« « ritorna alla presentazione/indice

"Una casa e quattro donne valsesiane"

Capitolo primo

Gli inizi della "storia"

 

Lassù, sulla Parete Calva, dove le sagome nere degli abeti filtrano le ultime luci del giorno e sembrano disegnare sul crinale della montagna un lungo e sinuoso merletto ricamato con fili d'argento, quasi sette secoli or sono si spensero i sogni e le follie di Fra Dolcino e di quella sua banda di disperati che per alcuni e interminabili anni avevano seminato in tutta la Valsesia illusioni e terrore. Qualche anziana valligiana ricorda ancora le storie, udite da bambina, che raccontavano di quell'antico personaggio, trasformatosi nella fantasia popolare in una figura leggendaria, per metà eroe e per metà diavolo, che in sella ad un cavallo tutto bianco e in compagnia della sua bella compagna Margherita, cavalcava a briglia sciolta nelle notti di luna piena gridando al vento la sua passione e la sua eresia.

Le vere vicende dell'eresia di Fra Dolcino e della setta degli Apostolici, o Gazzari, ebbero inizio sul finire del XIII secolo, interessarono il Novarese e in particolare la Valsesia, lasciando ampie tracce nella letteratura e nella storia (1). Lo stesso Dante Alighieri, nel Canto XXVIII dell'Inferno, fa pronunciare da Maometto un incitamento alla difesa dell'eresia dolciniana:

" - Or di' a Fra Dolcin, dunque, che s'armi,
" Tu che forse vedrai il sole in breve
" (S'ello non vuol qui tosto seguitarmi)
" Sì di vivanda, che stretta di neve
" Non rechi la vittoria al Noarese,
" Ch'altrimenti acquistar non saria lieve. -"

E Niccolò Tommaseo, nel commentare i versi danteschi, così mirabilmente sintetizzava l'intera avventura degli Apostolici:

"Corron sett'anni da questo vaticinio di Maometto alla morte di Dolcino. Maometto difende un seminatore di scisma par suo. Fu eremita ed eretico novarese, e predicò comuni le mogli, e simili cose: fece tremila seguaci, e per due anni si resse, finchè stretto tra' monti del Vercellese, e dall'alta neve impeditogli rubare le vettovaglie, fu da que' di Novara e da tutti i Lombardi, accorsi quasi crociati, preso; e nel 1306 con altri de' suoi e con la sua Margherita arso vivo...."(2).

La Parete Calva è una liscia parete rocciosa che sovrasta la zona dei Comuni di Rassa, di Piode e di Campertogno e sulla cui sommità, a 1426 m., in un pianoro ancora oggi chiamato Pian dei Gazzari, trovarono rifugio e difesa per più di due anni Fra Dolcino e i suoi seguaci. Dall'alto del monte, percorrendo sentieri ora parzialmente sepolti nella fitta vegetazione, i Gazzari scendevano a valle, razziando e terrorizzando gli abitanti. La storia racconta anche di una vera e propria battaglia, combattuta nel settembre del 1305 quasi ai piedi della Parete Calva, pochi chilometri a valle del centro di Campertogno in un pianoro ora parzialmente eroso dalle piene del fiume, nella quale perirono alcuni compagni di Fra Dolcino ed anche molti valligiani che si erano armati per cacciare l'eretico, una volta per tutte, dalle terre valsesiane. Infatti, sul finire di agosto del 1305, pochi giorni prima della battaglia, si erano riuniti nella vicina chiesa parrocchiale di Scopa (3) i rappresentanti della valle per giurare solennemente sui Vangeli la loro volontà di combattere e distruggere i Gazzari. Nel portico della chiesa una lapide tuttora ricorda che:

"Nel dì 24 agosto 1305, convennero a schiere, nell'antico tempio di cui questa cappella è l'unico avanzo, i più prodi fra i Valsesiani. Qui strinsero Lega Santa contro l'Eresiarca invasore Fra Dolcino, giurando dinanzi ai sacri altari che più non avrebbero deposto le armi prima che il nemico della loro libertà, l'avversario della loro fede, non fosse stato cacciato dal patrio suolo".

Si trattò, all'incirca, di una alleanza in scala ridotta della più famosa "Lega Lombarda" formatasi nel XII secolo, a Pontida, contro il Barbarossa. Al giuramento di Scopa fecero seguito varie scaramucce con i seguaci di Dolcino, ma lo scontro ai piedi della Parete Calva fu talmente cruento che il terreno divenne rosso del sangue dei contendenti e, si dice, da allora, la località venne ricordata col nome di Camporosso o Camproso (4).

Sulla riva opposta del Sesia (5), in posizione leggermente sopraelevata fra il letto del fiume e la strada provinciale che dolcemente sale verso le falde del Monte Rosa, quasi a ridosso di un manufatto in cemento recentemente eretto per riparare la strada dalla frequente e rovinosa discesa delle valanghe, vi sono alcune vecchie case senza tempo, che ormai si aprono solo per le saltuarie presenze dei villeggianti, e un oratorio dedicato a S. Antonio abate, da tempo sconsacrato e circondato da alcuni piccoli prati che in primavera si ammantano di fiori e di profumi. Tutto ciò costituisce la frazione di Camproso o, meglio, ciò che è rimasto di un piccolissimo borgo simile a tanti altri che costellano questa verde vallata. Una spiegazione toponomastica più realistica di quella legata alle vicende del frate eretico ipotizza che il nome Camproso derivi da "camp a prös", cioè da campi a prode, o lembi di terra coltivati (6), raccolti attorno ad alcune abitazioni.

Le vicende storiche legate a Fra Dolcino riportano anche le gesta di un ardimentoso giovane di Camproso, di nome Marco Miretti, che nello stesso anno della famosa battaglia risalì gli impervi sentieri che portano alla Parete Calva per convincere l'eretico e la sua banda a lasciare spontaneamente la valle e far cessare le tribolazioni degli abitanti. Il giovane, di ritorno dalla missione, fu invece barbaramente trucidato in un agguato messo in atto dai Gazzari (7), che ne fecero rotolare la testa giù dai dirupi. Secondo quest'ultima ipotesi, quindi, Camproso sarebbe esistito con tale nome anche prima della battaglia e il toponimo attribuitogli dal campo rosso di sangue potrebbe rientrare nel più ampio scenario di una storia ormai mescolata alla leggenda.

Qualunque sia l'origine della sua denominazione, il nucleo di case di Camproso conserva tutto il fascino dei piccoli centri rurali dell'alta valle, formati da abitazioni costruite con spessi basamenti in pietra viva, balconate in legno su cui veniva posto ad essiccare il fieno e tetti costruiti con grosse travi ricoperte da pesanti lastre di pietra schistosa, le "piode" valsesiane. Costruzioni senza tempo, che nella loro semplicità di linee e di volumi esprimono tutta la saggezza di una popolazione abituata da sempre a convivere con una natura avara e difficile. Le ricorrenti piene del fiume e le frequenti valanghe che sul finire dell'inverno rotolano rovinose verso valle, avevano suggerito all'esperienza delle popolazioni locali dei precisi, seppure non codificati, "piani urbanistici", che hanno consentito alle vecchie case di rimanere ancora al loro posto, quasi in dispregio alla pericolosità di molti recenti insediamenti abitativi costruiti semplicemente dove si è reso disponibile un qualsiasi lembo di terreno.

La frazione di Camproso rappresenta quindi il centro di un piccolo mondo, apparentemente simile ad altri ma riemerso all'improvviso dal silenzio degli anni grazie al ritrovamento quasi casuale di un fascio di documenti ingialliti dal tempo. Antiche carte che raccontano le piccole storie di tutti i giorni e di un modo di vivere da tempo scomparso, per essere sostituito da un nuova dimensione di vita che forse ha perduto il gusto del passato, ormai avvolta nella frenesia del presente e quasi indifferente alle attese del domani.

***

Lo scorcio di storia che emerge dalle testimonianze ritrovate nella casa di Camproso comincia sul finire del diciottesimo secolo, abbraccia un periodo denso di avvenimenti e di sconvolgimenti sociali e politici che direttamente od indirettamente hanno interessato la Valsesia e giunge sino alla metà del '900. Il primo documento porta la data del 21 febbraio 1793; l'ultimo, peraltro di scarsa rilevanza nel contesto della narrazione, quella del 20 dicembre 1951.

In molte altre vecchie case si possono certamente trovare cimeli e ricordi di antica data e della più differente natura; ricordi piccoli e grandi di storie vissute e di vicende passate. Ciò che emerge dalle carte di Camproso ha comunque un suo particolare fascino: nell'apparente frammentarietà dei vari documenti vengono indirettamente riportate alla luce le vicende di una famiglia contadina in cui risaltano le figure imponenti, e a modo loro eroiche, di quattro donne succedutesi nella stessa abitazione per altrettante generazioni e che, ad un certo punto, entrano prepotentemente nella narrazione, imprimendole una caratterizzazione densa di sentimenti e di colore.

I documenti consistono, per la maggior parte, in atti di compravendita ingialliti dagli anni, in testamenti, in note di divisione e in resoconti di varie liti giudiziarie, raccolti e conservati nel tempo con meticolosa cura, per uno spiccato senso di difesa della proprietà dei beni.

La natura avara e spesso ostile della montagna ha sempre accentuato nelle genti contadine un particolare attaccamento alla proprietà della "terra". Che si trattasse di piccoli lembi di terreno incastonati fra dirupi rocciosi, di strisce di orti circondati da una miriade di proprietari, o di verdi distese di campi del fondovalle, il possesso della terra ha fornito da sempre alle popolazioni locali quel senso di orgoglio e di sicurezza che le ha aiutate a superare le più ardue difficoltà ambientali. In particolare la Valsesia, rimasta per diversi secoli confinata in un suo esclusivo isolamento, in parte originato dalla natura stessa del paesaggio che rendeva difficile l'accesso dall'esterno e in parte in virtù dei "privilegi" ottenuti per quella che oggi si definirebbe una "zona depressa", difese a lungo la propria individualità, anche ostacolando in vari modi l'immigrazione di persone estranee alla valle. Nel 1631, ad esempio, un'ordinanza locale stabilì che l'eventuale ingresso non temporaneo di forestieri dovesse essere autorizzato dalle Comunità dei residenti e, ancora, nella seconda metà del '700, un'altra disposizione comunitaria definì "forestieri ... tutte quelle persone non legittime né discendenti da famiglie antiche per duecento e trent'anni o più in detta comunità, ovvero non debitamente poscia vicinate col pieno consenso di essa".

Negli ultimi decenni del nostro secolo il progresso, l'urbanesimo, ma soprattutto l'accentuato consumismo hanno ampiamente modificato desideri ed abitudini e si è così assistito a un'inarrestabile cessione di vecchie case e di lembi di terreni più o meno fabbricabili ai "forestieri", che hanno così parzialmente ripopolato le montagne, non tanto per un rinnovato amore per la "terra" quanto per un essenziale bisogno di "aria". Tutto ciò ha aperto le porte alla speculazione edilizia ed ha anche definitivamente posto un termine all'isolamento della valle. Purtroppo a questi cambiamenti fa altresì riscontro un progressivo ed inarrestabile abbandono degli alpeggi e di tutti i sentieri che li collegano. Le antiche baite, quando non sono raggiungibili da strade carrozzabili, sono ormai da tempo inutilizzate e i rovi attanagliano i muri ormai cadenti, mentre nei prati circostanti la vegetazione arborea cancella inesorabilmente qualsiasi traccia di pascolo.

***

Il 14 luglio 1789, a Parigi, una folla urlante e disperata assaliva e conquistava la fortezza della Bastiglia, segnando quello che è stato più tardi comunemente definito come l'inizio della Rivoluzione francese (8). Quattro anni dopo, il 21 gennaio, ancora nel pieno dei fermenti rivoluzionari, veniva condotto sul patibolo della Piazza della Rivoluzione di Parigi re Luigi XVI, che sperimentò così, suo malgrado e fra i primi, l'efficienza di quel terribile strumento di morte, nato in Italia ma importato in Francia e perfezionato solo l'anno precedente dal medico, filantropo e deputato dell'Assemblea Costituente, Giuseppe Ignazio Guillotin. Pochi mesi più tardi, il 16 ottobre 1793, anche la consorte di Luigi XVI, Maria Antonietta, saliva sul patibolo.

Mentre la Francia era scossa dalle sommosse rivoluzionarie, che vedevano ormai tutti contro tutti in un groviglio di idee e di intenzioni di cui non era facile intravvedere la conclusione (9), in Piemonte regnava Vittorio Amedeo III di Savoia, salito al trono all'età di 47 anni a seguito della morte del padre, Carlo Emanuele III. Il regno sardo-piemontese era, in realtà, un insieme di staterelli amministrativamente alquanto disuniti fra loro e scaturiti dal riassetto politico conseguente al trattato di Aquisgrana del 1748: il Piemonte vero e proprio (10), che includeva oltre la Valsesia anche il Marchesato di Saluzzo e il Ducato del Monferrato; il Ducato d'Aosta e quello di Savoia; la Contea di Nizza; il Marchesato di Oneglia e, infine, la Sardegna.

Ciascun territorio aveva un proprio statuto e proprie leggi, basate sulle "Costituzioni" piemontesi del 1770, e si reggeva sulla presenza di un governatore rappresentante del re, di un comandante militare, di un intendente e di un prefetto. Una situazione, quindi, alquanto precaria, che mal avrebbe retto nel tempo di fronte alle spinte delle forze rivoluzionarie che dalla Francia mostravano intenzioni di espansione nei confronti delle regioni orientali.

***

Un mese dopo la decapitazione di Luigi XVI, nella più tranquilla Valsesia, esattamente la sera del 21 febbraio alle ore 21, con l'assistenza di un notaio del luogo e dei testimoni di rito si riunivano in una casa di Campertogno le parti interessate alla compravendita di un prato, esistente nella località "Sotto le Balme" di Camproso (doc. N. 1).

L'acquirente, Pietro Giuseppe De Marchi, aveva all'incirca 43 anni e da una ventina risiedeva con la moglie e i quattro giovani figli a Camproso, dove univa al lavoro abituale dei campi l'attività di fabbro (11). Era nato nella frazione Molino di Mollia e la sua famiglia d'origine godeva di una certa agiatezza, che si esprimeva anche sotto forma di ricche elemosine e di lasciti alle congregazioni religiose del luogo. Secondo quanto riferisce Padre Eugenio Manni nella sua piccola storia della Valsesia, meticolosamente raccontata attraverso una piacevole descrizione dei campanili della valle, nel 1795 una certa Angiola De Marchi vedova Janni dispose vari sussidi per favorire le vocazioni ecclesiastiche dei giovani del suo casato. Un altro De Marchi, Don Bartolomeo, fondò la prima Cappellania nella frazione "Casa Capietto" di Campertogno e, poco più tardi, contribuì a finanziare l'attività della scuola primaria "Giuseppe Carmellino". Ancora un altro sacerdote dello stesso casato, Don Giovan Battista, resse per 22 anni la Parrocchia di Mollia (12). Una famiglia, quindi, certamente facoltosa, in rapporto alle condizioni, mediamente tutt'altro che floride, in cui viveva la gran parte degli abitanti della valle.

Il gruppo di persone riunitesi in quella tarda ora di una gelida serata di febbraio del 1793 per assistere alla stesura dell'atto notarile di compravendita, benché erudite al punto da saper scrivere il proprio nome in calce al documento, difficilmente potevano comprendere nei dettagli il frasario pedante e tortuoso richiesto dalla solennità dell'atto. Una cosa era comunque chiara a tutti: per il corrispettivo di circa 67 lire, comprese le tasse e le spese di rogito, Pietro Giuseppe De Marchi diventava proprietario di un appezzamento di terreno che si andava ad aggiungere alle altre piccole proprietà di cui già disponeva. Il sacrificio del compratore era stato comunque notevole, in quanto la metà dell'importo potè essere pagato, fortunatamente senza interessi, solo un anno dopo la data dell'acquisto. Lo stesso anno in cui, al di là delle Alpi, la fase più violenta della Rivoluzione fece finire sotto la ghigliottina anche lo stesso Robespierre.

***

Gli avvenimenti politici, scaturiti dalla reazione conservatrice europea al tentativo di destabilizzazione monarchica introdotta dalla Rivoluzione francese, portarono alla costituzione di una coalizione di forze europee, fra le quali anche quelle piemontesi, che cercarono di restaurare con l'impiego delle armi ciò che le barricate giacobine avevano ormai scardinato nel profondo. Da questo contesto effervescente e complesso emerse la figura di uno sconosciuto generale di ventisette anni, Napoleone Bonaparte, che nel marzo del 1796 venne posto a capo di un corpo di spedizione francese, forte di 30.000 uomini, malpagati e così male in arnese da essere definiti da Vittorio Alfieri "un pidocchiume", incaricati di tener testa alle reazioni provenienti dal Nord Italia e particolarmente dall'Austria. Ma Napoleone andò oltre le aspettative di Parigi e con la sua armata di straccioni non impiegò molto a beffare sia le armi piemontesi che quelle austriache, entrando da vincitore a Milano il 16 maggio dello stesso anno. Un mese prima, la pace di Cherasco aveva peraltro già ridimensionato le speranze piemontesi di fermare l'avanzata del Corso e di ottenere in cambio, dall'Austria, il dominio sulla Lombardia. Il 16 ottobre moriva Vittorio Amedeo III e gli succedeva sul trono sabaudo Carlo Emanuele IV di Savoia. Contemporaneamente veniva costituita a Milano, seppure per una breve durata, la Repubblica Cispadana.

***

Erano trascorsi soltanto tre anni dall'acquisto del prato "Sotto le Balme", quando a Pietro Giuseppe De Marchi si presentò l'opportunità di accrescere ulteriormente il suo patrimonio immobiliare. La casa attigua a quella in cui abitava con la sua famiglia era di proprietà di tale Giacomo Mangola che, oltre al fabbricato, possedeva vari terreni nella zona attorno a Camproso. Fra i De Marchi e i Mangola non correvano, come si suol dire, rapporti di buon vicinato e nonostante l'interesse di Pietro Giuseppe ad ampliare i confini delle sue proprietà, ne mancò sempre la possibilità, proprio a causa dei dissidi esistenti fra i due proprietari. L'occasione venne a seguito di una malattia che portò rapidamente il Mangola alla tomba, lasciando unico erede suo figlio minorenne, Antonio Nicolao.

Ma la ruggine fra le famiglie persisteva, non consentendo a Pietro Giuseppe di definire direttamente con il tutore del giovane orfano la cessione delle tanto ambite proprietà del Mangola. De Marchi allora ricorse ad un espediente che potrebbe apparire del tutto normale ai nostri giorni, ma che quasi certamente suscitò a quel tempo infiniti commenti e pettegolezzi. Tramite la compiacenza di un altro Valsesiano, Giovanni Battista Gilardi, da tempo trasferitosi a Torino per motivi professionali (13), fece acquistare da quest'ultimo le proprietà ereditate dal giovane Antonio Nicolao e, cinque giorni dopo la stipula del relativo atto notarile, se le fece cedere definitivamente. L'atto di compravendita finale, datato 31 ottobre 1796, nella sua apparente e formale normalità, mostra chiaramente la costruzione del marchingegno architettato da Pietro Giuseppe (doc. N. 2). L'abitato di Camproso dista da Varallo Sesia circa venticinque chilometri che, con le strade e i mezzi di trasporto oggi disponibili, si possono agevolmente percorrere in circa venti minuti. La situazione era però ben diversa alla fine del Settecento, quando la strada ancora non esisteva e per raggiungere il capoluogo valsesiano occorreva percorrere un sentiero neppure transitabile con carri e i mezzi di trasporto maggiormente usati nella valle risiedevano per lo più nel vigore delle estremità inferiori degli abitanti.

Nella "guida" di Don Luigi Ravelli viene ricordato che "..anticamente una strada mulattiera sospesa ed intagliata nella roccia entrava in Val Grande superando le scarpie di Scopelle e Valmaggia. Non è strada cattiva, diceva il Sottile ai suoi tempi, ma non praticabile ai carri; ella annuncia la buona volontà e la miseria del popolo che la costrusse" (14).

Gli animali da soma erano molto rari e i bovini venivano utilizzati, non tanto per il trasporto o per il lavoro nei campi, quanto per la produzione della carne e del latte. Soltanto i minerali, estratti dalle miniere del Monte Rosa e accuratamente sorvegliati dai gendarmi del regno sabaudo, venivano trasportati sino alle fucine di Scopello a mezzo di un sistema "a strusa", consistente in due semplici tronchi di betulla, ancora corredati dei rami e delle foglie, su cui poggiavano altri rami che sorreggevano la cassa dei minerali. Un'estremità di ciascun tronco, pulita ed opportunamente assottigliata, veniva aggiogata ai muli, a mo' di stanga, consentendo così il trascinamento di carichi anche relativamente pesanti.

Ebbene, in queste circostanze, indubbiamente non facili, Pietro Giuseppe, alle ore ventitre di quell'ultimo giorno di ottobre, si trovava nello studio notarile Gnifetti di Varallo, senza l'assistenza dei soliti testimoni che avevano già partecipato, o che in seguito parteciperanno, ad altri atti notarili dello stesso De Marchi, per formalizzare l'acquisto delle proprietà del defunto Giacomo Mangola. Un'ora piuttosto strana per redigere un atto, un luogo estremamente scomodo (se si considera che tutti gli altri rogiti notarili coinvolgenti il De Marchi furono stilati fra Camproso, Mollia e Campertogno e, quindi, nelle vicinanze della sua abitazione) e testimoni assolutamente sconosciuti prima d'ora. Tutto ciò, comunque, consentì di portare a termine l'operazione e, secondo il frasario notarile del tempo, di far sì che "...ad ognuno sia manifesto" il diritto di Pietro Giuseppe di godere dei nuovi beni in piena legittimità.

Mentre tre anni prima Pietro Giuseppe dovette impegnarsi a pagare dopo dodici mesi la metà delle 67 lire che erano state concordate a fronte dell'acquisto del terreno "Sotto le Balme", in questa particolare circostanza l'uomo sborsò in contanti, apparentemente senza battere ciglio, ben 666 lire, 16 soldi e 4 denari, più le solite tasse e spese notarili.

Ad ulteriore riprova del tutto, emerge un altro documento, steso soltanto quindici giorni dopo, che compendia il precedente e chiude definitivamente, a favore di Pietro Giuseppe De Marchi, la questione del vicinato. Nella fretta di definire la compravendita dei beni del povero Mangola, il notaio Gnifetti si dimenticò di annotare un terreno che pure rientrava fra quelli intermediati dal prestanome di Pietro Giuseppe e, quindi, si imponeva un nuovo atto pubblico che sanzionasse anche quest'ultimo trasferimento. Ma ormai era noto a tutti che il nuovo proprietario era proprio lo stesso De Marchi e, quindi, non era più necessario attuare alcun particolare sotterfugio per regolarizzare il terreno dimenticato in precedenza. Così, la sera del 14 novembre il relativo rogito fu redatto più semplicemente a Campertogno, con un notaio del luogo ed alla presenza dei soliti testimoni (doc. N. 3). Il prezzo dichiarato per questa nuova cessione era di 50 lire, ma non vi fu alcun pagamento in contanti. Le parti si scambiarono una calorosa "pacca" e Pietro Giuseppe consegnò all'apparente venditore una semplice "scrittura d'obbligo", che il "signor Regio Notajo" definì più che sufficiente ad assolvere il pagamento dovuto. Certamente, dopo aver salutato il notaio, le parti stracciarono la cambiale di fronte ad una buona "bùtta" (bottiglia) di vino che, più di ogni altro atto, sanzionava la felice conclusione della complessa operazione immobiliare. E così Pietro Giuseppe ampliò i suoi possedimenti, conglobando quasi tutto ciò che era possibile considerare allora esistente nei pressi della sua casa di Camproso.

A proposito dei "soliti testimoni" che compaiono in molti documenti riguardanti Pietro Giuseppe, si nota che ricorre frequentemente il nome di alcuni esponenti della famiglia Sceti. Si tratta del casato forse più antico della zona di Campertogno e che, fra l'altro, nel 1305 aveva inviato due suoi rappresentanti a Scopa per sottoscrivere il patto di alleanza contro le scorrerie di Fra Dolcino. Nella frazione di Quare si può ancora ammirare una "casa Sceti", che costituisce un esempio mirabile della, peraltro scarsa, edilizia "ricca" della media ed alta valle. Altri esponenti della famiglia Sceti sono tuttora ricordati come scultori, capitani, notai, storici o sacerdoti.

Carlo Sceti, testimone in vari atti notarili di Pietro Giuseppe De Marchi, abitava nella frazione Avigi di Campertogno ed era, se non si tratta di una semplice omonimia, quello stesso che aveva fatto ampliare ed arricchire l'oratorio di Santa Marta, una preziosa opera situata nel centro di Campertogno e risalente alla fine del '500 (15). Dunque, fra i De Marchi di Mollia e gli Sceti di Campertogno esistevano stretti legami di amicizia e forse anche di convenienza, che trovavano il loro comune denominatore in una qual forma di supremazia "politica" esercitata nei rispettivi territori d'influenza e nella costante devozione alle opere caritatevoli e religiose. Comunque è certo che questa "religiosità" non aveva trovato un riscontro del tutto caritatevole nel marchingegno messo in atto da Pietro Giuseppe De Marchi, con la testimonianza di Carlo Sceti, per mettere le mani sul patrimonio del giovane Mangola.

***

Anche i quattro anni successivi furono talmente ricchi di avvenimenti da riempire molte pagine dei testi di storia italiana ed europea. Nel giugno del '97 la Repubblica Cispadana venne conglobata nella Repubblica Cisalpina ma, con la pace di Campoformio del 17 ottobre, Napoleone riconsegnò la Lombardia agli Austriaci. Anche l'ormai debole regno sabaudo cessò temporaneamente di esistere e nel dicembre del 1798 il Direttorio di Parigi decise l'occupazione del Piemonte che, poco più tardi, divennne parte integrante della repubblica d'oltralpe. La Valsesia fu considerata quindi, a tutti gli effetti, una provincia francese.

Nel 1840 Girolamo Lana, con il suo stile alquanto ampolloso e retorico, così descriveva gli effetti del nuovo corso sulle popolazioni della valle:

"Sul finir del secolo XVIII, come una rigonfia e torbida fiumana, che di repente prorompa giù dalle Gallie, in breve inondando gran parte d'Italia, e trasportando seco, o imbrattando del suo limo quanto incontra, così le milizie francesi co' loro proclami, simboli, gridi, e giuri, di popolo sovrano, di libertà ed eguaglianza invasero in varie guise, e da ultimo apertamente il Piemonte col ducato di Milano. Nella pronta diffusione di siffatto fanatismo, che colle enfatiche sue lusinghe trovò facil appiglio ne' popoli stanchi di lunga quiete, e sempre inchinevoli alle novità, penetrò il medesimo pur anche fra' Valsesiani. Per opera di essi e di alcuni mandatarii segnatamente, risuonarono quindi entro le loro valli gli evviva alla Nazion francese rigeneratrice, alla novella chimerica libertà ed eguaglianza, e l'albero fu innalzato colla cima coperta del rosso berretto, ed in alto infisse ai lati due tricolorate bandiere. Così dissonante venne fatto quell'aere, solito eccheggiare del chiaro canto della vera libertà e della gioja, e fu profanato quel suolo per molti secoli consacrato da reale esistenza di governo repubblicano"(16).

Poco dopo, l'irrequieto Napoleone partì con il meglio della sua armata per la campagna militare in Egitto. La temporanea assenza del Generale lasciò libero il campo alla inevitabile reazione dell'Europa conservatrice e si scatenò così l'offensiva austriaca che in breve tempo scardinò quasi completamente il quadro politico delineatosi a seguito dell'espansionismo napoleonico.

Nell'estate del 1799, per effetto della reazione dell'Austria, le truppe di quest'ultima occuparono anche parte della Valsesia. Ma la parentesi restauratrice fu di breve durata e con il ritorno in patria di Napoleone, che nel novembre del '99 a Parigi si autoproclamò Primo Console, ricominciò la controffensiva francese.

L'andirivieni di eserciti francesi e austriaci nelle terre piemontesi determinò, nella primavera del 1800, una situazione estremamente instabile che vide talvolta i Piemontesi combattere al seguito di differenti bandiere. Nel maggio del 1800, ad esempio, una guarnigione austro-piemontese, asserragliata nel forte valdostano di Bard, presso Pont Saint Martin, subì un pesante assedio da parte dei Francesi, discesi dal Gran San Bernardo. Il fatto d'arme ebbe termine il primo di giugno con la resa degli assediati e con lo smantellamento della fortezza. Negli stessi giorni una legione di franco-cisalpini, passando dalla Val Vogna, dove - si dice - costruirono il ponte "napoleonico" che tuttora scavalca il torrente, ed appoggiati dalla popolazione locale, discesero in armi la Valsesia scontrandosi nei pressi di Varallo con un presidio austriaco del Principe di Rohan. Qualche anno più tardi Girolamo Lana così riportava l'avvenimento:

"Di lunga ricordanza sarà pur anche il breve combattimento seguìto il 20 maggio 1800 nello stretto che dicesi <Le scarpie di Scupelli>, provocato da 500 soldati del reggimento del principe di Roano, che con un piccol cannone, per avventura il primo che sia penetrato insino a Varallo, e colla barricata di tre piante fece mostra di contender il passaggio alla legione cisalpina di 3000 uomini, capitanata dal general Lecchi, e proveniente dalla Valle d'Aosta pel passo di Valdobbia. Ma dopo la morte di tre o quattro de' suoi, ben presto i Tedeschi ritiraronsi, altrimenti due compagnie della predetta legione, che colla guida di persona pratica avevan già valicato il superior monte, erano preste per discendergli alle spalle" (17).

La piccola scaramuccia, ingigantita dalla successiva retorica risorgimentale, trasformò i franco-cisalpini in "...un battaglione di giovinetti che facevano le prime armi..." e gli Austriaci in "...un'intera divisione..." (18).

Il 7 settembre dello stesso anno, un decreto dei Consoli di Francia fissò sul fiume Sesia il confine fra la Francia e la Lombardia.

La vittoria francese fu comunque generale e con la conseguente pace di Marengo, del 9 novembre 1800, furono riconfermati quasi tutti i confini delineati nei precedenti accordi di Campoformio. Sulla Lombardia ritornò così a sventolare il tricolore della Repubblica Cisalpina.

***

All'inizio del XIX secolo il fiume Sesia segnava, quindi, il confine fra la Francia e la Repubblica Cisalpina e per le popolazioni del Vercellese, ormai chiamato "Dipartimento della Sesia", si apriva un periodo di evidenti disagi. In Valsesia circolavano due monete, la lira cosiddetta "di Milano" e quella "di Piemonte", e le estremità dei ponti sul fiume ospitavano i posti di guardia dei due Stati.

Le antiche travi di legno all'interno di una di queste costruzioni, ancora esistente sulla spalla sinistra del vecchio ponte di Pila, recano i segni dei fori in cui, nei momenti di riposo, i gendarmi infilavano le baionette inastate sui loro moschetti d'ordinanza.

Si trattò di un periodo certamente difficile per i Valsesiani, costretti a subire gli effetti di una sconsiderata spartizione che, stranamente per una zona montana, delimitava i confini in base al percorso del fiume anzichè sui crinali dei monti.

Il Canonico Nicolao Sottile, in suo scritto redatto durante il periodo della dominazione francese, così si esprimeva circa le scelte effettuate dai nuovi governanti:

"... la Sesia non essendo realmente che un torrente guadoso in cento luoghi, reca sorpresa come venisse stabilita per confine della Repubblica Francese. Gran fiumi, alti monti, vasti mari vi vogliono per confine ai grandi imperj. ... Un passo avanti, oppur indietro, avrebbe fissato un limite più sicuro, più maestoso, più degno dell'Impero Francese; un fiume, che costantemente ricco per l'abbondanza delle sue acque, opposto avrebbe grandiosi ostacoli al contrabbando intrepido, ed ingegnoso.... Aggiungasi che i Valsesiani da questa divisione uniti alla Francia, sono circondati dalla parte del Piemonte da montagne talmente alte ed insuperabili, che resta loro fisicamente impossibile d'avere alcuna seguita comunicazione con esso, massime nell'inverno. Non possono uscir di casa, senza uscir dalla loro repubblica: tutte le strade sono sul territorio Italiano sino a Borgosesia...Mi reca perciò sorpresa, che non siavi stato chi facesse penetrare queste verità palpabili al Primo Console. Un solo cenno della sua bocca avrebbe tolto questi inconvenienti, e la Valsesia tutta già riunita in un sol corpo sarebbe Francese, oppure Italiana" (19).

E, ancora, Girolamo Lana così descriveva la situazione venutasi a creare in Valsesia:

"Divisa la Valle in due parti, Italiana e Francese, a motivo del confine tra la Francia e l'Italia nel fiume Sesia stabilito, più non regnava l'unità, la conformità e la concordia. Una linea di dogane e di doganieri impediva l'ordinaria permuta, ed il libero passaggio delle derrate dalle terre della sponda destra del fiume a quelle della sinistra, e viceversa. L'un paese Valsesiano era quindi separato e diverso dall'altro per leggi e per governo. L'inno della libertà e della gioia più non risonava tra quelle balze, che quasi diresti liete da lunghi anni lo ripetevano. Scomparso quel tal aspetto di nazionalità, non altro vedevasi in sua vece che dolorosi segni delle violenze con cui tentavasi d'imporre la pretesa uniformità in ogni cosa agli altri sudditi della Repubblica, e poi del regno Italiano da un lato, della Repubblica, e poi dell'impero Francese dall'altro. La gioventù dedita agli stromenti delle arti pacifiche, più che a quelli di Marte arruolata alle milizie in egual proporzione di tutte le altre popolazioni. Il pane, la carne ed il vino che vendevasi al minuto, vincolati con dazio al consumo. Il sale, il tabacco, la polvere da fuoco allo stesso prezzo d'altrove. Il testatico, la carta bollata, i diritti d'insinuazione come dappertutto. L'annuale tributo aumentato d'assai. A conseguir giustizia o grazia, dover dipendere ne' maggiori casi da Novara, e financo da Milano, e molti altri incomodi e gravami, rivolta avevano la Vallesesia ad una trista condizione, e ben diversa da prima" (20).

La divisione territoriale della Valsesia fra Francia e Italia, seppure durata solo una quindicina d'anni, aggiunse quindi ulteriori difficoltà ad una situazione già pesantemente gravata dalle conseguenze dell'abolizione dei "privilegi" di cui avevano beneficiato per diversi secoli gli abitanti della valle. Quelle agevolazioni trovavano la loro antica origine negli atti del 1415, emessi nel Ducato di Milano, retto da Filippo Maria Visconti. I benefici, ampliati nel 1523 da Francesco I Sforza, erano stati riconfermati alla Valsesia varie volte e mantenuti anche dal regno sardo-piemontese, in virtù della "... miserabilità dei di lei abitanti ... non è tenuta ad prestanda subsidia, nec prestita, nec alicuius generis gravitatem" (21). Consistevano sostanzialmente nella "... somministrazione di sale in perpetuo, libera piantagione di tabacco, esenzione da dazio su granaglie provenienti dal Novarese, esenzione di tasse personali e commerciali per gli abitanti che esercitano commercio, esenzione dalla Milizia fuori della Valle". La nascita della Repubblica Cisalpina, con l'abolizione sulla sponda sinistra del fiume Sesia di un sistema di tipo federativo che, in una certa misura, consentiva l'autogestione politica ed amministrativa (basata su un sistema contributivo e di mutua assistenza imperniato sul numero dei "fuochi", cioè delle famiglie residenti), impose anche la leva militare obbligatoria. Si ruppe così una tradizione secolare che aveva consentito ai Valsesiani di limitarsi a svolgere un servizio di "milizia", con compiti soprattutto d'ordine pubblico locale e di difesa nei confronti delle scorrerie attuate nell'alta valle dalle popolazioni confinanti.

Nonostante non si tratti di epoche preistoriche, i ricordi di quei tempi, tramandati di generazione in generazione e ancora oggi presenti nei racconti dei più anziani, hanno assunto una dimensione quasi irreale, in cui la misura del tempo si è perduta in una confusione di epoche, di nomi e di circostanze. La storia di poco più di un secolo fa sembra appartenere ad epoche molto lontane, come si trattasse di antiche leggende che assurdamente si mescolano con le vicende di Fra Dolcino e, addirittura, con le medioevali migrazioni delle popolazioni Walser nell'alta valle (22). Leggende fantastiche, come quella della "processione dei morti", raccontata anche da Don Luigi Ravelli:

"Alla mezzanotte del due novembre dal fondo dei burroni, dal letto dei torrenti, dalle cripte delle chiese, dai cimiteri, si levano i morti e si mettono in cammino tutti nella stessa direzione verso il Monte Rosa. Ogni scheletro ha il dito mignolo acceso che fa da candela. Se incontrano un uomo vivo lo fermano, lo creano cavaliere offrendogli una bacchetta; e la folla dietro a lui va rapida superando ogni difficoltà. Se incontrano un burrone o un torrente, il più colpevole fra essi si fa innanzi, allunga ambo le braccia, facendo arco grandissimo sulla sua spina dorsale, e quando le sue mani toccano l'altra riva, la fila dei morti passa su quall'arcuato e scricchiolante scheletro il quale, al fine, riprende egli pure la via. Essi devono arrivare prima dell'alba a toccare i ghiacciai del Monte Rosa, e colà se ne stanno in penitenza dei loro peccati, a picchiare il ghiaccio con una spilla"(23).

Chi oggi percorre i dolci e silenziosi pianori che si adagiano lungo il sentiero della media Val Vogna, in una cornice di splendida bellezza alpina, e si trova ad attraversare il vecchio ponte "napoleonico", quasi fatica a credere che si tratti di un manufatto di un'epoca ben nota; confuso com'è fra la massa di storie e di leggende senza tempo che aleggiano nell'aria e che si integrano con l'incanto di una natura fortunatamente ancora incontaminata e solenne. Così come potrebbe forse risultare difficile comprendere il significato di una parlata contadina che, fino a pochi decenni fa, ancora diceva: "Andùma a travajè 'n Fransa" (andiamo a lavorare in Francia), indicando i campi, i boschi e gli alpeggi situati sul versante destro del Sesia.

***

Le terminologie imposte dalla Rivoluzione Francese, e trasferite pari pari nella neo-ricostituita Repubblica Cisalpina, avevano assegnato anche alle terre valsesiane l'uso del "calendario repubblicano"(24) ed avevano trasformato il comune abitante della sponda sinistra del Sesia in un "Cittadino". Fu così che l'undici Brumale del nono anno repubblicano (più semplicemente, il 2 novembre 1800), "...in nome della Repubblica Cisalpina..." e davanti ai soliti personaggi di rito, il Cittadino Pietro Giuseppe De Marchi concluse l'acquisto di un altro appezzamento di terreno nella frazione di Camproso (doc. N. 4).

Dal carteggio notarile, redatto per l'occasione a Campertogno, nel territorio della Repubblica Cisalpina, non traspaiono le difficoltà che certamente già allora esistevano a seguito della suddivisione territoriale fra i due Stati. Infatti, come se nulla fosse successo, il prezzo della compravendita venne ancora indicato in "lire del Piemonte" e il verbalizzante fu citato come pubblico notaio della "Dughera delle Piode" quando, stando alla carta topografica, la frazione di Dughera, che giace sulla riva destra del fiume, avrebbe dovuto far parte integrante della "Francia".

Evidentemente la confusione era notevole, ma i locali "Cittadini" non ne tenevano eccessivo conto, continuando tranquillamente a svolgere le loro abituali attività, magari facendo pascolare di giorno le greggi in "Francia" e riportandole, la sera, nelle baite al di là del fiume, in "Italia".

***

1 - In merito alle vicende di Fra Dolcino e della sua setta, esiste una copiosa letteratura, dettagliatamente elencata nell'opera di Alberto Bossi, "Fra Dolcino, gli Apostolici e la Valsesia", ed. P. Corradini, Borgosesia, 1980. (ritorna al testo)
 
2 - cfr.: Dante Alighieri, "La Divina Commedia", vol. I, Inferno, ed. UTET, Torino, 1926. In realtà, Dolcino e i suoi seguaci, ritiratisi dalla Valsesia solo agli inizi del 1307, raggiunsero "per loca difficillima" e per "vias inexcogitabiles, nives altissimas" i monti del Biellese e furono catturati il 23 marzo 1307. Il rogo degli eretici avvenne quindi l'anno successivo a quello citato dal Tommaseo. (ritorna al testo)
 
3 - Anticamente la media e l'alta Valsesia, da Balmuccia sino ad Alagna, erano riunite sotto l'unica Parrocchia di Scopa. Da questa, nel 1326, si staccò Pietre Gemelle (ora Riva Valdobbia) con annessa Alagna. Nel 1415 fu la volta di Campertogno con annessa Mollia e, cinque anni dopo, di Scopello con annesse Piode e Rassa. Nel 1526 e nel 1569 si staccarono da Scopello, costituendo proprie Parrocchie, rispettivamente Rassa e Piode. Infine, nel 1722, Mollia si separò da Campertogno. Nel 1840 la Parrocchia di Campertogno contava 287 famiglie, per un totale di 1207 persone, distribuite nelle località di Centro (102 ab.), Avigi e Camproso (complessivamente 216 ab.), Tetti (173 ab.), Carrata (87 ab.), Piane, Ponte e Piè di Riva (complessivamente 182 ab.), Quare (124 ab.), Otra (107 ab.), Rusa e Grampino (per un totale di 87 ab.) e Villa (129 ab.). cfr.: Girolamo Lana, "Guida ad una gita entro la Vallesesia", ed. Libreria Alpina, Bologna, 1977 (ristampa anastatica dell'edizione del 1840 della Tip. Merati di Novara), pag. 166 (ritorna al testo)
 
4 - cfr: Don Luigi Ravelli, "Valsesia e Monterosa", Novara, 1924, vol. II, pag. 214 (esiste una ristampa del 1983 curata dal C.A.I. di Varallo e pubblicata dalle Ed. Corradini di Borgosesia) (ritorna al testo)
 
5 - Trattandosi di un nome di fiume che termina con la "a", sarebbe stato più corretto considerarlo femminile ("la Sesia"). Si è invece preferito utilizzare la forma maschile, maggiormente utilizzata nel linguaggio corrente e già adottata da altri Autori, quali L. Ravelli, E. Manni ed altri. (ritorna al testo)
 
6 - cfr: Gianni Molino, "Campertogno", ed. Eda, Torino, 1985. (ritorna al testo)
 
7 - cfr: Federico Tonetti, "Storia della Vallesesia e dell'alto Novarese", ed. Corradini, Borgosesia, 1984 (ristampa anastatica di un volume del 1875-1880). (ritorna al testo)
 
8 - In effetti, si considera che la Rivoluzione francese sia iniziata a seguito della convocazione degli Stati Generali a Versailles, il 5 maggio 1789. (ritorna al testo)
 
9 - "...Noi procediamo, ma non sappiamo verso che meta; spesso verso qualche cosa peggiore di quello che la sciamo alle spalle. Quando voi notate dei grandi re sultati, e supponete che dietro di essi esistano dei piani, da lontano e lungamente premeditati, voi siete per lo più sulla via di una conclusione errata. Immaginate, al contrario, tutto quello che vorrete di banale, di incoerente, di insensato e probabilissima mente vi accosterete alla verità ..." Il brano è stato tratto da: C. Engelberto Oelsner, "Memorie sulla Rivoluzione francese", 1897. (ritorna al testo)
 
10- I confini orientali del Piemonte erano delimitati dal corso del Ticino. (ritorna al testo)
 
11- Per lungo tempo gli atti notarili della zona non hanno speci ficato la data di nascita, nè la professione delle persone coinvolte nelle diverse transazioni. Inoltre la grafia dei nomi dei luoghi e delle persone era talvolta il frutto di una libera interpretazione fonetica del notaio, o dei suoi scrivani, su indicazioni espresse dagli interessati in forma dialettale. Così, ad esempio, il cognome De Marchi risul tava riportato, di volta in volta, come Demarchi, De'Marchi, de Marchi o anche De'marchi. Il cognome Mattasoglio è citato anche come Mattazolio, Mattasollio, Mattasolio, Mattassoglio, Mattazzolio, Matazzolio. Gli stessi nomi di batte simo venivano spesso scritti in forma abbreviata (Giovanni, ad esempio, risulta anche evidenziato come Giò, Gioan o Gioanni). Tutto ciò ha comportato anche una certa difficoltà nella corretta identificazione di taluni personaggi che intervengono nella vicenda e che, avendo due nomi di battesimo, venivano indicati, una volta con il primo e, in altri casi, solo con il secondo (ad esempio, Giovanni Emilio Mattasoglio viene citato come "Giovanni" e, in altri casi, come "Emilio", creando una possibile confusione con un altro Giovanni Mattasoglio che compare nella narrazione). (ritorna al testo)
 
12- cfr.: Padre Eugenio Manni, "I campanili della Valsesia", vol. VI, Varallo, 1978, pag. 270. (ritorna al testo)
 
13- Potrebbe trattarsi di quello stesso Giovanni Battista Gilardi, scultore in legno di Piediriva e operante anche in Francia e in Val d'Aosta, che nel 1772 avrebbe scolpito il bellissimo altare della chiesa di Santa Marta a Campertogno. Il riferimento è desunto dal pregevole e dettagliato volume di G. Molino, op. citata, pag. 113. (ritorna al testo)
 
14- La prima strada, percorribile con carri, che riuscì a collegare Varallo con Campertogno fu infatti aperta solo nella seconda metà del secolo XIX. (cfr. anche: G. Molino, op. citata, pag. 189). Interessante anche la notazione del Canonico Nicolao Sottile nel suo "Quadro della Valsesia", (ristampa anastatica edita nel 1979 dalle ed. Corradini di Borgosesia su originale del 1817), pag. 90, dove si dice che le strade, "...formate, e sostenute da muri sul pendio de' monti, oppure lungo la Sesia, hanno una precaria esistenza. Una valanga, un masso staccato dal monte, una gran pioggia, il gelo, e spesso ancor un torrente, che precipitando seco avvolge, e terre e sassi, le distrugge in un istante, oppure le ricopre di un ammasso informe d'accumulate materie". (ritorna al testo)
 
15- cfr.: G. Molino, op. citata, pag. 221 (ritorna al testo)
 
16- cfr.: Girolamo Lana, op. citata, pag. 71 (ritorna al testo)
 
17- cfr.: G. Lana, op. citata, pag. 119 (ritorna al testo)
 
18- cfr.: F.Tonetti, op. citata, pag. 570 (ritorna al testo)
 
19- cfr.: C. Sottile, op. citata, pag. 48 (ritorna al testo)
 
20- cfr.: G. Lana, op. citata, pag. 25 (ritorna al testo)
 
21- I riferimenti sono tratti, in particolare, da: G. Molino, op. citata, pag. 125. Durante l'epoca feudale, la Valsesia fu considerata a lungo feudo imperiale dei Conti di Biandrate. Dopo la battaglia di Legnano del 1176, nella quale le milizie valsesiane si batterono fianco a fianco con i confederati lombardi, i Biandrate persero i diritti sulla valle a favore del Comune di Novara, prima, e di quello di Vercelli, poi. Agli inizi del 1300 i Valsesiani sperimentarono una forma di autogestione, durata sino al 1365, con ordinamenti autonomi che facevano riferimento alla "Universitas Vallis Siccidae" e che dividevano amministrativamente la zona in due Curie, quella superiore (con Varallo capoluogo) e quella inferiore (con centro in Borgosesia). Nel 1365 i valligiani decisero di passare sotto la tutela dei Visconti che, nel 1395, si fecero assegnare la valle in feudo dall'imperatore Venceslao, per conglobarla, quindi, nel Ducato di Milano. Nel 1520 la Valsesia passò sotto la dominazione francese e, poco dopo, sotto quella spagnola, durata sino agli inizi del 1700. A seguito della vittoria di Torino del 1706, la valle divenne parte del Ducato di Savoia. (ritorna al testo)
 
22- Si tratta di popolazioni di razza, lingua e tradizioni germaniche, entrate nell'alta valle verso la metà del XIII secolo e che tuttora coabitano con le popolazioni autoctone. Nel 1789 Benédict de Saussure le aveva definite "Guardia tedesca attoprno al Monte Rosa". Sull'origine e sull'insediamento delle popolazioni Walser in Valsesia, esiste una copiosa bibliografia specifica. A titolo puramente indicativo, cfr.: Giovanni Giordani, "La colonia tedesca di Alagna Valsesia e il suo dialetto", ed. A. Forni, Sala Bolognese, 1974 (ristampa anastatica di un volume del 1891). Sulle particolari caratteristiche delle case Walser, ved.: Luigi Dematteis, "Case contadine nel Biellese montano e in Valsesia", ed. Priuli & Verlucca, Ivrea, 1984 e, ancora: Arialdo Daverio, "L'architettura delle case di Alagna", Valsesia Editrice, 1983 (ritorna al testo)
 
23- cfr.: L. Ravelli, op. citata (ritorna al testo)
 
24- Il calendario repubblicano, introdotto in Francia nel 1793, faceva decorrere la nuova "era" storica dal giorno della fondazione della Repubblica, il 22 settembre 1792. L'anno repubblicano iniziava dal mese di ottobre e i nuovi nomi dei mesi, tutti di 30 giorni, erano i seguenti:
- Vendemiaio (Ottobre)
- Brumaio (Novembre)
- Frimaio (Dicembre)
- Nevoso (Gennaio)
- Piovoso (Febbraio)
- Ventoso (Marzo)
- Germinale (Aprile)
- Fioreale (Maggio)
- Pratile (Giugno)
- Messidoro (Luglio)
- Termidoro (Agosto)
- Fruttidoro (Settembre) (ritorna al testo)

«« torna indietro alla Premessa

prosegui con il Secondo capitolo »»