suol fare, e ad abbandonare mia madre forse dopo un solo giorno
d'illusione d'amore. - Non accorartene
tanto, caro, e anzi guardati bene dal dirlo. Lascia che la gente ne pensi quello
che le pare. Che bel caso!... non so darmi pace. Sei l’opposto di quello che
m'aspettavo, e mi piaci anzi di più. Oh, il mio don Giovannino! Son proprio io
che lo inauguro. Che festa! Non mi era mai accaduto. Finora invece mi era
troppo spesso toccato di fare da restauratrice di antichi monumenti. Così parlava
Estrella e così parlò almeno per quindici giorni. La sua vita intima con don
Giovanni fu quasi sempre un monologo. - Sai? mi dicono
che in città siamo noi l’argomento del giorno: io e te, anzi, a onor del
vero, te ed io. Ed è giusto: chi chiacchera di più sono le donne, e per le
donne il soggetto preferito è l'uomo, specialmente quando quest'uomo ha il tuo
nome, la tua fama e il tuo fascino. Sì, è innegabile che tu abbia del fascino.
Vedo che non te ne insuperbisci, né più né meno che il don Giovanni tuo
predecessore; quello lo faceva per disprezzo e per noia, tu invece... non
capisco perché. Ci hai non so che tristezza in fondo agli occhi. Cos'è?... No,
non dirmelo; è meglio che io non lo sappia: potrebbe essere qualche cosa per
me poco piacevole. “Sì, non si
parla che di noi: me l’hanno riferito la mia cameriera e gli altri servi.
Dicono, tra le tante malignità a carico mio, che io ti ho sequestrato, che ti
tengo sottochiave, e un cumulo di sciocchezze del genere. Converrà, però, che
un giorno ci mostriamo, tu ed io, in qualche posto frequentato, per smentire
queste chiacchere: domenica, per esempio, c'è spettacolo in Plaza de Toros...
o preferisci andare
alla tertullia nei giardini di Santelma ? Vi si canta e vi si balla;
potremo danzare anche noi. Io danzo benissimo, sai? Dicono che nessuna mi
superi nel fandango: mi piace perché è indiavolato. Non lo ballerò
in pubblico, sta tranquillo, ci limiteremo a un bolero; so
le convenienze io, trovandomi in compagnia d'un cavaliere. Lo
ballerò per te solo, in camera... vuoi ? Sì, caro. Un bacio ...... “Che bel giovane, sei! Somigli preciso a un eroe d'un romanzo che ho appena
finito di leggere, del visconte
d' Urfè, un francese. Ma già certo sai chi è: si vede subito che sei
istruito. Quando parli, parli così bene ! Peccato che parli pochino... Metti un
po' in soggezione tanto col tuo silenzio che con le tue parole. “Abbiamo detto
d'uscire insieme, una volta o l’altra. Ma per andare in un posto di lusso, tu
non potrai mica venirci con codesto tuo costume di taglio antiquato, che può
ancora andar bene per viaggio, lo ammetto... D'altra parte, però non ti lascio
andar solo a procurartene uno nuovo. Se mi vai via, ho paura che qualcuna delle
tante signore a cui hai turbato i sogni, non mi ti faccia più ritornare… Ci
ò pensato io per un bel costume d'accordo col tuo Maggiordomo. È andato lui a
prenderlo: guarda. È di broccato: il velluto è in disuso. No, non protestare.
È bellissimo: quell' uomo ha buon gusto. Ti piace il cappello? Le piume che
orlano le falde le ho date io: non se ne trovavano, pronte, di così fini. Sono
di sebum femmina, venute per me
dalle Molucche. “Stamane, dopo
il tuo bagno, Pablita ti farà da manicure. Assisterò io, perché non svenga a
toccarti le dita. Il Maggiordomo ti proverà alcune parrucche. Le ho fatte
scegliere un po' larghe perché non voglio che ti si debbano radere, sotto, i
capelli: per me che ti vedo anche senza parrucca, stai benissimo con la tua
testa. Che bei capelli ondulati, hai e di che bel castano! Fai bene a conservare
i baffetti: ti danno un'aria militaresca. Non che io ami i militari, ma mi
piacciono i baffi, piccoli, arricciati, che mi fanno un certo solletico sotto il
naso a ogni bacio. La parrucca, per intonarla coi baffi, ti direi di preferirla
di quel bel lionato cupo, invece di quell'altra troppo bionda, che mi sa di
effeminato, o della nera, che mi sente, corna facendo, di accompagnamento
funebre.... “Oggi ò
fame… una fame! E tu? Sei piuttosto di poco mangiare, amoruccio. Vedi quanti
intingoli ci ha preparato il nostro Gaspare, per stuzzicare l'appetito? Prendi
due sardine, due ulive farcite, del burro... Queste ostriche vengono dal
Portogallo, sono straordinarie! Le ostriche fan bene agli innamorati come noi:
mangiane! Che? Vorresti respingere questo bocconcino prelibato? Ma é caviale,
caro, caviale di Russia, che ha attraversato tutta l’Europa per cinque o sei
soli clienti in Ispagna, e tra i favoriti della sorte siamo noi. Mettici del
pepe, così... Sono tutti cibi d'amore. Mi hanno raccontato che questo caviale,
che in fondo è uova di pesce viene raccolto con stento da povera gente del
Volga che lo vende per pochi quattrini. Quando è giunto alla nostra tavola
costa almeno tre reali al boccone. Io non mi sentirei di mangiarne, pensando a
quegli infelici... ma lo mangio a dispetto dei ricchi e dei potenti egoisti
che sperperano denaro guadagnato senza fatica, per sperperare anch'io il loro
maledetto denaro. Bevici su questo vino: è Chablis di Francia, e si beve sulle
ostriche e sul caviale. Un po' di brodo di tartaruga?... È nerastro, ma non
cattivo; e poi è molto aristocratico. Prendi un pasticcino di lamprede… E di
questo fagiano tartufato... anche i tartufi sono cibo degli dei. “Perché parli
così di rado? Mi piace tanto sentirti parlare, anche se hai quell' aria
preoccupata e perfino triste che non riesco a farti smettere. Bada che non
a tutte le donne può piacere, come a me, la tua malinconia. Anch'io sarei
malinconica, se non sapessi che è perfettamente inutile esserlo: nella vita non
c'è un solo malinconico che faccia fortuna. Prima di conoscere te, io sfogavo
la mia malinconia quando ero sola: mi mettevo dinanzi a uno specchio e
cominciavo a guardare quell'altra me stessa così immusonita, e le domandavo
perché e di che fosse malcontenta. Essa non sapeva, o non poteva rispondermi
e io finivo col dirle in faccia, senza complimenti, che era una stupida. E
allora, nove volte su dieci, ci mettevamo a ridere tutt'e due. Mi dava anche
noia vedermi sempre la stessa. «Su, Estrella, - le dicevo - cambia!» E
cambiavo vestito, e tornavo a guardarmi. E quando m'ero stuccata anche di
quell'altra Estrella, mi toglievo quell'abito e ne indossavo un altro… e poi
un terzo…, e così via finché, quando avevo esaurito la mia guardaroba e m'
ero stancata di ritornare ogni volta a fare il manichino di me stessa, avvertivo
il mio protettore che avevo bisogno di nuove vesti. “C'era un mezzo
diverso di rinnovarmi ai miei occhi: il mutare di pettinatura. Ne avrò provate
cinquanta o sessanta, con l'aiuto di Pablita e del parrucchiere Fernando e
del suo concorrente Franquito, e del concorrente di tutti e due, Manzanillo. Ho
provato anche parrucche rosse, oro, bianche, verdi. Per mutare più
radicalmente la mia faccia, un bel giorno decisi di radermi le sopracciglia; ma
ero un orrore e me le rifeci a matita. Non mi piacevo per niente. « Finalmente presi a guardarmi nuda. Ero più autentica. Mi ci divertii
un pezzo. Mi accorgevo anche di essere più importante: le dee, quanto più sono
dee, tanto più sono nude. Una dea vestita somiglia a una bella donna qualunque.
Ho posato per me stessa da Giunone, da Minerva, da Diana... meno di tutte da
Venere. Ti confesso che mi è antipatica perché nuda ci stava per abitudine e
ci teneva a schiaffare sempre in faccia
a chicchessia le sue bellezze, che del resto sono discutibili: una che ha avuto
una mezza dozzina di figli (conosciuti, perché poi ce ne saranno stati parecchi
altri clandestini) non può mantenersi la persona ben fatta. Perciò ho preferito
sempre Diana e Minerva che erano di costumi meno facili… Non perché io sono
una ragazza di costumi non regolari, tu devi credere che mi piacciano le
donnacce che passano da un uomo all'altro. Preferisco le oneste. Le vere.
Peccato che non ne conosco! “Si, magari un
figlio lo vorrei. Ma da te. “Non
avere scrupoli, caro. Ti ho capito. Ho mandato una lettera al conte di Peňaflor
e al duca di Olmedo, per avvertirli che li lascio in libertà. Sanno che ci ho
te, e basta. So essere onesta anch'io. Non intendo perché fare all'amore
dovrebbe essere una vergogna. È più vergognoso, ed è anche vero peccato,
farlo quando si è maritate, a scorno del marito. È peccato grave rubare,
ammazzare, fare del male ai nostri simili in uno di quei tanti modi in cui sono
maestri molti gentiluomini e gentildonne. Ma l'amore fra me e te, e fra tutti
quelli che somigliano a me e a te, è roba innocente che non fa male a nessuno e
fa tanto bene a me e a… “A te? non so.
Mi pare che tu non provi la la stessa gioia che provo io a starti vicina, a
tenerti con me, a parlarti… e passi pure a stare zitti. Non vorrei esserti già
venuta a noia… No? davvero? Proverò a farti delle carezze diverse, perché può
darsi che sempre la stessa ti diventi monotona. Siamo sinceri, non è colpa mia,
perché tu sei, non t'offendere, un po' ignorante in materia d'amore. “II mondo delle
carezze è il mondo della fantasia. Si erigono monumenti a re, a guerrieri, a
uomini di stato: tutta gente che non ha fatto mai nulla per la felicità degli
uomini e delle donne che stanno al mondo a loro disposizione, che spesso anzi
passano guai per causa loro. Vedi se si è mai innalzato un monumento agli
innamorati, che sono i soli almeno in certi momenti a essere felici e a inventare
tra loro nuovi e diversi motivi di
gioia. Il mondo è così ipocrita invece, da pretendere non solo che queste
gioie restino nascoste, ma da considerarle motivo di scandalo se appena se ne
parla. Non so capire perché l’amore debba essere uno scandalo, se è il perno
della vita. “Ebbene, la
varietà delle carezze é a sua volta l'arte dell'amore. Tu non puoi essere don
Giovanni se non lo impari... dovrei anzi dire se non lo insegni. L'amore più
perfetto è il più vario e il più immaginoso. Credo che possa durare anni e
anni; mentre anni sempre della stessa zuppa, finisce col non dare più gusto. “Vogliamo provare da adesso se tu ammiri più la battaglia di Pavia, vinta
da Carlo V° o quella di Lepanto, trionfo di don Giovanni d'Austria, e il genio
politico del Conte di Olivares o quello di Luigi XIV di Francia, oppure certe
nuove carezze, che tu ancora non sai, una per ogni grande fatto o per ogni
personaggio storico? “Cominciamo
subito dalla battaglia di Pavia...” |
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