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FRENIS  zero 

Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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Autobiografie dell'inconscio.

Numero 11, anno VI, gennaio 2009

 

 

     "DI COSA SONO TESTIMONIANZA LE MANI DEI SOPRAVVISSUTI? DELL'ANNIENTAMENTO DEI VIVENTI, DELL'AFFERMAZIONE DELLA VITA" (Seconda Parte)

 

 di Janine Altounian

 


La prima parte di questo articolo è apparsa nel numero 8, anno IV, giugno 2007 della rivista Frenis Zero .

            

 

 

  Foto: Janine Altounian.

 Le mani della pietà nell’offerta di una sepoltura
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"Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi" di Giuseppe Leo

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-0-4

Anno/Year: 2008

Prezzo/Price: € 18,00

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"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi Confini"

Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.

Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas, Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.

Publisher: Schena Editore

ISBN 88-8229-567-2

Price: € 15,00

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E’ quindi dopo i titoli di testa di un tal film dell’orrore che comincia per qualcuno il film della sopravvivenza e, per coloro che lo ereditano, quello degli oblii necessari alla prosecuzione della vita, ossia alla genesi di una scrittura. Si è sottolineato in effetti come il racconto di questo giovane narratore, appena alfabetizzato e del tutto ignorante degli effetti stilistici  dei narratori, abbia saputo tuttavia <<evitare>> qualsiasi allusione a ciò che visse durante i sei giorni dell’agonia paterna per ricoprire all’inizio tale sequenza, passata sotto silenzio, con la banalità di una domanda elusiva di ogni soggettività: <<Cosa diventa un uomo gravemente malato che viene percosso?>>, per considerare in seguito  provvisoriamente la messa a morte del padre con una semplice datazione: <<Sei giorni più tardi, il giorno della morte di mio padre, essi hanno fatto nuove deportazioni>>.

         Progredendo non senza ansietà nell’elaborazione di un lavoro che si basa su un materiale pericoloso, vorrei ora mostrare il destino di una tale procedura di evitamento nella sua trasmissione agli inconsci che ne ereditano e ne contraggono il debito di una certa scrittura.

         Abbiamo visto come, dopo essere riuscito in stato di terrore a ottenere un giorno perché le mani potessero <<scavare una fossa>> e perché un <<curato>> potesse proferire certamente qualche parola su questa inumazione, l’autore di questo resoconto grezzo, in qualche modo riprendendo per conto proprio il rituale dell’inumazione ottenuto per un pelo,  seppellisce  ed inscrive per la prima volta, nelle pieghe del suo testo, uno spazio bianco che tenta di schivare la violenza della sofferenza e dell’inaudito del crimine.

         <<La scrittura gioca il ruolo di un rito di inumazione>> scrive Michel de Certeau <<essa esorcizza la morte introducendola nel discorso. D’altro canto essa ha una funzione simbolizzatrice(…): “marcare” un passato è fare posto al morto,(…) e di conseguenza utilizzare la narratività che seppellisce i morti come mezzo per fissare un posto per i vivi>> (de Certeau M., 1975, pag. 118).

         La lacuna presente nella catena verbale dell’adolescente scrittore prende così il posto delle formule rituali che presiedevano alla inumazione del morto e lascia il posto ad una nuova fase di deportazione, quella per coloro che momentaneamente restano ancora vivi: <<il giorno della morte di mio padre, essi hanno fatto nuove deportazioni>>. Le tracce dello spavento nel quale le spoglie di un padre saranno state, per un po’, lasciate agli sciacalli del deserto dell’Anatolia, vengono a trasmettersi, mi sembra, in questa strategia inconscia che, per preservare la sopravvivenza, impose poc’anzi al figlio di rompere i legami della trama testuale e quindi affettiva – o all’inverso i legami che tessono gli affetti e quindi il testo-; strategia che, più tardi, viene a ripetersi nella storia generazionale attraverso il sintomo di un apparente <<vuoto>>, di una sorta di memoria <<bianca>>, chiamata da Claude Janin (1996, pagg. 38-39) <<il nucleo freddo>>10  del trauma. Si tratta senza dubbio di tracce di un tale terrore, generato retrospettivamente (“après coup”) e trasmesso ai discendenti mediante il ricordo inconscio di una catastrofe che, in questo caso, era certo <<mancata>> dal prodursi ma che si era massivamente prodotta per tante altre persone di questa Storia e per tanti altri innumerevoli delle nostre storie contemporanee, quando i cadaveri di antenati assassinati erano e sono abbandonati nell’incubo irrappresentabile del nulla.

         Prendendo dunque un po’ al rovescio il fenomeno di questo evitamento disgiuntivo nella linearità del racconto, mi porrei delle domande su questa omissione dello spavento e sulle sue modalità di trasmissione in quanto atto <<mancato>> riuscito, ma riuscito a malapena ed abitato dall’imminenza del crollo psichico e dell’impotenza. D’altronde, se nomino una tale strategia <<omissione>> e non <<rimozione>> è perché nella serie delle <<operazioni mancate>> Freud avvicina tra le altre cose il fatto di dimenticare (das Vergessen)  al fatto di perdersi (das Verlegen)11, cioè di sistemare un oggetto in un luogo il cui ricordo ci sfugge. Non è alla <<rimozione>> di un territorio dato verso qualche altro dell’inconscio che rinvia, in effetti, la riflessione di una giovane rifugiata ruandese, ma a questa <<utopia>> dello spavento da cui il soggetto si assenta per sopravvivere (Winnicott D. W, 1975b)12.

         <<Quando penso al genocidio>> dice costei <<rifletto per sapere dove metterlo nell’esistenza, ma non trovo alcun posto>>

         e d’altronde questa giovane donna stima come tempo di vita il guadagno apportato dall’ignorare ciò che non trova nessun posto nello psichico:

         <<se ci si attarda(…) sulla paura del genocidio, si perde(…) ciò che si è riusciti a salvare della vita>>13.

         Se nell’oblio ciò che fallisce è la stessa cosa che riesce a malapena a gestire uno spazio/tempo di sopravvivenza, l’interfaccia dello scarto così creato avvia l’invaginazione di un altro spazio/tempo per un lavoro che deve avvenire. La mia scrittura non è stata  forse sottesa, fino ad ora, dal progetto, dapprima inconscio, di accogliere questo Diario di deportazione spostando la sua ricezione insostenibile su quell’altra testimonianza traumatica alla ricerca di destinatari e creatori in letteratura?   Ero infatti meno coinvolta dalla figura del nonno, sepolto per un pelo, rispetto a quella del figlio, depositario e trasmettitore di questa separazione dai morti, <<assentandosi>> lui stesso nell’esercizio implicito della propria paternità al fine di non contaminare ciò che trasmetteva della vita ai suoi figli. Anch’io ero implicata nell’impatto di questo terrore primordiale, trasmesso tale e quale, <<privato d’affettività>>, dato che era senz’altro esso che si manifestava nella mia compulsione a <<raccogliere>> ciò che non aveva potuto essere raccolto. In più il mio interesse per la letteratura, permettendomi di scrivere “nel corpo testuale dell’altro”14, si fondava essenzialmente sul lavoro psichico all’opera negli scrittori che cercano di restaurare i legami della memoria e della relazione col mondo, legami interrotti nel sopravvissuto in cui lo spavento originario genera un’angoscia del legame.

         Per sopravvivere è necessario certamente operare un’incisione all’interno della memoria, ma anche nella relazione con l’altro, in particolare nella relazione col proprio figlio. In altre parole, il padre sepolto a stento ed il figlio <<presente a metà>> nel presente dei suoi figli non  costituirebbero che una sola realtà. Nell’esempio del materiale studiato, l’angoscia nell’”après-coup di aver evitato di abbandonare un corpo paterno alle fosse comuni, angoscia che assilla l’apparente omissione del figlio, si ripete in quest’ultimo in  forma inversa, nell’evitamento, nell’aggiramento del luogo psichico in cui ogni cosa che viene messa in legame15, suscettibile di condurre al rischio di risvegliare il vissuto terrorizzante, è diventata intollerabile.

         Il terrore traumatico, non provato dal soggetto in quanto espulso durante l’effrazione, attraversa allora le generazioni dei discendenti scavando uno scarto, un’inibizione del contatto che costituirebbe una parola suscettibile di indirizzarsi agli oggetti amati. Tale impedimento di un reale investimento, sintomo di una mancanza nell’essere <<per>> sé e <<per>> l’altro, tale legame impotente ad annodarsi con il figlio, resta la traccia nella memoria di un lutto per sempre impossibile da elaborare. Lo spavento e la volontà di dimenticare lo spavento stesso generano, secondo Ferenczi16, nella parte della vita psichica che sopravvive al trauma, una zona intoccabile e muta che il figlio, nella sua pietà filiale, rispetta in modo spontaneo allo scopo di assumersene l’appartenenza e di accoglierne fedelmente il messaggio implicito. Egli può anche divenire scrittore per condurlo ad una sua esplicitazione, facendo così della letteratura, luogo della sepoltura del padre, una terra in cui egli si inscrive e si libera della propria eredità di figlio o di figlia.

         Per <<evitamento>> dell’affetto del lutto bisogna dunque intendere, in un’accezione inversa rispetto al reale divenuto fondatore, che un figlio, a cui verrebbe trasmessa questa paternità del terrore, resti sotto l’influenza di un impedimento a dialogare con qualsiasi oggetto d’amore, reso a questo modo virtuale. Interiorizzando la disumanità di un crimine restato impunito o quella di una mancanza di cui egli potrebbe essersi reso colpevole, egli non può far altro che <<evitare>> di rivolgersi a sua volta al proprio figlio. E’ da questa disperazione nel vero senso della parola che dipendono, mi sembra, i supposti mutacismi di coloro che sopravvivono alla traversata dell’orrore. Certo, essi possono parlare, raccontare, ma non parlare a chi occupa per loro un posto di altro, dato che sanno che nessun altro fu là nel momento in cui gli era necessario, per sopravvivere, abbandonare <<quasi>> degli esseri cari, esposti all’onnipotenza del massacro e degli elementi naturali. Risentendo crudelmente l’assenza di una parola che non ha potuto essere emessa, certi scrittori offrono allora, per mezzo della letteratura e al contrario delle generazioni, la parola mancante di una relazione in sospeso, una parola insomma performativa che dia esistenza al sé dando esistenza all’altro e che caratterizzi eloquentemente la formula di Michel de Certeau in <<un orizzonte di incontro tra la psicoanalisi e la mistica>>:

         <<”Se tu mi parli, io nasco”; o ancora “Se tu mi parli, io esisto”>> (de Certeau M., 1987, 184, 187).

         La metabolizzazione del materiale psichico nella condizione di sofferenza, che lo scrittore depositario cerca di operare, lo trasforma allora in evento soggettivato, che ha avuto luogo da qualche parte ed a qualcuno del quale egli riabilita, reincarna, si riappropria dell’esistenza prima di poterlo, eventualmente, dimenticare alla fine. In effetti si può pensare che solo ciò che è stato <<localizzato>> da qualche parte nel mondo dei vivi possa essere rimosso. Se la localizzazione è impossibile, la presa di distanza non lo è ugualmente di fronte a ciò che si vive attraverso il discendente non già in una prossimità, ma in una contaminazione ed in un sconfinamento nel senso dato da Winnicott17. In riferimento alla <<narratività che seppellisce i morti come mezzo di fissare un posto per i vivi>> (de Certeau M., 1975, 118), si può dire che l’assenza di localizzazione psichica dell’incontro con lo spaventoso significa ugualmente un’assenza di delimitazione tra i morti ed i vivi. E’ ciò che esprime chiaramente un’altra testimonianza di un sopravvissuto ruandese:

         <<Nel rifugiato(…) qualcosa di misterioso si è bloccato nel più profondo del suo essere durante il genocidio(…). Egli ha la tendenza a non credersi più realmente vivo>>18   (Hatzfeld J., 2000, 107, 117).

         Il ricordo traumatico, rimuginato o rinchiuso nel silenzio da parte dei genitori dall’io svanito nella tempesta, sembra in effetti provenire da un altrove allucinato che ricorda stranamente, alle orecchie dei vivi ingenuamente normali, il discorso dei <<posseduti>>, <<in quanto tale discorso  si dice parlato da un altro …>>.

         <<C’è, osserva il ricercatore che mette in evidenza “L’absent de l’histoire” (de Certeau M., 1973), indeterminazione di luogo nel definire da dove esse parlino e che si dà sempre come un “altrove” che parla in me>>. <<Qui, il contenuto è conosciuto, e colui che parla sconosciuto: si ha nei testi di possessione il marchio di questo dileguamento del soggetto>>  (de Certeau M., 1975, 251, 271).

         Ci sarebbe dunque una certa analogia tra l’intento della letteratura e la storiografia poiché questa,

         <<attraverso la sua narratività, (…) fornisce alla morte una rappresentazione che, installando la mancanza nel linguaggio, al di fuori dell’esistenza, ha il valore di esorcismo contro l’angoscia>> (de Certeau M., 1975, 120).

         Ad essa non è meno prossimo lo scrittore erede che opera una tale installazione nel linguaggio a partire da una identità scissa: se lo storico <<fa parlare il corpo che tace>> (de Certeau M., 1975, 9), l’erede dal canto suo dispone delle proprie identificazioni dolorose al <<corpo che tace>> e lo piega, mette in prospettiva il discorso del sapere storico, forse per attenuare il disagio della sua scissione interna.

         <<Quando, nei pressi della tomba di suo padre, egli sente il tempo disarticolarsi – questo nuovo ordine del tempo è quello del libro>> (Camus A., 1994, 317).

         La scrittura nasce da questa <<disarticolazione>>, essa la elabora lavorando le parole.

 

 

   

 

 
 
 
 
  Le mani del dono

 

 

Nel corso di questo sviluppo che si fonda sulla seconda sequenza dei nostri <<titoli di testa>>, si vedranno essenzialmente funzionare differenti strategie di capovolgimento dettate dalla necessità di restare in vita quando nulla può oramai nutrire questa vita.

         Il primo capovolgimento dipende dalla dimostrazione sconcertante di Robert Antelme: ciò che, nei detenuti dei campi di concentramento, potrebbe sembrare una <<decadenza>> non è altro che <<la rivendicazione dei valori più alti>>. Si può in effetti mettere in parallelo la scena precedente in cui <<non ci sono più cavallette, dato che tutti le avevano mangiate>> con <<la situazione ultima di resistenza>> di <<colui che mangia delle buccie>>:

 

         <<L’esperienza di colui che mangia le bucce è una delle situazioni ultime di resistenza(…). Ci sta tutto:(…) la rivendicazione – nell’accanimento del mangiare per vivere – dei valori più alti. Lottando per vivere, egli lotta per giustificare tutti i valori(…). Colui che disprezza il compagno che mangia le bucce(…) lo disprezza poiché il suo compagno “non si rispetta più”(…). Molti hanno mangiato le bucce. Essi non erano certamente consapevoli, il più delle volte, della grandezza che è possibile trovare in questo atto(…). Le prospettive di liberazione dell’umanità nel suo insieme passano da qui, da questa “decadenza”>> (Antelme R., 1957, 101).

 

         Il secondo capovolgimento richiama quello operato nel Giudizio di Salomone19   attraverso la figura della vera madre che, per salvare il suo bambino, lo abbandona – cioè introduce violentemente, laddove regna la morte, un’istanza terza tra lei e lui; capovolgimento che nel nostro caso porta all’ultimo ribaltamento di questa saga facendo in modo che il figlio, una volta nutrito, ritorni in seguito dal luogo che lo salva dalla fame per, a sua volta, nutrire e curare la madre.

 

 

 

 

Un flacone di olio di rosa (seguito)

 

 

 

 
 

<<L’arabo ci ha fatto salire sul suo asino. Sei ore più tardi, siamo arrivati al suo accampamento. Ci ha dato del pane, abbiamo mangiato, mi ha preso nella sua tenda. Ha messo Haig nella tenda vicina. L’indomani, al mattino, ho visto tutt’a un tratto che le persone che avevano ospitato Haig erano partite. Le ho cercate dappertutto, ma invano. Quanto a me, mi sono rimesso in forze di giorno in giorno. L’uomo mi ha detto: “Tu, tu sarai un pastore”. Cominciai il mio lavoro. Col tempo l’uomo mi si è affezionato. Ma io non potevo restare con lui, volevo scapparmene per stare vicino a mia madre. Ma nessuna strada(…).

 

         Un giorno appresi che alcuni arabi se ne andavano a Racca. Ho riflettuto. Sono uscito di nascosto(…). Li ho accompagnati. Otto ore dopo abbiamo visto Racca. Non riuscivo più a marciare, ma ero contento, dato che stavo per vedere mia madre(…). Erano le sette di sera. Ho cominciato a cercare mia madre. Alla fine l’ho trovata. Ero passato più volte davanti a lei e non l’avevo riconosciuta. Quando calò la notte, ella ha voluto farmi da mangiare. Aveva fatto cuocere delle erbe. Me le ha date. “Io, non mangio l’erba” le dissi. Mi sono coricato senza mangiare. Al mattino presto, sono uscito dalla tenda e sono partito(…) poiché mi rendevo conto che se restavo, sarei morto di fame. Ho rifatto da solo tutto il cammino di ritorno. La sera sono arrivato nel luogo dell’accampamento. Egli mi ha chiesto dove fossi andato. Ho cominciato col non rispondere. Dopo mi ha dato il mio pasto, ho mangiato a sazietà. Mi ha anche portato una tazza di tè. Ho bevuto, mi sono ripreso. Allora ho detto ciò che avevo fatto, che ero andato a vedere mia madre. Quest’uomo mi ha detto: “Mio bambino, io ti voglio tenere come mio figlio. Non ho bambini, tu sei mio figlio”.

 

         Ho ricominciato a lavorare, a portare i montoni al pascolo. Ho anche imparato l’arabo, così bene che ho cominciato a pensare che ero un arabo, che dissimulavo. Sono passati due, tre mesi. Un giorno ho incontrato un armeno che mendicava. Svelto l’ho chiamato. L’ho fatto entrare nella tenda. Gli ho dato del pane e dello yogurt liquido. Gli ho chiesto di dove fosse originario. Mi ha risposto che era di Boursa. “Anch’io sono di Boursa. Sono il figlio di Abraham Agha il droghiere” gli ho detto e subito dopo : “il mio nome è Vahram”. Egli mi ha detto: “Tua madre ti cerca”. Ed io: “La prossima volta che tu verrai qui, porta mia madre con te. Dille di non preoccuparsi per me”. Gli ho consegnato di che mangiare e ho aggiunto: “Ora non chiedere più l’elemosina, vai subito a vedere mia madre”(…).

 

         E’ passato un mese ed un giorno vedo venire mia madre. Scaccio via i cani che di solito si precipitavano addosso a coloro che non conoscevano. Conduco mia madre alla tenda, le do da mangiare. Il mio arabo mi chiede: “Chi è?” “E’ mia madre” gli ho risposto, “oramai non la lascerò più sola, non c’è più altra soluzione”. Egli ha detto che  lei avrebbe potuto lavorare nelle altre tende e venire a dormire nella nostra. Dato che mia madre sapeva cucire, ha cominciato a lavorare ed a guadagnarsi la sua parte di cibo. E’ così che ella ha cominciato a ristabilirsi lentamente, a prendere forze. Ella non voleva che io andassi a lavorare da altre persone e voleva tenermi vicino. Alla fine, mi ha preso con sé. Lavoriamo insieme. L’arabo ci ha detto: “Vi cedo la metà della mia tenda. Restate qui”. Egli aveva pietà di noi. Siamo restati esattamente due anni.

 

         Uno o due mesi dopo il suo arrivo, mia madre si è ammalata. Era la malattia dei “brividi”. Di giorno in giorno dimagriva; io non sapevo che fare, non c’erano medicine. Ella dissimulava e non mangiava. Gli arabi che avevano contratto questa malattia morivano nel giro di dieci, quindici giorni. Ho deciso allora di andare a Racca, ma senza dir nulla a nessuno. A mezzogiorno sono arrivato a Racca e là ho constatato che c’erano molti soldati. Ho chiesto ad uno di loro: “Avete un medico?”(…) Gli volevo chiedere un medicinale. Il soldato mi ha risposto: “Sì”. Mi ha dato una bottiglia piena di cachets ed ha voluto in cambio cinque piastre(…). A mezzanotte, sono arrivato all’accampamento. Ho dormito. Al mattino tutti mi chiedevano dove fossi scomparso senza far rumore. Non ho detto nulla. Ho dato dei cachets a mia madre, ma a digiuno. Quel giorno i brividi sono diminuiti. A mezzodì ha preso un altro cachet, e poi la sera. L’indomani ella non tremava più(…). Mia madre si riprese con quattro cachets. Ha ricominciato a mangiare del pane. La sua salute migliorava di giorno in giorno. Un po’ dopo, la malattia è piombata improvvisamente su di me. Il tifo. Immediatamente la lingua mi è diventata tutta nera(…). Dio mi ha salvato, dato che a quei tempi chi era colpito da quella malattia moriva nel giro di quattro giorni(…). Alla fine ci misi tre, quattro mesi per ristabilirmi, cioè ho cominciato a camminare(…). Allora, mi sono reso conto che i brividi di mia madre erano ricomparsi. Ella non diceva nulla. Ben presto sono di nuovo partito per Racca dove ho dovuto passare la notte e l’indomani sono ritornato a casa. Ho mostrato i cachets agli arabi dicendo: “E’ questo medicinale che ha salvato mia madre”. Mi chiesero il prezzo che valeva(…). Erano molto sbalorditi che io potessi salvare qualcuno con cinque piastre.

 

         Gli arabi non ci lasciavano: “Può un uomo fare a meno della sua patria20?” Alla fine ci hanno lasciati(…). Noi pensavamo, noi volevamo poter vivere. Ci hanno detto che c’era un aiuto(…). Ci hanno dato quattro pezzi di pane di cento dirhem, due pezzi a testa(…). L’indomani sono andato al mercato(…) camminavo per cercare lavoro(…) ho cominciato a lavorare il quarto giorno del mese di aprile del 1919. Ho ricevuto il mio primo salario giornaliero(…) sono partito tutto contento di vedere mia madre. Ero felice, anche mia madre lo fu, perché non avremmo più avuto fame, non avremmo avuto paura della fame che conoscevamo bene>>.

 

         Si potrebbe a lungo meditare su questo passaggio di potere nutritivo delle mani che, tutt’a un tratto, annodano dolorosamente insieme dei gesti abitualmente incompatibili in tempi di pace, sia quelli dettati dalla necessità di nutrire il bambino, ma anche dall’urgenza di liberarsene per salvarlo, sia dettati dall’incapacità a nutrirlo, ma anche dalla capacità ad affidarsi ad un terzo, anche uno straniero dall’incerta affidabilità. Si potrebbe ugualmente notare la circolazione degli imperativi e la trasmissione successiva delle ingiunzioni in un tale destino generazionale in cui, tranne il poter fare a meno del nutrimento, il bambino deve fuggire dalla fame che gli riserva la prossimità della madre, ma, tranne il poter fare a meno della madre, deve poi ricercarla al fine di nutrirla, essere responsabile di lei e curarla; ed in cui, alla fine, tranne il poter fare a meno della propria identità d’appartenenza, deve abbandonare – la ripetizione è obbligatoria – tutto sommato con ingratitudine un padre adottivo grazie al quale lui e sua madre non morirono di fame. La sua ingratitudine è il prezzo da pagare per avere la certezza che è sottintesa nella questione: <<Un uomo può fare a meno della sua patria?>> e quella dell’opposizione ben sottolineata da Hannah Arendt tra:

 

         <<Questa confusione disperata di questi viaggiatori simili ad Ulisse, ma che, contrariamente a lui, non sanno chi siano>>, ed <<i rifugiati che vanno di paese in paese>> che <<rappresentano l’avanguardia dei loro popoli se conservano la loro identità>> (Arendt H., 1997, 73, 75).

 

         Egli abbandona questa comunità che <<non ci lasciavano>>, dopo essere nonostante tutto restato due anni vicino ad un uomo che aveva detto loro: <<Vi cedo la metà della mia tenda. Restate qui. Egli aveva pietà di noi>> e che, essendoglisi <<affezionato>>, aveva dichiarato: <<Mio bambino, io voglio tenerti come mio figlio. Non ho bambini, tu sei mio figlio>>.

 

         Potersi nutrire per sopravvivere, sopravvivere per poter prendere in carico la madre della sua filiazione, ritornare alla sua affiliazione per installarvisi la propria vita costituirebbero dunque la strategia che illustra questo Racconto. I ribaltamenti delle priorità consuetudinarie, che egli prende in considerazione,   sono inquietanti, essi sottolineano una logica apparentemente paradossale in cui è la mancanza, ogni volta, che rilancia la possibilità di mantenere la vita, e la rottura dei legami quella di salvaguardarli, una logica che sembra operare un riordinamento nella gerarchia dei valori umani. Questo riordinamento tuttavia non fa che svelare l’ordine fondamentale garante dei legami affettivi e culturali tra gli uomini, poiché colui che è <<decaduto>> testimonia in effetti la decadenza dell’insieme umano e riveste in ciò l’eminente dignità dei soli detentori dei punti di repere in seno ad un caos disorganizzatore.

 

         <<Si può>> scrive Antelme <<riconoscersi nel rivedersi frugare come un cane  tra le bucce marcite(…) l’errore di consapevolezza non è quello di “decadere”, bensì quello di perdere di vista il fatto che la decadenza deve essere di tutti e per tutti>> (Antelme R., 1957, 102).

 

         Questi ribaltamenti che opera l’imminenza della morte nella gerarchia familiare dei valori e delle generazioni non sono senza alcun rapporto con lo spirito di autonomia che sovrintende alla creatività artigianale, dato che la norma in vigore non è più questa qui della morale sociale dei beneficiari della sicurezza, ma piuttosto la tradizione di una ingegnosità che sa improvvisare le condotte richieste dall’ubiquità del pericolo mortale. Esse sono, perciò, fondatrici di una cultura altra – che condividono indubbiamente i diversi eredi dei crimini perpetrati su diversi popoli del mondo – poiché le mani dei sopravvissuti e dei loro discendenti, i loro gesti trasmettitori in modo inconscio di un’esperienza di penuria e di terrore, il messaggio di un seno materno <<abitato da un quid da lui stesso ignorato>> (Laplanche J., 1999, 5)21    intrattengono un rapporto con il nutrimento e con le cure portate al bambino che non conoscono né gli psicologi esperti di buone condotte materne, né le puericultrici dispensatrici di alimenti sani ed equilibrati!

 

 

 

 

 

 

 

   

Il manoscritto di una memoria da trasmettere

 

 

La mia ultima parte sarà aneddotica ed enumererà le condizioni politiche, editoriali e psichiche che resero possibile il fatto che apparisse alla luce del giorno22  un tale <<mano-scritto>> foriero di derealizzazione, ancorché <<paterno>> e nonostante  che trasmetta, attraverso questa inscrizione, la sua testimonianza nel campo culturale dei suoi eredi.

 

         Notiamo innanzitutto che il percorso di questo testo-reliquia che, approdando alla sua inscrizione, mi dispensa alla fine dall’assumermene da sola la responsabilità, effettua allo stesso tempo una certa <<localizzazione>> di ciò che si diceva nei titoli di apertura di questa storia di vita. Se la sepoltura di questo nonno restava per me non localizzabile, al contrario la sua inumazione, riuscita per un pelo, gli offriva un bordo, un involucro che veniva a raddoppiare e a sostenere il processo verbale di suo figlio cronista, la cui esistenza non mi fu d’altronde menzionata, dopo la morte di quest’ultimo nel 1970, se non “di sfuggita”. In questo dettaglio sintomatico si ritrova del resto, ancora una volta all’opera, la ripetizione dell’evitamento di una realtà che ebbe pertanto luogo nel mondo, all’alba del XX secolo e come presagio di altre realtà inavvicinabili che ad essa avrebbero fatto seguito.

 

         Sono questi due primi involucri che richiesero da parte mia di essere duplicati attraverso il rivestimento di una traduzione nella <<mia>> lingua, ossia di quella che ho imparato a scuola, attraverso la sua pubblicazione in una Rivista, quindi mediante la sua inserzione in una raccolta23    divenuta lenzuolo di quel corpo eterogeneo sofferente, istituito anche come  nucleo e riferimento centrale del suo contesto testuale comprendente alcuni articoli sulla trasmissione traumatica? Tale periplo, che conta in totale sei involucri, terminerà allora – si può alla fine sperarlo? – con il presente commento che si assume il rischio di essere una profanazione.

 

         Le circostanze della prima pubblicazione nel febbraio 1982 nella rivista “Temps Modernes”, del Diario dal titolo <<Tutto ciò che ho patito negli anni dal 1915 al 1919>> chiariscono certo i rapporti esistenti tra il terrorismo, la traduzione ed il diniego. Fu certamente la violenza di un atto terroristico armeno nello spazio politico parigino – la presa di ostaggi al consolato di Turchia nel settembre 1981 – che, innescando ciò che è stato chiamato il <<terrorismo pubblicitario>>, ruppe per la prima volta un silenzio di quasi un mezzo secolo24 sul genocidio armeno del 1915. Senza l’effrazione spettacolare contro il silenzio dell’opinione pubblica su questo primo genocidio del XX secolo, cioè senza l’irruzione di tale questione nel campo dell’attualità del mondo, non avrei sicuramente incontrato alcuna accoglienza editoriale per la pubblicazione, sotto il titolo di <<Terrorismo di un genocidio>>, di questo Diario di cui potetti, solo allora, consegnare la traduzione che avevo precedentemente fatto sistemare. E’ chiaro che, senza il paravento protettore di questo atto nella vita pubblica del Paese che aveva <<accolto>>  mio padre rifugiato, mi sarebbe stato impossibile affrontare la vergogna di dovermi assumere la responsabilità di questo percorso.

 

         D’altra parte non bisognerebbe passare sotto silenzio l’ambiguità strategica di una doppia affiliazione che annoda in un passatore, divenuto in qualche modo un traduttore terrorista, <<chi viene accolto>> e <<chi accoglie>>: il suo lavoro lo porta in effetti a prendere in prestito, per la sua enunciazione, la lingua della cultura d’accoglienza ed i privilegi delle istituzioni <<repubblicane>> che furono implicate in modo deliberato o per impotenza in ciò che si riferisce al suo stesso enunciato, una distruzione di cui, in un ritorno sovversivo, egli denuncia la cancellazione e di cui svela l’esistenza.

 

         Per i suoi effetti d’”après coup”, questa mia pubblicazione inaugurò certamente il mio investimento di questa configurazione particolare di scrittura differita di una generazione, in cui il sopravvissuto ad una catastrofe collettiva, a cui l’avvenire è stato interdetto, non può tuttavia avvenire, scriversi e testimoniare circa l’aborto del proprio destino singolare se non sotto la copertura e per il tramite di una scrittura trasferita al suo discendente25. Se coloro che finiscono per sopravvivere a tali traumi, che spogliano gli esseri di ogni identità singolare, sono ridotti al punto di proteggersi più o meno in questo contenente che loro offre il silenzio dei loro morti, i loro discendenti al contrario si vedono necessariamente costretti al destino di dover essere i loro porta-parola.

 

         Un tal tipo di scrittura per delega,  in cui si tratta di offrire ai soggetti, che si trovano in assenza di essi stessi, ciò di cui necessitano per proteggere i loro terrori da rimuovere, costituisce certamente una trasgressione. Avevo in effetti preso da sola ed in un clima di angoscia spaventosa la decisione di una doppia trasgressione pubblicando questo Diario di mio padre. Per una figlia, allevata per di più sotto il peso di tradizioni orientali, tale atto rappresentava una trasgressione del rispetto filiale dovuto ai corpi degli antenati assassinati nel silenzio di tutti, ma anche una trasgressione  di fronte all’ordine pubblico del Paese di accoglienza, poiché esso manifestava una completa approvazione ad un atto terroristico che, mi sembrava, avrebbe segretamente rallegrato mio padre se egli fosse stato ancora in vita. Il capovolgimento, che io operavo nel titolo da dare al testo <<Terrorismo di un genocidio>>, collegava la violenza della mia azione a quella che l’aveva indotta e scrivevo:

 

         <<Il Diario che scrisse mio padre probabilmente poco dopo del suo arrivo in Francia nel 1921, riferisce degli eventi che egli ha vissuto quando aveva dai 14 ai 20 anni. Mentre egli era in vita io conoscevo l’esistenza di questo documento senza averlo voluto mai vedere. Era irricevibile, non osavo avvicinarlo, come se tale bomba avrebbe potuto esplodere tra le mie mani. Fu solo otto anni dopo la sua morte, nel 1978, che mi sono sentita  in grado di affrontarlo e di farlo tradurre(…). Io ritrovo in queste pagine una parte dei racconti che hanno popolato la mia infanzia e quella di tutti gli armeni della mia età(…). Per la memoria di questo nonno sepolto non so dove, quella di tutti gli armeni di cui questo resoconto suggerisce, con una sobrietà inquietante, il calvario e la fine, per onorare lo spirito di lotta e di resistenza cui l’adolescente di Boursa ha dovuto attingere per mantenere, nei peggiori momenti, la vita ed il suo senso, ho creduto che fosse mio dovere rendere pubblico il suo diario “intimo”. Mio padre, che d’altronde non ha mai testimoniato alcuna particolare simpatia per la letteratura, rimproverandole la sua impotenza, ossia la sua ambiguità davanti alle imposture dei potenti, ha senz’altro voluto così, con l’atto di scrivere, soffocare, tenere a distanza, esorcizzare il terrore “sofferto”. Fissando sulla carta l’incandescenza della memoria, egli cercò di temporalizzare il tempo di una generazione(…). Non ho potuto affrontare la vergogna di dovermi assumere la responsabilità di tale pubblicazione(…) se non dopo l’effrazione violenta, attraverso il primo atto “terrorista”(…) spettacolare, contro il silenzio dell’opinione pubblica sul genocidio degli armeni(…). Senza la determinazione disperata che degli armeni vivi osavano scandalosamente proclamare, avrei sentito il mio percorso come una profanazione dei morti. Cosa ne è di una parola che non può inaugurarsi se non mediante una violenza? Se un campo simbolico non si apre se non mediante un “terrorismo”(…)>>26.

 

         Poco a poco presi allora coscienza di ciò che, senza dubbio, determinava i miei tentativi di scrittura: come questo Diario traumatico e nondimeno fondatore costituiva un corpus intoccabile che esponeva il corpo braccato di un padre-adolescente, avevo necessariamente bisogno di spostarne e di mediarne la lettura. Si stabiliva, a mia insaputa, nel  paradigma di una ricezione di altre figure genitoriali non arrivate alla parola o minate dalla distruzione della loro lingua. Essendo la parte storica più remota  del mio caso personale  da considerarsi solo  a titolo di esempio  delle situazioni analoghe dipendenti da altre storie catastrofiche, la testimonianza di differenti discendenti-scrittori induceva in me la stessa ingiunzione di mettere in parole la loro ricezione dolorosa, allo scopo di abolire l’intensità di una lettura troppo viva, al fine di ridurre attraverso la ripetizione l’influenza  del testo primordiale interdetto da qualsiasi commento, ma che pertanto io mi sono permessa di commentare per la prima volta allo scopo senza dubbio di poter, infine, separarmene, di poterlo dimenticare.

 

 

 

 

   
   
   
 

 

   
   
 

 

   
 

Note dell'autrice:

 

 
 

10) <<L’avvenimento traumatico è un non avvenimento, un qualcosa che non si produce affatto>>. Questo <<primo tempo del trauma(…) è il nucleo freddo del trauma non assimilato dall’io>>.

 

11) Si veda, tra gli altri, Freud (1917, pag. 19).

 

12) Si veda l’illuminante commento di Jacques André (1999) al tema dell’iscrizione psichica di un <<bianco>> la cui trasmissione traumatica è il tema centrale della parte IV di questo scritto.

 

13) Sylvie Umubyeyi, 34 anni, citata in Jean Hatzfeld (2000, pagg. 226-227).

 

14) Sono stata molto sensibile alla caratterizzazione di questo dispositivo di scrittura grazie a Rachel Rosenblum (2000, pagg. 123, 131) che, a proposito di Sarah Kofman, ha scritto: <<Una strategia di inabissamento [le] permette di esprimersi grazie all’”eterobiografia”, di scrivere “nel corpo testuale dell’altro”. Ella è riuscita anche(…) a descriversi indirettamente, a designare una serie di “ambasciatori” di se stessa, ad evitare i pericoli della “soggettivazione”(…). L’aprirsi la strada verso il vero dire  passa per il rapporto stretto (di commento, di citazione, di traduzione) con certi testi tutori, con certi testi guida>>.

 

15) Cfr. Bion W. R. (1982).

 

16) Cfr. Ferenczi (1985/ 30 luglio 1932): <<Una parte della nostra persona può “morire” e se la parte restante sopravvive comunque al trauma, essa si risveglia con un buco nella memoria, a ben dire con un buco nella personalità>>.

 

17) Cfr. nota 8.

 

18) Innocent Rwiliza in Jean Hatzfeld (2000, 107-117).

 

19) Primo libro dei Re II/I Salomone il saggio 26, 27: <<Allora la donna il cui figlio era vivo si rivolse al re, poiché la sua pietà si era accesa per suo figlio, e disse: „Se tu vuoi, mio Signore! Che  si dia a lei  il bambino, che non lo si uccida!(…)” “Allora il re prese la parola e disse: “Date il bambino alla prima donna, non lo uccidete. E’ lei la madre”>>.

 

20) Nota del traduttore: <<La parola “watan” di origine araba si riferisce qui non tanto all’Armenia, che l’autore non ha mai conosciuto, ma ad una certa identità. E’ la paura della perdita di questa identità, che rappresenta la vita tra gli arabi nomadi, che incita l’adolescente e sua madre a partire>> (Altounian, 1990, p. 104).

 

21) Cfr. Laplanche J. (1999, 206): <<Il piccolo dell’uomo deve continuamente mettere all’opera, di fronte ai messaggi che gli arrivano dall’altro adulto, una traduzione(…) che deve trattare in primo luogo delle abilità non verbali (dei gesti, ad esempio). (…) Tra questi differenti <<linguaggi>>, metto l’accento principale sul linguaggio gestuale nelle cure materne o genitoriali>>.

 

22) Si veda anche Altounian J., 2002b.

 

23) Cfr. nota 5.

 

24) Andando dal trattato di Losanna (1923) che sancì l’interinazione della scomparsa delle sanzioni nei confronti dei perpetratori del genocidio armeno del 1915 e di quella dell’Armenia – pertanto riconosciuta e delimitata tre anni prima dal trattato di Sèvres (1920) – fino a circa il 1975, anno della commemorazione del sessantesimo anniversario del genocidio e della pubblicazione dell’opera di Jean-Marie Carzou “Arménie 1915. Un génocide exemplaire”, Flammarion, 1975.

Tale genocidio perpetrato dal governo dei Giovani Turchi resta ancora non riconosciuto dalla Turchia che nondimeno beneficia, nel consesso delle Nazioni che sono preoccupate di mantenere la loro influenza nel Vicino Oriente, del credito accordatole dagli Stati cosiddetti <<democratici>> e dunque della garanzia implicitamente data a questo diniego.

Si è potuto vedere un’illustrazione dell’influenza di questo diniego sui differenti orientamenti politici della Francia nella sollecitudine di questo o quel partito nel sostenere o nell’ostacolare il progetto di legge del Parlamento del 29 maggio 1998: <<La Francia riconosce pubblicamente il genocidio armeno del 1915>> fino alla sua adozione definitiva (dopo 2 anni e mezzo!), il 18 gennaio 2001. Il senato francese sembrò in effetti incontrare degli ostacoli insormontabili nel mettere all’ordine del giorno tale progetto di legge che, dopo più di 80 anni e a scapito degli <<affari esteri>>, dava agli Armeni l’occasione di intendere che il loro Paese di accoglienza prendesse ufficialmente posizione in relazione alle circostanze che avevano loro condotto in esso. Se era necessario che si arrivasse ad una legge per proclamare una verità che li costituiva in quanto tali, questo è accaduto poiché la menzogna fino ad allora era stata la norma. Pertanto non si può che rallegrarsi degli effetti inattesi, tragicomici di questa miracolosa dichiarazione: tale votazione aveva, per le reazioni violente che sollevava in Turchia, il doppio merito di autenticare l’autore, peraltro non additato, di tale genocidio e di creare così un imbarazzo diplomatico rivelatore delle basi negazioniste della Realpolitik occidentale (cfr. “La Survivance”, op. cit., pagg. 2-3). E’ superfluo aggiungere che le stesse peripezie agitano il Parlamento europeo che, avendo riconosciuto il genocidio dal gennaio 1987 ed avendo posto come condizione per l’adesione della Turchia all’Unione Europea il riconoscimento di questo genocidio, votava, nell’ottobre 2001, una risoluzione che non conteneva affatto, e che quindi cancellava, tale clausola, per ribadirla nuovamente nel febbraio 2002. L’ultimo vertice di Copenaghen del dicembre 2002 non ne faceva più alcuna menzione. Cfr. nella bibliografia qualcuna tra le opere più recenti riguardanti il genocidio degli armeni dell’Impero ottomano.

 

25) Si veda in Altounian J. (1990 e 2000, seconda parte) al di là delle testimonianze degli armeni, Michael Arlen (“Embarquement pour l’Ararat”), Martin Melkonian (“Le Miniaturiste”), del poeta Nigoghos Sarafian (“Le Bois de Vincennes”), quella di Andromaca che evoca il destino di suo figlio in Racine, di Annie Ernaux (“La Place”, “Une femme”, “La honte”), di Eva Thomas (“Le Viol du silence”), di Jean Améry (“Par-delà le crime et le chatiment”), di Albert Camus (“Le Premier homme”), di Pierre Pachet (“Autobiographie de mon père”), di Peter Handke (“Le malheur indifférent”).

 

26) Introduzione a <<Terrorismo di un genocidio>>, in Altounian 1990, 81, 83.

 

 

 

 

 
 

 

   
   
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