Autobiografie dell'inconscio.
Numero 11, anno VI, gennaio 2009
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"DI
COSA SONO TESTIMONIANZA LE MANI DEI SOPRAVVISSUTI? DELL'ANNIENTAMENTO
DEI VIVENTI, DELL'AFFERMAZIONE DELLA VITA"
(Seconda Parte) |
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di Janine Altounian |
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La prima parte di questo articolo è apparsa nel numero 8, anno IV,
giugno 2007 della rivista Frenis Zero .
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Foto: Janine Altounian.
Le
mani della pietà nell’offerta di una sepoltura
A.S.S.E.Psi.
web site (History of Psychiatry and Psychoanalytic Psychotherapy )
Ce.Psi.Di.
(Centro di Psicoterapia Dinamica)
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E’
quindi dopo i titoli di testa di un tal film dell’orrore che comincia
per qualcuno il film della sopravvivenza e, per coloro che lo
ereditano, quello degli oblii necessari alla prosecuzione della vita,
ossia alla genesi di una scrittura. Si è sottolineato in effetti come
il racconto di questo giovane narratore, appena alfabetizzato e del
tutto ignorante degli effetti stilistici dei narratori, abbia saputo
tuttavia <<evitare>> qualsiasi allusione a ciò che visse durante i sei
giorni dell’agonia paterna per ricoprire all’inizio tale sequenza,
passata sotto silenzio, con la banalità di una domanda elusiva di ogni
soggettività: <<Cosa diventa un uomo gravemente malato che viene
percosso?>>, per considerare in seguito provvisoriamente la messa a
morte del padre con una semplice datazione: <<Sei giorni più tardi, il
giorno della morte di mio padre, essi hanno fatto nuove
deportazioni>>.
Progredendo non senza ansietà nell’elaborazione di un lavoro
che si basa su un materiale pericoloso, vorrei ora mostrare il destino
di una tale procedura di evitamento nella sua trasmissione agli
inconsci che ne ereditano e ne contraggono il debito di una certa
scrittura.
Abbiamo visto come, dopo essere riuscito in stato di terrore
a ottenere un giorno perché le mani potessero <<scavare una fossa>> e
perché un <<curato>> potesse proferire certamente qualche parola su
questa inumazione, l’autore di questo resoconto grezzo, in qualche
modo riprendendo per conto proprio il rituale dell’inumazione ottenuto
per un pelo, seppellisce ed inscrive per la prima volta, nelle
pieghe del suo testo, uno spazio bianco che tenta di schivare la
violenza della sofferenza e dell’inaudito del crimine.
<<La scrittura gioca il ruolo di un rito di inumazione>>
scrive Michel de Certeau <<essa esorcizza la morte introducendola
nel discorso. D’altro canto essa ha una funzione simbolizzatrice(…):
“marcare” un passato è fare posto al morto,(…) e di conseguenza
utilizzare la narratività che seppellisce i morti come mezzo per
fissare un posto per i vivi>> (de Certeau M., 1975, pag. 118).
La lacuna presente nella catena verbale dell’adolescente
scrittore prende così il posto delle formule rituali che presiedevano
alla inumazione del morto e lascia il posto ad una nuova fase di
deportazione, quella per coloro che momentaneamente restano ancora
vivi: <<il giorno della morte di mio padre, essi hanno fatto nuove
deportazioni>>. Le tracce dello spavento nel quale le spoglie di un
padre saranno state, per un po’, lasciate agli sciacalli del deserto
dell’Anatolia, vengono a trasmettersi, mi sembra, in questa strategia
inconscia che, per preservare la sopravvivenza, impose poc’anzi al
figlio di rompere i legami della trama testuale e quindi affettiva – o
all’inverso i legami che tessono gli affetti e quindi il testo-;
strategia che, più tardi, viene a ripetersi nella storia generazionale
attraverso il sintomo di un apparente <<vuoto>>, di una sorta di
memoria <<bianca>>, chiamata da Claude Janin (1996, pagg. 38-39) <<il
nucleo freddo>>10 del trauma. Si tratta senza dubbio di
tracce di un tale terrore, generato retrospettivamente (“après coup”)
e trasmesso ai discendenti mediante il ricordo inconscio di una
catastrofe che, in questo caso, era certo <<mancata>> dal prodursi ma
che si era massivamente prodotta per tante altre persone di questa
Storia e per tanti altri innumerevoli delle nostre storie
contemporanee, quando i cadaveri di antenati assassinati erano e sono
abbandonati nell’incubo irrappresentabile del nulla.
Prendendo dunque un po’ al rovescio il fenomeno di questo
evitamento disgiuntivo nella linearità del racconto, mi porrei delle
domande su questa omissione dello spavento e sulle sue modalità di
trasmissione in quanto atto <<mancato>> riuscito, ma riuscito a
malapena ed abitato dall’imminenza del crollo psichico e
dell’impotenza. D’altronde, se nomino una tale strategia <<omissione>>
e non <<rimozione>> è perché nella serie delle <<operazioni mancate>>
Freud avvicina tra le altre cose il fatto di dimenticare (das
Vergessen) al fatto di perdersi (das Verlegen)11,
cioè di sistemare un oggetto in un luogo il cui ricordo ci sfugge. Non
è alla <<rimozione>> di un territorio dato verso qualche altro
dell’inconscio che rinvia, in effetti, la riflessione di una giovane
rifugiata ruandese, ma a questa <<utopia>> dello spavento da cui il
soggetto si assenta per sopravvivere (Winnicott D. W, 1975b)12.
<<Quando penso al genocidio>> dice costei <<rifletto
per sapere dove metterlo nell’esistenza, ma non trovo alcun posto>>
e d’altronde questa giovane donna stima come tempo di vita il
guadagno apportato dall’ignorare ciò che non trova nessun posto nello
psichico:
<<se ci si attarda(…) sulla paura del genocidio, si
perde(…) ciò che si è riusciti a salvare della vita>>13.
Se nell’oblio ciò che fallisce è la stessa cosa che riesce a
malapena a gestire uno spazio/tempo di sopravvivenza, l’interfaccia
dello scarto così creato avvia l’invaginazione di un altro
spazio/tempo per un lavoro che deve avvenire. La mia scrittura non è
stata forse sottesa, fino ad ora, dal progetto, dapprima inconscio,
di accogliere questo Diario di deportazione spostando la sua
ricezione insostenibile su quell’altra testimonianza traumatica alla
ricerca di destinatari e creatori in letteratura? Ero infatti meno
coinvolta dalla figura del nonno, sepolto per un pelo, rispetto a
quella del figlio, depositario e trasmettitore di questa separazione
dai morti, <<assentandosi>> lui stesso nell’esercizio implicito della
propria paternità al fine di non contaminare ciò che trasmetteva della
vita ai suoi figli. Anch’io ero implicata nell’impatto di questo
terrore primordiale, trasmesso tale e quale, <<privato
d’affettività>>, dato che era senz’altro esso che si manifestava nella
mia compulsione a <<raccogliere>> ciò che non aveva potuto essere
raccolto. In più il mio interesse per la letteratura, permettendomi di
scrivere “nel corpo testuale dell’altro”14, si fondava
essenzialmente sul lavoro psichico all’opera negli scrittori che
cercano di restaurare i legami della memoria e della relazione col
mondo, legami interrotti nel sopravvissuto in cui lo spavento
originario genera un’angoscia del legame.
Per sopravvivere è necessario certamente operare un’incisione
all’interno della memoria, ma anche nella relazione con l’altro, in
particolare nella relazione col proprio figlio. In altre parole, il
padre sepolto a stento ed il figlio <<presente a metà>> nel presente
dei suoi figli non costituirebbero che una sola realtà. Nell’esempio
del materiale studiato, l’angoscia nell’”après-coup” di
aver evitato di abbandonare un corpo paterno alle fosse comuni,
angoscia che assilla l’apparente omissione del figlio, si ripete in
quest’ultimo in forma inversa, nell’evitamento, nell’aggiramento del
luogo psichico in cui ogni cosa che viene messa in legame15,
suscettibile di condurre al rischio di risvegliare il vissuto
terrorizzante, è diventata intollerabile.
Il terrore traumatico, non provato dal soggetto in quanto
espulso durante l’effrazione, attraversa allora le generazioni dei
discendenti scavando uno scarto, un’inibizione del contatto che
costituirebbe una parola suscettibile di indirizzarsi agli oggetti
amati. Tale impedimento di un reale investimento, sintomo di una
mancanza nell’essere <<per>> sé e <<per>> l’altro, tale legame
impotente ad annodarsi con il figlio, resta la traccia nella memoria
di un lutto per sempre impossibile da elaborare. Lo spavento e la
volontà di dimenticare lo spavento stesso generano, secondo Ferenczi16,
nella parte della vita psichica che sopravvive al trauma, una zona
intoccabile e muta che il figlio, nella sua pietà filiale, rispetta in
modo spontaneo allo scopo di assumersene l’appartenenza e di
accoglierne fedelmente il messaggio implicito. Egli può anche divenire
scrittore per condurlo ad una sua esplicitazione, facendo così della
letteratura, luogo della sepoltura del padre, una terra in cui egli si
inscrive e si libera della propria eredità di figlio o di figlia.
Per <<evitamento>> dell’affetto del lutto bisogna dunque
intendere, in un’accezione inversa rispetto al reale divenuto
fondatore, che un figlio, a cui verrebbe trasmessa questa paternità
del terrore, resti sotto l’influenza di un impedimento a dialogare con
qualsiasi oggetto d’amore, reso a questo modo virtuale.
Interiorizzando la disumanità di un crimine restato impunito o quella
di una mancanza di cui egli potrebbe essersi reso colpevole, egli non
può far altro che <<evitare>> di rivolgersi a sua volta al proprio
figlio. E’ da questa disperazione nel vero senso della parola che
dipendono, mi sembra, i supposti mutacismi di coloro che sopravvivono
alla traversata dell’orrore. Certo, essi possono parlare, raccontare,
ma non parlare a chi occupa per loro un posto di altro, dato che sanno
che nessun altro fu là nel momento in cui gli era necessario, per
sopravvivere, abbandonare <<quasi>> degli esseri cari, esposti
all’onnipotenza del massacro e degli elementi naturali. Risentendo
crudelmente l’assenza di una parola che non ha potuto essere emessa,
certi scrittori offrono allora, per mezzo della letteratura e al
contrario delle generazioni, la parola mancante di una relazione in
sospeso, una parola insomma performativa che dia esistenza al sé dando
esistenza all’altro e che caratterizzi eloquentemente la formula di
Michel de Certeau in <<un orizzonte di incontro tra la psicoanalisi e
la mistica>>:
<<”Se tu mi parli, io nasco”; o ancora “Se tu mi parli, io
esisto”>> (de Certeau M., 1987, 184, 187).
La metabolizzazione del materiale psichico nella condizione
di sofferenza, che lo scrittore depositario cerca di operare, lo
trasforma allora in evento soggettivato, che ha avuto luogo da qualche
parte ed a qualcuno del quale egli riabilita, reincarna, si
riappropria dell’esistenza prima di poterlo, eventualmente,
dimenticare alla fine. In effetti si può pensare che solo ciò che è
stato <<localizzato>> da qualche parte nel mondo dei vivi possa essere
rimosso. Se la localizzazione è impossibile, la presa di distanza non
lo è ugualmente di fronte a ciò che si vive attraverso il discendente
non già in una prossimità, ma in una contaminazione ed in un
sconfinamento nel senso dato da Winnicott17. In riferimento
alla <<narratività che seppellisce i morti come mezzo di fissare un
posto per i vivi>> (de Certeau M., 1975, 118), si può dire che
l’assenza di localizzazione psichica dell’incontro con lo spaventoso
significa ugualmente un’assenza di delimitazione tra i morti ed i
vivi. E’ ciò che esprime chiaramente un’altra testimonianza di un
sopravvissuto ruandese:
<<Nel rifugiato(…) qualcosa di misterioso si è bloccato
nel più profondo del suo essere durante il genocidio(…). Egli ha la
tendenza a non credersi più realmente vivo>>18 (Hatzfeld
J., 2000, 107, 117).
Il ricordo traumatico, rimuginato o rinchiuso nel silenzio da
parte dei genitori dall’io svanito nella tempesta, sembra in effetti
provenire da un altrove allucinato che ricorda stranamente, alle
orecchie dei vivi ingenuamente normali, il discorso dei <<posseduti>>,
<<in quanto tale discorso si dice parlato da
un altro …>>.
<<C’è, osserva il ricercatore che mette in evidenza
“L’absent de l’histoire” (de Certeau M., 1973), indeterminazione di
luogo nel definire da dove esse parlino e che si dà sempre come un
“altrove” che parla in me>>. <<Qui, il contenuto è conosciuto,
e colui che parla sconosciuto: si ha nei testi di possessione il
marchio di questo dileguamento del soggetto>> (de Certeau M.,
1975, 251, 271).
Ci sarebbe dunque una certa analogia tra l’intento della
letteratura e la storiografia poiché questa,
<<attraverso la sua narratività, (…) fornisce alla morte
una rappresentazione che, installando la mancanza nel linguaggio, al
di fuori dell’esistenza, ha il valore di esorcismo contro l’angoscia>>
(de Certeau M., 1975, 120).
Ad essa non è meno prossimo lo scrittore erede che opera una
tale installazione nel linguaggio a partire da una identità scissa: se
lo storico <<fa parlare il corpo che tace>> (de Certeau M., 1975, 9),
l’erede dal canto suo dispone delle proprie identificazioni dolorose
al <<corpo che tace>> e lo piega, mette in prospettiva il discorso del
sapere storico, forse per attenuare il disagio della sua scissione
interna.
<<Quando, nei pressi della tomba di suo padre, egli sente
il tempo disarticolarsi – questo nuovo ordine del tempo è quello del
libro>> (Camus A., 1994, 317).
La scrittura nasce da questa <<disarticolazione>>, essa la
elabora lavorando le parole.
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Le mani del dono |
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Nel corso di questo sviluppo che si
fonda sulla seconda sequenza dei nostri <<titoli di testa>>, si
vedranno essenzialmente funzionare differenti strategie di
capovolgimento dettate dalla necessità di restare in vita quando
nulla può oramai nutrire questa vita.
Il primo capovolgimento
dipende dalla dimostrazione sconcertante di Robert Antelme: ciò
che, nei detenuti dei campi di concentramento, potrebbe sembrare
una <<decadenza>> non è altro che <<la rivendicazione dei valori
più alti>>. Si può in effetti mettere in parallelo la scena
precedente in cui <<non ci sono più cavallette, dato che tutti le
avevano mangiate>> con <<la situazione ultima di resistenza>> di
<<colui che mangia delle buccie>>:
<<L’esperienza di colui
che mangia le bucce è una delle situazioni ultime di
resistenza(…). Ci sta tutto:(…) la rivendicazione –
nell’accanimento del mangiare per vivere – dei valori più
alti. Lottando per vivere, egli lotta per giustificare tutti i
valori(…). Colui che disprezza il compagno che mangia le bucce(…)
lo disprezza poiché il suo compagno “non si rispetta più”(…).
Molti hanno mangiato le bucce. Essi non erano certamente
consapevoli, il più delle volte, della grandezza che è possibile
trovare in questo atto(…). Le prospettive di liberazione
dell’umanità nel suo insieme passano da qui, da questa “decadenza”>>
(Antelme R., 1957, 101).
Il secondo capovolgimento
richiama quello operato nel Giudizio di Salomone19
attraverso la figura della vera madre che, per salvare il suo
bambino, lo abbandona – cioè introduce violentemente, laddove
regna la morte, un’istanza terza tra lei e lui; capovolgimento che
nel nostro caso porta all’ultimo ribaltamento di questa saga
facendo in modo che il figlio, una volta nutrito, ritorni in
seguito dal luogo che lo salva dalla fame per, a sua volta,
nutrire e curare la madre.
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Un flacone di olio di rosa
(seguito)
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<<L’arabo ci ha fatto salire sul
suo asino. Sei ore più tardi, siamo arrivati al suo accampamento.
Ci ha dato del pane, abbiamo mangiato, mi ha preso nella sua
tenda. Ha messo Haig nella tenda vicina. L’indomani, al mattino,
ho visto tutt’a un tratto che le persone che avevano ospitato Haig
erano partite. Le ho cercate dappertutto, ma invano. Quanto a me,
mi sono rimesso in forze di giorno in giorno. L’uomo mi ha detto:
“Tu, tu sarai un pastore”. Cominciai il mio lavoro. Col tempo
l’uomo mi si è affezionato. Ma io non potevo restare con lui,
volevo scapparmene per stare vicino a mia madre. Ma nessuna
strada(…).
Un giorno appresi che
alcuni arabi se ne andavano a Racca. Ho riflettuto. Sono uscito di
nascosto(…). Li ho accompagnati. Otto ore dopo abbiamo visto
Racca. Non riuscivo più a marciare, ma ero contento, dato che
stavo per vedere mia madre(…). Erano le sette di sera. Ho
cominciato a cercare mia madre. Alla fine l’ho trovata. Ero
passato più volte davanti a lei e non l’avevo riconosciuta. Quando
calò la notte, ella ha voluto farmi da mangiare. Aveva fatto
cuocere delle erbe. Me le ha date. “Io, non mangio l’erba” le
dissi. Mi sono coricato senza mangiare. Al mattino presto, sono
uscito dalla tenda e sono partito(…) poiché mi rendevo conto che
se restavo, sarei morto di fame. Ho rifatto da solo tutto il
cammino di ritorno. La sera sono arrivato nel luogo
dell’accampamento. Egli mi ha chiesto dove fossi andato. Ho
cominciato col non rispondere. Dopo mi ha dato il mio pasto, ho
mangiato a sazietà. Mi ha anche portato una tazza di tè. Ho
bevuto, mi sono ripreso. Allora ho detto ciò che avevo fatto, che
ero andato a vedere mia madre. Quest’uomo mi ha detto: “Mio
bambino, io ti voglio tenere come mio figlio. Non ho bambini, tu
sei mio figlio”.
Ho ricominciato a
lavorare, a portare i montoni al pascolo. Ho anche imparato
l’arabo, così bene che ho cominciato a pensare che ero un arabo,
che dissimulavo. Sono passati due, tre mesi. Un giorno ho
incontrato un armeno che mendicava. Svelto l’ho chiamato. L’ho
fatto entrare nella tenda. Gli ho dato del pane e dello yogurt
liquido. Gli ho chiesto di dove fosse originario. Mi ha risposto
che era di Boursa. “Anch’io sono di Boursa. Sono il figlio di
Abraham Agha il droghiere” gli ho detto e subito dopo : “il mio
nome è Vahram”. Egli mi ha detto: “Tua madre ti cerca”. Ed io: “La
prossima volta che tu verrai qui, porta mia madre con te. Dille di
non preoccuparsi per me”. Gli ho consegnato di che mangiare e ho
aggiunto: “Ora non chiedere più l’elemosina, vai subito a vedere
mia madre”(…).
E’ passato un mese ed un
giorno vedo venire mia madre. Scaccio via i cani che di solito si
precipitavano addosso a coloro che non conoscevano. Conduco mia
madre alla tenda, le do da mangiare. Il mio arabo mi chiede: “Chi
è?” “E’ mia madre” gli ho risposto, “oramai non la lascerò più
sola, non c’è più altra soluzione”. Egli ha detto che lei avrebbe
potuto lavorare nelle altre tende e venire a dormire nella nostra.
Dato che mia madre sapeva cucire, ha cominciato a lavorare ed a
guadagnarsi la sua parte di cibo. E’ così che ella ha cominciato a
ristabilirsi lentamente, a prendere forze. Ella non voleva che io
andassi a lavorare da altre persone e voleva tenermi vicino. Alla
fine, mi ha preso con sé. Lavoriamo insieme. L’arabo ci ha detto:
“Vi cedo la metà della mia tenda. Restate qui”. Egli aveva pietà
di noi. Siamo restati esattamente due anni.
Uno o due mesi dopo il suo
arrivo, mia madre si è ammalata. Era la malattia dei “brividi”. Di
giorno in giorno dimagriva; io non sapevo che fare, non c’erano
medicine. Ella dissimulava e non mangiava. Gli arabi che avevano
contratto questa malattia morivano nel giro di dieci, quindici
giorni. Ho deciso allora di andare a Racca, ma senza dir nulla a
nessuno. A mezzogiorno sono arrivato a Racca e là ho constatato
che c’erano molti soldati. Ho chiesto ad uno di loro: “Avete un
medico?”(…) Gli volevo chiedere un medicinale. Il soldato mi ha
risposto: “Sì”. Mi ha dato una bottiglia piena di cachets ed ha
voluto in cambio cinque piastre(…). A mezzanotte, sono arrivato
all’accampamento. Ho dormito. Al mattino tutti mi chiedevano dove
fossi scomparso senza far rumore. Non ho detto nulla. Ho dato dei
cachets a mia madre, ma a digiuno. Quel giorno i brividi sono
diminuiti. A mezzodì ha preso un altro cachet, e poi la sera.
L’indomani ella non tremava più(…). Mia madre si riprese con
quattro cachets. Ha ricominciato a mangiare del pane. La sua
salute migliorava di giorno in giorno. Un po’ dopo, la malattia è
piombata improvvisamente su di me. Il tifo. Immediatamente la
lingua mi è diventata tutta nera(…). Dio mi ha salvato, dato che a
quei tempi chi era colpito da quella malattia moriva nel giro di
quattro giorni(…). Alla fine ci misi tre, quattro mesi per
ristabilirmi, cioè ho cominciato a camminare(…). Allora, mi sono
reso conto che i brividi di mia madre erano ricomparsi. Ella non
diceva nulla. Ben presto sono di nuovo partito per Racca dove ho
dovuto passare la notte e l’indomani sono ritornato a casa. Ho
mostrato i cachets agli arabi dicendo: “E’ questo medicinale che
ha salvato mia madre”. Mi chiesero il prezzo che valeva(…). Erano
molto sbalorditi che io potessi salvare qualcuno con cinque
piastre.
Gli arabi non ci
lasciavano: “Può un uomo fare a meno della sua patria20?”
Alla fine ci hanno lasciati(…). Noi pensavamo, noi volevamo poter
vivere. Ci hanno detto che c’era un aiuto(…). Ci hanno dato
quattro pezzi di pane di cento dirhem, due pezzi a testa(…).
L’indomani sono andato al mercato(…) camminavo per cercare
lavoro(…) ho cominciato a lavorare il quarto giorno del mese di
aprile del 1919. Ho ricevuto il mio primo salario giornaliero(…)
sono partito tutto contento di vedere mia madre. Ero felice, anche
mia madre lo fu, perché non avremmo più avuto fame, non avremmo
avuto paura della fame che conoscevamo bene>>.
Si potrebbe a lungo
meditare su questo passaggio di potere nutritivo delle mani che,
tutt’a un tratto, annodano dolorosamente insieme dei gesti
abitualmente incompatibili in tempi di pace, sia quelli dettati
dalla necessità di nutrire il bambino, ma anche dall’urgenza di
liberarsene per salvarlo, sia dettati dall’incapacità a nutrirlo,
ma anche dalla capacità ad affidarsi ad un terzo, anche uno
straniero dall’incerta affidabilità. Si potrebbe ugualmente notare
la circolazione degli imperativi e la trasmissione successiva
delle ingiunzioni in un tale destino generazionale in cui, tranne
il poter fare a meno del nutrimento, il bambino deve fuggire dalla
fame che gli riserva la prossimità della madre, ma, tranne il
poter fare a meno della madre, deve poi ricercarla al fine di
nutrirla, essere responsabile di lei e curarla; ed in cui, alla
fine, tranne il poter fare a meno della propria identità
d’appartenenza, deve abbandonare – la ripetizione è obbligatoria –
tutto sommato con ingratitudine un padre adottivo grazie al quale
lui e sua madre non morirono di fame. La sua ingratitudine è il
prezzo da pagare per avere la certezza che è sottintesa nella
questione: <<Un uomo può fare a meno della sua patria?>> e quella
dell’opposizione ben sottolineata da Hannah Arendt tra:
<<Questa confusione
disperata di questi viaggiatori simili ad Ulisse, ma che,
contrariamente a lui, non sanno chi siano>>, ed <<i
rifugiati che vanno di paese in paese>> che <<rappresentano
l’avanguardia dei loro popoli se conservano la loro identità>>
(Arendt H., 1997, 73, 75).
Egli abbandona questa
comunità che <<non ci lasciavano>>, dopo essere nonostante tutto
restato due anni vicino ad un uomo che aveva detto loro: <<Vi cedo
la metà della mia tenda. Restate qui. Egli aveva pietà di noi>> e
che, essendoglisi <<affezionato>>, aveva dichiarato: <<Mio
bambino, io voglio tenerti come mio figlio. Non ho bambini, tu sei
mio figlio>>.
Potersi nutrire per
sopravvivere, sopravvivere per poter prendere in carico la madre
della sua filiazione, ritornare alla sua affiliazione per
installarvisi la propria vita costituirebbero dunque la strategia
che illustra questo Racconto. I ribaltamenti delle priorità
consuetudinarie, che egli prende in considerazione, sono
inquietanti, essi sottolineano una logica apparentemente
paradossale in cui è la mancanza, ogni volta, che rilancia la
possibilità di mantenere la vita, e la rottura dei legami quella
di salvaguardarli, una logica che sembra operare un riordinamento
nella gerarchia dei valori umani. Questo riordinamento tuttavia
non fa che svelare l’ordine fondamentale garante dei legami
affettivi e culturali tra gli uomini, poiché colui che è
<<decaduto>> testimonia in effetti la decadenza dell’insieme umano
e riveste in ciò l’eminente dignità dei soli detentori dei punti
di repere in seno ad un caos disorganizzatore.
<<Si può>> scrive
Antelme <<riconoscersi nel rivedersi frugare come un cane tra
le bucce marcite(…) l’errore di consapevolezza non è quello di
“decadere”, bensì quello di perdere di vista il fatto che la
decadenza deve essere di tutti e per tutti>> (Antelme R.,
1957, 102).
Questi ribaltamenti che
opera l’imminenza della morte nella gerarchia familiare dei valori
e delle generazioni non sono senza alcun rapporto con lo spirito
di autonomia che sovrintende alla creatività artigianale, dato che
la norma in vigore non è più questa qui della morale sociale dei
beneficiari della sicurezza, ma piuttosto la tradizione di una
ingegnosità che sa improvvisare le condotte richieste
dall’ubiquità del pericolo mortale. Esse sono, perciò, fondatrici
di una cultura altra – che condividono indubbiamente i diversi
eredi dei crimini perpetrati su diversi popoli del mondo – poiché
le mani dei sopravvissuti e dei loro discendenti, i loro gesti
trasmettitori in modo inconscio di un’esperienza di penuria e di
terrore, il messaggio di un seno materno <<abitato da un quid da
lui stesso ignorato>> (Laplanche J., 1999, 5)21
intrattengono un rapporto con il nutrimento e con le cure portate
al bambino che non conoscono né gli psicologi esperti di buone
condotte materne, né le puericultrici dispensatrici di alimenti
sani ed equilibrati!
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Il manoscritto di una memoria da
trasmettere |
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La mia ultima parte sarà aneddotica
ed enumererà le condizioni politiche, editoriali e psichiche che
resero possibile il fatto che apparisse alla luce del giorno22
un tale <<mano-scritto>> foriero di derealizzazione, ancorché
<<paterno>> e nonostante che trasmetta, attraverso questa
inscrizione, la sua testimonianza nel campo culturale dei suoi
eredi.
Notiamo innanzitutto che
il percorso di questo testo-reliquia che, approdando alla sua
inscrizione, mi dispensa alla fine dall’assumermene da sola la
responsabilità, effettua allo stesso tempo una certa
<<localizzazione>> di ciò che si diceva nei titoli di apertura di
questa storia di vita. Se la sepoltura di questo nonno restava per
me non localizzabile, al contrario la sua inumazione, riuscita per
un pelo, gli offriva un bordo, un involucro che veniva a
raddoppiare e a sostenere il processo verbale di suo figlio
cronista, la cui esistenza non mi fu d’altronde menzionata, dopo
la morte di quest’ultimo nel 1970, se non “di sfuggita”. In questo
dettaglio sintomatico si ritrova del resto, ancora una volta
all’opera, la ripetizione dell’evitamento di una realtà che ebbe
pertanto luogo nel mondo, all’alba del XX secolo e come presagio
di altre realtà inavvicinabili che ad essa avrebbero fatto
seguito.
Sono questi due primi
involucri che richiesero da parte mia di essere duplicati
attraverso il rivestimento di una traduzione nella <<mia>> lingua,
ossia di quella che ho imparato a scuola, attraverso la sua
pubblicazione in una Rivista, quindi mediante la sua inserzione in
una raccolta23 divenuta lenzuolo di quel corpo
eterogeneo sofferente, istituito anche come nucleo e riferimento
centrale del suo contesto testuale comprendente alcuni articoli
sulla trasmissione traumatica? Tale periplo, che conta in totale
sei involucri, terminerà allora – si può alla fine sperarlo? – con
il presente commento che si assume il rischio di essere una
profanazione.
Le circostanze della prima
pubblicazione nel febbraio 1982 nella rivista “Temps Modernes”,
del Diario dal titolo <<Tutto ciò che ho patito
negli anni dal 1915 al 1919>> chiariscono certo i rapporti
esistenti tra il terrorismo, la traduzione ed il diniego. Fu
certamente la violenza di un atto terroristico armeno nello spazio
politico parigino – la presa di ostaggi al consolato di Turchia
nel settembre 1981 – che, innescando ciò che è stato chiamato il
<<terrorismo pubblicitario>>, ruppe per la prima volta un silenzio
di quasi un mezzo secolo24 sul genocidio armeno del
1915. Senza l’effrazione spettacolare contro il silenzio
dell’opinione pubblica su questo primo genocidio del XX secolo,
cioè senza l’irruzione di tale questione nel campo dell’attualità
del mondo, non avrei sicuramente incontrato alcuna accoglienza
editoriale per la pubblicazione, sotto il titolo di <<Terrorismo
di un genocidio>>, di questo Diario di cui potetti, solo
allora, consegnare la traduzione che avevo precedentemente fatto
sistemare. E’ chiaro che, senza il paravento protettore di questo
atto nella vita pubblica del Paese che aveva <<accolto>> mio
padre rifugiato, mi sarebbe stato impossibile affrontare la
vergogna di dovermi assumere la responsabilità di questo percorso.
D’altra parte non
bisognerebbe passare sotto silenzio l’ambiguità strategica di una
doppia affiliazione che annoda in un passatore, divenuto in
qualche modo un traduttore terrorista, <<chi viene accolto>> e
<<chi accoglie>>: il suo lavoro lo porta in effetti a prendere in
prestito, per la sua enunciazione, la lingua della cultura
d’accoglienza ed i privilegi delle istituzioni <<repubblicane>>
che furono implicate in modo deliberato o per impotenza in ciò che
si riferisce al suo stesso enunciato, una distruzione di cui, in
un ritorno sovversivo, egli denuncia la cancellazione e di cui
svela l’esistenza.
Per i suoi effetti d’”après
coup”, questa mia pubblicazione inaugurò certamente il mio
investimento di questa configurazione particolare di scrittura
differita di una generazione, in cui il sopravvissuto ad una
catastrofe collettiva, a cui l’avvenire è stato interdetto, non
può tuttavia avvenire, scriversi e testimoniare circa l’aborto del
proprio destino singolare se non sotto la copertura e per il
tramite di una scrittura trasferita al suo discendente25.
Se coloro che finiscono per sopravvivere a tali traumi, che
spogliano gli esseri di ogni identità singolare, sono ridotti al
punto di proteggersi più o meno in questo contenente che loro
offre il silenzio dei loro morti, i loro discendenti al contrario
si vedono necessariamente costretti al destino di dover essere i
loro porta-parola.
Un tal tipo di scrittura
per delega, in cui si tratta di offrire ai soggetti, che si
trovano in assenza di essi stessi, ciò di cui necessitano per
proteggere i loro terrori da rimuovere, costituisce certamente una
trasgressione. Avevo in effetti preso da sola ed in un clima di
angoscia spaventosa la decisione di una doppia trasgressione
pubblicando questo Diario di mio padre. Per una figlia,
allevata per di più sotto il peso di tradizioni orientali, tale
atto rappresentava una trasgressione del rispetto filiale dovuto
ai corpi degli antenati assassinati nel silenzio di tutti, ma
anche una trasgressione di fronte all’ordine pubblico del Paese
di accoglienza, poiché esso manifestava una completa approvazione
ad un atto terroristico che, mi sembrava, avrebbe segretamente
rallegrato mio padre se egli fosse stato ancora in vita. Il
capovolgimento, che io operavo nel titolo da dare al testo
<<Terrorismo di un genocidio>>, collegava la violenza della mia
azione a quella che l’aveva indotta e scrivevo:
<<Il Diario che scrisse
mio padre probabilmente poco dopo del suo arrivo in Francia nel
1921, riferisce degli eventi che egli ha vissuto quando aveva dai
14 ai 20 anni. Mentre egli era in vita io conoscevo l’esistenza di
questo documento senza averlo voluto mai vedere. Era irricevibile,
non osavo avvicinarlo, come se tale bomba avrebbe potuto esplodere
tra le mie mani. Fu solo otto anni dopo la sua morte, nel 1978,
che mi sono sentita in grado di affrontarlo e di farlo
tradurre(…). Io ritrovo in queste pagine una parte dei racconti
che hanno popolato la mia infanzia e quella di tutti gli
armeni della mia età(…). Per la memoria di questo nonno sepolto
non so dove, quella di tutti gli armeni di cui questo resoconto
suggerisce, con una sobrietà inquietante, il calvario e la fine,
per onorare lo spirito di lotta e di resistenza cui l’adolescente
di Boursa ha dovuto attingere per mantenere, nei peggiori momenti,
la vita ed il suo senso, ho creduto che fosse mio dovere rendere
pubblico il suo diario “intimo”. Mio padre, che d’altronde non ha
mai testimoniato alcuna particolare simpatia per la letteratura,
rimproverandole la sua impotenza, ossia la sua ambiguità davanti
alle imposture dei potenti, ha senz’altro voluto così, con l’atto
di scrivere, soffocare, tenere a distanza, esorcizzare il terrore
“sofferto”. Fissando sulla carta l’incandescenza della memoria,
egli cercò di temporalizzare il tempo di una generazione(…). Non
ho potuto affrontare la vergogna di dovermi assumere la
responsabilità di tale pubblicazione(…) se non dopo l’effrazione
violenta, attraverso il primo atto “terrorista”(…) spettacolare,
contro il silenzio dell’opinione pubblica sul genocidio degli
armeni(…). Senza la determinazione disperata che degli armeni vivi
osavano scandalosamente proclamare, avrei sentito il mio percorso
come una profanazione dei morti. Cosa ne è di una parola che non
può inaugurarsi se non mediante una violenza? Se un campo
simbolico non si apre se non mediante un “terrorismo”(…)>>26.
Poco a poco presi allora
coscienza di ciò che, senza dubbio, determinava i miei tentativi
di scrittura: come questo Diario traumatico e nondimeno
fondatore costituiva un corpus intoccabile che esponeva il corpo
braccato di un padre-adolescente, avevo necessariamente bisogno di
spostarne e di mediarne la lettura. Si stabiliva, a mia insaputa,
nel paradigma di una ricezione di altre figure genitoriali non
arrivate alla parola o minate dalla distruzione della loro lingua.
Essendo la parte storica più remota del mio caso personale da
considerarsi solo a titolo di esempio delle situazioni analoghe
dipendenti da altre storie catastrofiche, la testimonianza di
differenti discendenti-scrittori induceva in me la stessa
ingiunzione di mettere in parole la loro ricezione dolorosa, allo
scopo di abolire l’intensità di una lettura troppo viva, al fine
di ridurre attraverso la ripetizione l’influenza del testo
primordiale interdetto da qualsiasi commento, ma che pertanto io
mi sono permessa di commentare per la prima volta allo scopo senza
dubbio di poter, infine, separarmene, di poterlo dimenticare.
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Note dell'autrice:
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10) <<L’avvenimento traumatico è un non avvenimento, un qualcosa che
non si produce affatto>>. Questo <<primo tempo del
trauma(…) è il nucleo freddo del trauma non assimilato
dall’io>>.
11) Si veda, tra gli altri, Freud (1917, pag. 19).
12) Si veda l’illuminante commento di Jacques André (1999) al tema
dell’iscrizione psichica di un <<bianco>> la cui trasmissione
traumatica è il tema centrale della parte IV di questo scritto.
13) Sylvie Umubyeyi, 34 anni, citata in Jean Hatzfeld (2000, pagg.
226-227).
14) Sono stata molto sensibile alla caratterizzazione di questo
dispositivo di scrittura grazie a Rachel Rosenblum (2000, pagg.
123, 131) che, a proposito di Sarah Kofman, ha scritto: <<Una
strategia di inabissamento [le] permette di esprimersi grazie
all’”eterobiografia”, di scrivere “nel corpo testuale dell’altro”.
Ella è riuscita anche(…) a descriversi indirettamente, a designare
una serie di “ambasciatori” di se stessa, ad evitare i pericoli
della “soggettivazione”(…). L’aprirsi la strada verso il vero
dire passa per il rapporto stretto (di commento, di citazione, di
traduzione) con certi testi tutori, con certi testi guida>>.
15) Cfr. Bion W. R. (1982).
16) Cfr. Ferenczi (1985/ 30 luglio 1932): <<Una parte della nostra
persona può “morire” e se la parte restante sopravvive comunque al
trauma, essa si risveglia con un buco nella memoria, a ben dire
con un buco nella personalità>>.
17) Cfr. nota 8.
18) Innocent Rwiliza in Jean Hatzfeld (2000, 107-117).
19) Primo libro dei Re II/I Salomone il saggio 26, 27: <<Allora la donna
il cui figlio era vivo si rivolse al re, poiché la sua pietà si
era accesa per suo figlio, e disse: „Se tu vuoi, mio Signore! Che
si dia a lei il bambino, che non lo si uccida!(…)” “Allora il re
prese la parola e disse: “Date il bambino alla prima donna, non lo
uccidete. E’ lei la madre”>>.
20) Nota del traduttore: <<La parola “watan” di origine araba si
riferisce qui non tanto all’Armenia, che l’autore non ha mai
conosciuto, ma ad una certa identità. E’ la paura della perdita di
questa identità, che rappresenta la vita tra gli arabi nomadi, che
incita l’adolescente e sua madre a partire>> (Altounian, 1990, p.
104).
21) Cfr. Laplanche J. (1999, 206): <<Il piccolo dell’uomo deve
continuamente mettere all’opera, di fronte ai messaggi che gli
arrivano dall’altro adulto, una traduzione(…) che deve trattare in
primo luogo delle abilità non verbali (dei gesti, ad esempio). (…)
Tra questi differenti <<linguaggi>>, metto l’accento principale
sul linguaggio gestuale nelle cure materne o genitoriali>>.
22) Si veda anche Altounian J., 2002b.
23) Cfr. nota 5.
24) Andando dal trattato di Losanna (1923) che sancì l’interinazione
della scomparsa delle sanzioni nei confronti dei perpetratori del
genocidio armeno del 1915 e di quella dell’Armenia – pertanto
riconosciuta e delimitata tre anni prima dal trattato di Sèvres
(1920) – fino a circa il 1975, anno della commemorazione del
sessantesimo anniversario del genocidio e della pubblicazione
dell’opera di Jean-Marie Carzou “Arménie 1915. Un génocide
exemplaire”, Flammarion, 1975.
Tale genocidio perpetrato dal governo dei Giovani Turchi resta ancora
non riconosciuto dalla Turchia che nondimeno beneficia, nel
consesso delle Nazioni che sono preoccupate di mantenere la loro
influenza nel Vicino Oriente, del credito accordatole dagli Stati
cosiddetti <<democratici>> e dunque della garanzia implicitamente
data a questo diniego.
Si è potuto vedere un’illustrazione dell’influenza di questo diniego sui
differenti orientamenti politici della Francia nella sollecitudine
di questo o quel partito nel sostenere o nell’ostacolare il
progetto di legge del Parlamento del 29 maggio 1998: <<La Francia
riconosce pubblicamente il genocidio armeno del 1915>> fino alla
sua adozione definitiva (dopo 2 anni e mezzo!), il 18 gennaio
2001. Il senato francese sembrò in effetti incontrare degli
ostacoli insormontabili nel mettere all’ordine del giorno tale
progetto di legge che, dopo più di 80 anni e a scapito degli
<<affari esteri>>, dava agli Armeni l’occasione di intendere che
il loro Paese di accoglienza prendesse ufficialmente posizione in
relazione alle circostanze che avevano loro condotto in esso. Se
era necessario che si arrivasse ad una legge per proclamare una
verità che li costituiva in quanto tali, questo è accaduto poiché
la menzogna fino ad allora era stata la norma. Pertanto non si può
che rallegrarsi degli effetti inattesi, tragicomici di questa
miracolosa dichiarazione: tale votazione aveva, per le reazioni
violente che sollevava in Turchia, il doppio merito di autenticare
l’autore, peraltro non additato, di tale genocidio e di creare
così un imbarazzo diplomatico rivelatore delle basi negazioniste
della Realpolitik occidentale (cfr. “La Survivance”, op. cit.,
pagg. 2-3). E’ superfluo aggiungere che le stesse peripezie
agitano il Parlamento europeo che, avendo riconosciuto il
genocidio dal gennaio 1987 ed avendo posto come condizione per
l’adesione della Turchia all’Unione Europea il riconoscimento di
questo genocidio, votava, nell’ottobre 2001, una risoluzione che
non conteneva affatto, e che quindi cancellava, tale clausola, per
ribadirla nuovamente nel febbraio 2002. L’ultimo vertice di
Copenaghen del dicembre 2002 non ne faceva più alcuna menzione.
Cfr. nella bibliografia qualcuna tra le opere più recenti
riguardanti il genocidio degli armeni dell’Impero ottomano.
25) Si veda in Altounian J. (1990 e 2000, seconda parte) al di là delle
testimonianze degli armeni, Michael Arlen (“Embarquement pour
l’Ararat”), Martin Melkonian (“Le Miniaturiste”), del poeta
Nigoghos Sarafian (“Le Bois de Vincennes”), quella di Andromaca
che evoca il destino di suo figlio in Racine, di Annie Ernaux (“La
Place”, “Une femme”, “La honte”), di Eva Thomas (“Le Viol du
silence”), di Jean Améry (“Par-delà le crime et le chatiment”), di
Albert Camus (“Le Premier homme”), di Pierre Pachet (“Autobiographie
de mon père”), di Peter Handke (“Le malheur indifférent”).
26) Introduzione a <<Terrorismo di un genocidio>>, in Altounian 1990,
81, 83.
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Bibliografia: |
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