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La generazione successiva alla loro con Palladio

PALLADIO

e parlare di Andrea Palladio: infatti, poiché ci stiamo occupando dell'architettura come di un linguaggio, è piu utile, da questo punto di vista, porre accanto a Bramante Palladio, sebbene il secondo sia nato tre anni dopo la morte del pri-~ mo. Da Biamante a Palladio il passo è breve, e ve lo dimostrerò. Palladio, ~glio di un mugnaio, divenne noto e trascorse la maggior parte della sua vita in una città di secondaria importanza: Vicenza. Qui avvenne la sua formazione, nel ristretto ambito della cultura locale, per cui Roma era senza dubbio molto lontana, e che aveva, per cosi dire, un suo proprio tardivo Rinascimento maturo.

Quando il giovane Palladio si recò a Roma, dovette essere innanzi tutto colpito dalla terribile insu~cienza delle uniche riproduzioni delle rovine romane fino allora pubblicate: quelle del nostro vecchio amico Serlio, il cui libro era a quell'epoca abbastanza recente. Palladio dovette rendersi conto che Serlio aveva affrontato questi studi superficialmente, aveva omesso molti particolari importanti e non aveva mai colto veramente la lezione insita nella raf~inatezza delle sagome e delle proporzioni che costituiva I'essenza delle opere antiche.

Egli divenne perciò uno studioso di architettura, il piu dotto e meticoloso del tempo: divenne anzi assai di piu. Superò Bramante nella padronanza della grammatica dell'architettura romana e, ogniqualvolta ne ebbe I'occasione(e le occasioni gli si presentarono spesso e volentieri a Vicenza e nei dintorni, e in seguito a Venezia), costrui edi~ci in cui il linguaggio di Roma era piu eloquente e piu articolato di quanto si fosse mai visto.

Quando dico «piu articolato», intendo una cosa ben precisa. Eccone la dimostrazione. I'interno di Sant'Andrea a Mantova e poi, , quello del Redentore a Venezia. Quasi un secolo esatto intercorre fra la costruzione di queste due chiese, la prima di Alberti e la seconda di Palladio. I1 ripetersi del sistema costituito dagli archi con i loro sostegni è quasi identico in entrambe, ma Alberti si serve unicamente di pilastri e Palladio di mezze colonne. Questo è ciò che intendo col termine articolazione. Nella chiesa di Palladio I'ordine è molto piu evidente che in quella di Alberti; inoltre, all'estremità est del Redentore, I'ordine di Palladio si libera perfettamente nell'incurvarsi per formare una transenna absidale dietro I'altare. Sembra che le imponenti colonne sostengano davvevo le pesanti trabeazioni e che i muri e gli archi si limitino invece a occupare gli spazi tra di esse.

il palazzo Chiericati a Vicenza, sempre di Palladio: è un'importante casa di abitazione urbana, che presenta al pianterreno un colonnato aperto al pubblico e al primo piano due terrazze coperte, in modo che sulla facciata verso la strada i muri emergono soltanto nel punto in cui delimitano il grande salone centrale. Anche qui Palladio fa degli ordini il fattore dominante della costruzione. Di fronte a questi edifici e a quasi tutti gli edifici di Palladio, si avverte il suo profondo amore per gli ordini e la fierezza di mostrarli nelle versioni da lui perfezionate. Egli fece risorgere a Vicenza e nel Veneto I'antica Roma con un realismo perfino superiore a quello con cui Bramante I'aveva fatta risorgere nella Roma rinascimentale.

Questo realistico rifarsi a Roma è soltanto uno degli aspetti di Palladio, ma è quello che qui piu ci interessa e,

naturalmente, è inseparabile da un altro aspetto a cui ho già accennato, quello di Palladio archeologo. La qualifica di archeologo non è forse la piu esatta, poiché il suo studio dell'antichità era consapevolmente permeato di fantasia,. Nondimeno, parliamo pure di archeologia. Quando Palladio studiava il testo di Vitruvio o le rovine romane, il suo primo impulso era di eseguire dei «restauri», restauri che sono tra le cose piu interessanti del suo libro, o meglio dei suoi libri: I ~uattro Libri, pubblicati nel I570. L'influenza di tali ricostruzioni si estese molto al di là dell'Italia, ed esse ebbero una ripercussione tutta particolare in Inghilterra. il portico di St Paul a Covent Garden, Londra, opera di Inigo Jones, si riallaccia alI'archeologia palladiana. Esso segue(sebbene con qualche abile e sottile deviazione) I'interpretazione fedele fatta da Palladio di quanto dice Vitruvio sull'ordine toscano.

L'aggetto elegante degli spioventi, le colonne molto distanziate, appartengono all'archeologia palladiana.

Un secolo dopo Inigo Jones, Lord Burlington utilizzò I'archeologia palladiana nel costruire le Assembly Rooms a York: fedelmente vi si attenne.

Nell'esaminare contemporaneamente Bramante e taluni aspetti di Palladio, mi sono limitato ad occuparmi della grande sobrietà propria dell'architettura dell'Italia cinquecentesca, cioè della ria~ermazione del «latino» delI'architettura: lo sfoggio altero degli ordini, elaborati con fiducia illimitata.

della generazione successiva a quella di Bramante: una parte degli artisti che vivevano a Roma alla morte di Bramante, nel I5I5, che erano ancora a Roma quando Raffaello vi mori, nel I520, e che continuavano forse a trovarvisi quando la città fu saccheggiata e devastata dalle truppe imperiali nel I~27.

BUGNATO NEL SERLIO

il significato di un termine che ha una grande importanza nell'architettura classica di quest'epoca: bugnato. Con questo termine si indicò dapprima una maniera rustica e grossolana di disporre le pietre, in modo che ciascuna di esse conservasse un po' delle caratteristiche che aveva al momento dell'estrazione dalla cava. In questa rustica rozzezza si ravvisò tuttavia un certo carattere, la possibilità di un impiego artistico, tanto che col tempo divenne oggetto di estrema so~sticazione. I1 bugnato aveva già ricevuto una stilizzazione e una sistematizzazione al tempo in cui Serlio scriveva il suo quarto libro (pubblicato nel I537), come si può constatare nell'incisione riprodotta nella tavola 27. Da assolutamente rozzo, esso è divenuto estremamente artificioso, con sfaccettature intagliate in modo geometrico. Tuttavia Serlio descrive il bugnato come se si trattasse in sostanza di un misto di naturale e di artificiale: egli sembra voler dire che si tratta di una specie di lotta fra I'artefice e le forze della natura.

BUGNATO E GIULIO ROMANO

Il palazzo del Te, residenza estiva dei duchi di Mantova. Si tratta di un'opera singolare. Vi riconoscerete di certo I'ordine dorico. Le colonne principali ricordano il modello dell'arco trionfale; ma, mentre quelle esterne hanno un plinto tutto per loro, le interne condividono il proprio molto illogicamente con un ordine dorico minore, introdotto per incorniciare I'arco. L'insieme difetta di armonia ed esattezza. Come si vede, alcune pietre della trabeazione sono «scivolate» e si trovano simmetricamente disposte rispetto al centro.

Che significa tutto ciò? È abbastanza ovvio che si tratta di un rifiuto degli insegnamenti di Bramante. ricorda le rovine (specie nelle pietre fatte volutamente «scivolare»)e certi edifici antichi rimasti interrotti. Ma è anche di una straordinaria efficacia, che in gran parte deriva dall'uso espressivo del bugnato. La pietra è in continuo contrasto con i particolari architettonici estremamente elaborati. Le grezze pietre che fungono da chiavi di volta delle due edicole laterali spingono la cornice fra le pietre sovrastanti. Le chiavi di volta delle due nicchie sono grottescamente troppo grandi, mentre quella dell'arco centrale è assurdamente piccola. Qua e Ià il muro è privo di bugnato e appare spoglio in modo sconcertante.

L'architetto ha voluto fare sul serio? Sono certo che non ha inteso abbandonarsi a stramberie. Si tratta di un'arrogante protesta contro le regole e si tratta anche di poesia: una poesia, che ha qualcosa in comune con le grotte e con la mania dei nani e dei giganti che ossessionava la corte di Federico Gonzaga. Ma ai nostri occhi la sua importanza dipende dalla sua carica inventiva. Giulio Romano non inventò il bugnato (lo usavano già i romani, lo usò Brunelleschi e lo usò Bramante nella casa di Raffaello), ma riusci a conferirgli un'efficacia espressiva, quale nessuno prima di lui aveva raggiunto, e da cui solo pochi architetti delle generazioni successive non trassero profitto. Dal palazzo del Te Giulio Romano passò al Palazzo Ducale, costruendovi quell'indimenticabile esemplare di stile classico-grottesco il cortile della Cavallerizza. E, il suo progetto di una porta di città: è un arco trionfale interamente concepito negli stessi termini di durezza esa-

sperata.

Le invenzioni di Giulio Romano esercitarono un'innuenza estesissima. Da quanto ho detto su Palladio, potreste credere che questi avrebbe saputo resistere a una materia cosi esplosiva, mentre invece anch'egli attinse da Giulio Romano per i suoi ultimi palazzi.

Nell'Inghilterra del secolo xvIII, la prigione di Newgate a Londradovette la sua teiri~cante solennità a Giulio Romano; e non ci si può aggirare in un centro commerciale dell'Ottocento senza imbattersi in sedi di banche e di compagnie di assicurazioni sovraccariche di decorazioni a bugnato, che in gran parte traggono la loro origine da Mantova. per esempio la pesante decorazione della County Hall a Londra.

MICHELANGELO

un rivoluzionario molto piu radicale di Giulio Romano, colui che veramente violò i dogmi del Rinascimento maturo, aprendo nuove vie alI'architettura classica: Michelangelo.

Michelangelo aveva venticinque anni piu di Giulio Romano, ma non si era ancora dedicato all'architettura quando questi incominciò il Palazzo del Te; inoltre le sue opere piu importanti appartengono quasi tutte al periodo posteriore alla morte di Giulio, avvenuta nel I546, guando egli era piu che settantenne. L'architettura di Michelangelo appartiene a un mondo diverso da quello di Giulio Romano. Egli ha scarso interesse per il bugnato; i suoi muri sono lisci e la loro forza espressiva dipende essenzialmente dall'essere superfici delimitate in modo rigoroso, dalle loro sporgenze e rientranze, e dall'elaborazione di elementi che di rado sono decorati. Michelangelo insisteva sempre nel dire che non era un architetto, ma uno scultore, sebbene nessun architetto di professione abbia mai avuto un'innuenza cosi determinante sull'architettura.

Vasari scrisse di lui: «gli artefici gli hanno infinito e perpetuo obbligo, avendo egli rotti i lacci e le catene delle cose che per via d'una strada comune eglino di continuo operavano». Si tratta in ogni caso di un'affermazione inadeguata, che non rende giustizia alle in~uenze positive esercitate dalle invenzioni di Michelangelo e alla loro carica stimolante.

I1 modo di operare a cui si riferiva Vasari era, naturalmente, quello dei maestri del Rinascimento maturo a partire da Bramante, consisteva cioè in quella padronanza grammaticale, ottenuta attraverso lo studio di Vitruvio e un'approfondita analisi degli antichi monumenti romani, di cui ho parlato nella seconda conversazione. La sagoma delle cornici e il rivestimento di porte e finestre erano sempre progettati richiamandosi all'autorità degli antichi.

Se nei progetti si manifestava la sensibilità personale delI'artista, ciò avveniva involontariamente e a causa di incrinature nel processo di selezione delle fonti consacrate. Da parte sua, Michelangelo si ribellò ad ogni concetto di «autorità». Come scultore, aveva già una padronanza della forma e della materia che superava quella degli antichi e, quando si volse all'architettura, la sua capacità di guardare, oltre le forme morte e accettate, a qualcosa di intensamente vivo, lo mise in grado di trascendefe la grammatica di Vitruvio con estrema sicurezza. Come dice ingenuamente Vasari, «fece assai diverso da quello che di misura, ordine e regola facevano gli uomini, secondo il comune uso». Senza dubbio egli operò in modo del tutto diverso.

due «edicole» di due grandi maestri classici. La prima, opera di Raffaello nel palazzo Pandolfini a Firenze, è un esempio bello ed elegante di prosa classica; perfetto nel suo genere, non commuove però, e quasi ogni sua linea rientra categoricamente negli schemi vitruviani. . A destra abbiamo una delle edicole di Michelangelo nella Cappella medicea a San Lorenzo. È impossibile descriverla. Presenta, se si vuole, alcuni degli elementi principali riscontrabili nell'opera di Ra~aello: pilastri, timpano, architrave, ma tutti ricreati e gremiti di quelli che un critico vitruviano considererebbe errori grossolani e assurdi. I pilastii sono dorici o che cos'altro? Che significato hanno quelle interruzioni nella linea curva del frontonei~ E in base a quale regola o a quale precedente un architrave modanato scorre all'in su lungo il timpano, per appoggiare i suoi gomiti aguzzi su una cornice? No, quest'opera in realtà è quasi una scultura astratta, è I'equivalente tutto michelangiolesco di Vitruvio. Lo spettatore ne resta forse colpito per la sua stranezza e, sulle prime, per la sua inaccettabilità. Ma questa creazione singolarmente tesa e profondamente sentita non si dimentica. Nessuno degli architetti, o per lo meno nessuno degli architetti giovani e sensibili che visitarono la Cappella medicea dopo che Michelangelo I'ebbe condotta a compimento, continuò a concepire come p~ima I'architettura.

 

Ho concluso la mia ultima conversazione dicendo che nessuno degli architetti, o per lo meno nessuno degli architetti giovani e sensibili che visitarono la Cappella medicea dopo che Michelangelo I'ebbe condotta a compimento, continuò a concepire come prima I'architettura. Non saprei dirne la ragione. Posso soltanto lasciare la parola alle edicole perché ritengo necessario che ci si renda conto di quanto sia convenzionale I'edicola di Ra~aellose si vuole comprendere lo straordinario anticonformismo di quella di Michelangelo Michelangelo ha apportato al latino dell'architettura deformazioni che ricordano quelle del corpo umano in molte delle sue sculture; ma, mentre tutti conosciamo o crediamo di conoscere il corpo umano e quindi avvertiamo facilmente il significato delle deformazioni di esso, pochi invece conoscono bene il nostro latino architettonico. Penso, comunque, che tutti siano in grado di cogliere qualcosa del vigore con cui Michelangelo tratta le forme architettoniche, cosicché non occorre certo sottolinearlo con confronti e analogie.

Le altre opere di Michelangelo non possiedono tutte uguale originalità di dettaglio, ma ci sorprendono sotto qualche altro aspetto. In uno dei palazzi del Campidoglio a Roma )Michelangelo usa un ordine corinzio gigante e assolutamente convenzionale, ma che presenta due pal-ticolarità. La prima è la sua stessa monumentalità, perché i pilastri misurano circa quattordici metri di altezza e preannunziano perciò il San Pietro michelangiolesco, dove diventeranno addirittura colossali, superando i ventisette metri. La seconda particolarità è che questi pilastri occupano due piani. I romani non avevano mai fatto una cosa simile: invero i palazzi capitolini assomigliano, molto approssimativamente, a templi romani, i cui lati siano stati «riempiti» in epoca moderna con muri e finestre nella parte superiore e un piano aperto in quella inferiore. Inoltre il muro del piano piu alto poggia su una trabeazione sostenuta da colonne ioniche, due per ogni apertura. Questa disposizione, questo modo di far collaborare due ordini per risolvere il problema di un edificio a due piani, fu una delle piu valide ed efficaci scoperte di Michelangelo.

Tra il palazzo capitolino e le due facciate di chiese riprodotte il passo è breve: entrambe queste chiese (in modo piu evidente Sant'Andrea al Quirinale, a sinistra), pur svolgendo il tema del Campidoglio, sorsero piu di un secolo dopo il palazzo capitolino. Esse sono un esempio di ciò che viene denominato barocco, ma non posso parlarvi del barocco senza aver prima accennato all'evoluzione dell'architettura italiana fra il momento in cui, nei decenni successivi rispettivamente al I530 e al I540, incominciò a farsi sentire la duplice influenza di Giulio Romano e di Michelangelo, e il momento in cui, un secolo piu tardi, il barocco giunse al pieno sviluppo.

 

MANIERISMO, e VIGNOLA

Questo periodo intermedio si chiama «manierismo». I1 significato del termine manierismo è assai simile a quanto intendiamo dicendo di una persona che è «manierata», cioè che ostenta di imitare un determinato modello e, cosi facendo, mostra artificiosità, modi affettati. I1 manierismo non è uno stile, è lo «stato d'animo» di un'epoca, e comprende le cose piu disparate verificatesi mentre prevaleva tale stato d'animo. Per il nostro scopo, che è di considerare I'architettura come un linguaggio, interessa soprattutto sapere fino a che punto il manierismo colori questo linguaggio e ne arricchi il vocabolario. due famosissimi edifici di Vignola, che sono stati sempre considerati esempi notevoli del periodo manierista. la villa Farnese a Caprarola. Devo premettere che i corpi avanzati dall'aspetto di bastioni ai lati dell'edificio derivano dall'utilizzazione di fondamenta e di muri eretti in parte su progetto di un altro architetto. Prescindendo da essi, il corpo principale dell'edificio, per quanto si può vedere nella riproduzione, sarebbe da considerare un semplice sviluppo di ciò che si s~leva fare nel Rinascimento maturo, qualcosa che forse Bramante e certamente Raffaello avrebbero potuto comporre, sebbene ne diverga in modo abbastanza evidente per il fatto che la loggia a tre archi posta fra la doppia scalinata ricurva è adorna, in modo abbastanza aggraziato, di bugnati alla maniera di Giulio Romano.

Ma passiamo all'incisione, tratta dal libro di Vignola, con il particolare della trabeazione principale della villa Farnese. Essa non assomiglia per nulla alle trabeazioni delle tavole 4 e 5, benché abbia qualcosa in comune con la mediocre versione di Serlio dell'ordine composito: il bandolo della matassa è proprio qui. Fonte dell'ordine composito di Serlio fu I'ultimo piano a pilastri del Colosseo I'ultimo piano di Caprarola, con i suoi pilastri, svolge lo stesso tema. Ma Vignola con molta genialità ha inventato una trabeazione in scala tale da armonizzarla con il sottostante ordine di pilastri e che al tempo stesso è abbastanza grande e ardita per costituire I'elemento terminale del massiccio edificio. Ci si allontana cosi dalla stretta osservanza della grammatica dell'antichità, incominciando a modellare con fantasia, a progettare le facciate come un alternarsi di luci e ombre, attraverso il quale, piu che enunciare una serie precisa di affermazioni, si svolge un gioco con un suo significato.

Questo modo di prospettare le cose potrà essere meglio compreso se lo applichiamo a una facciata che sia una piu completa espressione del manierismo: per esempio, il secondo edificio di Vignola da me citato, la chiesa del Gesu, la principale chiesa dell'ordine dei gesuiti a Roma È Un tempio vasto con un'ampia facciata a due piani di pilastri, tutti corinzi. Se osservate attentamente questo edificio cercando di decifrarne I'architettura in termini di Rinascimento maturo, vi trovate subito in difficoltà. Non vi è un ritmo costituito da una ripetizione evidente. Le superfici avanzano e indietreggiano in modo sconcertante e a un certo punto, nel piano inferiore, sembra che un pilastro si nasconda in parte dietro un altro. Evidentemente tutto I'edificio è concepito per apparire come un pezzo di architettura plastica di vaste proporzioni, in cui è insito un gioco preciso con un suo signi~cato.

Cockerell

È importante comprendere questi prodotti del periodo manierista, perché la loro innuenza si fece sentire molto a lungo. I primi vittoriani, per esempio, riscoprirono I'architettura manierista (benché non la chiamassero cosi, ma semplicemente italiana), e la riscoprirono come qualcosa di perfettamente a loro congeniale. Essa sembrava liberarli dalla fredda pedanteria dei revivals classici e possedeva ciò che i vittoriani amavano definire «carattere». Molte delle grosse e scure banche e molti degli empori piu elaborati in città come Manchester, Liverpool e Leeds, sono completamente «manieristi» quanto a ispirazione ; di quando in quando trapela I'abilità artistica dei veri e propri manieristi, come avviene nella produzione dell'unico architetto classico vittoriano inglese di calibro internazionale, Charles Robert Cockerell. attinse a piene mani alla villa di Caprarola per la sede di una compagnia di assicurazioni nella City di Londra

Cockerell merita molta piu attenzione che non architetti di questo genere e in Gran Bretagna non si trova un altro edif~cio che eguagli 1'Ashmolean Museum di Oxford per purezza d'ingegno e per capacltà mventiva nel trattare i temi manieristi. Cockerell vedeva con gli occhi dei manieristi italiani, ma vedeva anche altro: infatti, particolari tratti dall'arte greca, di cui aveva approfondito lo studio, arricchiscono in modo straordinario I'idioma

manierista di Vignola, del quale si riconosce subito, nonostante la nuova sagoma, la famosa cotnice.

STILEMI MANIERISTI

un'opera af~ascinante di un architetto manierista ~orentino che era anche scultore, Bartolomeo Ammannati. È un edi~ticio rigido e seve~o, con quakhe concessione alla «plasticità»: pannelli rientranti, pannelli sporgenti, pannelli spo~genti entro pannelli rientranti e, al di sopra dei fianchi dell'arco, una voluta assurdità, due capitelli ionici scolpiti come se fossero sospesi o appartenessero a un sottile strato architettonico in parte aspoitato per mettere in mostra I'arco. Questa tendenza a trattare la facciata come se fosse una scultuia, che deriva in ultima analisi da Michelangelo, riappare (e forse in modo ancor piu accentuato) con il cortile del palazzo Maiino a Milano. È un cortiletto di foima quadrata, con tte archi per ogni lato, che pochi si prendono la briga di andare a vedere, benché sia proprio al centro della città. I1 fatto curioso in quest'opera di Galeazzo Alessi è che, al di sopra dell'ordine dorico del pianterreno, dalla trabeazione assai ridotta, quasi tutto si è trasformato in scultura, o meglio I'architettura è stata relegata nei contorni, mentre le superfici sono piene di statue, maschere zoomorfe, trofei e festoni di ~ori e frutta. Al posto di un ordine superiore vi sono delle «e~me», costituite da piedestalli stretti alla base, che si allargano in alto terminando in busti umani; fra le «erme» si ttovano nicchie contenenti statue; fra gli archi, elaborati pannelli con sculture a rilievo, e cosi via. L'insieme è molto scenogra~co e probabilmente deriva proprio dalla scenogra~a.

Questo tipo di decorazione architettonica si diffuse con molta facilità specialmente nel Nord dell'Europa e si prestò per la creazione di incisioni di notevole interesse,. Esse sono, iispettivamente, del fiammingo Vredeman de Vries e del tedesco Wendel Dietterlin, e mostrano sotto quale forma I'architettura manierista raggiunse, fra altri paesi, 1'Inghilterra elisabettiana. Infatti Wollaton Hall, a Nottingham), è abbondantemente adorna di elementi tratti da De Vries. E benché gli studi terribilmente complicati di Dietterlin non fossero spesso copiati in Inghilterra, il suo tiattato divenne cosi famoso che la decorazione elisabettiana e del tempo di Giacomo I era generalmente nota, nei secoli xvII e xvIII, come decorazione «ditterling».

. Copiare De Vnes significava copiare semplicemente dei disegni, seppure gradevoli, che offrivano soltanto una valutazione superficiale di quel tipo di progettazione classica,

Ritorniamo dunque al punto centrale del nostro discorso. la facciata del Gesu. vi sono altre due facciate che con tutta evidenza ne sono la derivazione. Santa Susanna a Roma e, se la confrontate con il Gesu, sarete subito colpiti da due cose. La prima è che Santa Susanna è molto piu compatta: la sua facciata è in sostanza inscritta entro un rettangolo verticale, mentre le volute in corrispondenza delle navate laterali, che nel Gesu si protendono in fuori, qui sono decisamente ridotte per contribuire alla spinta verso I'alto. In secondo luogo, penso che vi renderete conto come, mentre nel Gesu il motivo dei pilastri si ripete in tutta la facciata, in Santa Susanna la disposizione delle colonne e dei pilastri è inconfondibilmente diretta a richiamare I'attenzione verso il centro e, in particolare, sul portale. Un simile confronto è stato fatto spesso ed è uno dei tanti confronti che si possono fare per mettere in luce la differenza fra I'architettura manierista e quella barocca: e Santa Susanna è barocca.

Ma, per comprendere come occorra procedere con cautela nell'uso di questi teimini, osservate oia la terza chiesa(quella di Val-de-Grace, costnxita a Parigi cinquant'anni dopo Santa Susanna. È manierista o barocca? Vediamo un po'. Non si disperde né è ambigua come il Gesu, ma non ha nemmeno la potenza e la decisione di Santa Susanna. E non è neppure qualcosa di intermedio, ma ha un carattere tutto suo. È rilassata e armoniosa, e il graduale articolarsi dell'ordine del piano inferiore, da pilastri a colonne a tutto tondo, sembra imbevuto di uno spirito classico piu genuino di quello di qualsiasi parte degli altri due edi~ci. È manierista o barocca? Né I'uno né I'altro. Si tratta di un'interpretazione personale del tema del Gesu da parte di un francese, e questa interpretazione appartiene a una fase dell'arte francese che ha modelli classici suoi propri: quelli di Poussin, di Racine e di Mansart, il quale ultimo appunto è I'architetto di questa chiesa.

È impossibile superare I'imbarazzo che si prova talvolta nell'usare termini generici come «Rinascimento maturo», «manierismo», «barocco», ecc. I1 barocco è quasi sempre retorico, nel senso di un'oratotia magniloquente, ricercata e suadente; e, nel parlare delI'architettura come una sorta di linguaggio, esso costituisce un'utile qualificazione per alcuni degli edifici piu importanti del secolo xvII: quelli a cui si pensa subito quando si adopera la parola «barocco». Intendo quindi concludere la presente conversazione esaminando tre opere di questo genere: prima di tutto, la piazza di San Pietro a Roma di Bernini, poi la facciata est del palazzo del Louvre a Parigi di Le Vau, Perrault e Le Brun, e infine Blenheim Palace presso Oxford di Vanbrugh e Hawksmoor. Alla domanda se sono proprio certo che queste tre opere siano puro barocco, risponderei subito che naturalmente non ne sono certo. Da un lato, non vi è una categoria del «puro barocco»: il fatto che esista un certo termine non significa che esista una pura essenza correlativa. Dall'altro, mentre si potrebbe tranquillamente affermare che questi tre edi~ci a buon diritto possono essere definiti barocchi, si potrebbe tuttavia dimostrare con altrettanta sicurezza che ciascuno di essi presenta elementi che, sotto qualche aspetto, potiebbero rendere ingiustificata tale qualificazione. Non preoccupiamocene, dunque, ma limitiamoci a esaminare queste tre opere e ad analizzarne il signi~cato.

Bernini pt~ogettò la piazza di San Pietro come un enorme cortile chiuso, antistante alla chiesa. Cosi appare nella veduta aerea, eseguita prima delle demolizioni dell'epoca fascista. Si tratta di un cortile esterno, non di un «luogo di accesso»: un cortile esterno, uno spa· zio delimitato, un sagrato costruito allo scopo speci~co di accogliervi grandi folle per ricevere la benedizione papale. Prescindendo dai due corridoi rettilinei, che si riallacciano alla facciata della chiesa, esso consiste in un immenso spazio ovale, parzialmente circondato da due reggimenti curvilinei di colonne: colonne in quadruplice fila, alte oltte quindici met~i. Ve ne sono in totale duecentottanta, duecentottanta colonne a tutto tondo, alte oltre quindici metri, probabilmente il piu maestoso complesso di colonne del mondo. Ma queste colonne(Sono doriche2 Si, tranne che hanno basi toscane, che sono un po' piu alte delle normali colonne doriche e che sostengono una trabeazione, la quale non è a~atto dorica, ma piu o meno ionica. In altre parole, in questo caso particolare Berninl ha progettato, al di là della norma, un proprio ordine, in cui la dignità marziale di quello dorico si fonde con I'eleganza di quello ~onico. È un ordine indimenticabile per la sua originalità: non lo si può non ricordare come dorico(grazie ai capitelli), ma è un dorico personalissimo.

Vorrei riuscire a esprimere I'impressione straordinaria che producono questi colonnati. dietro ciascuna di quelle visibili vi sono altre tre colonne, cosicché, quando ci si trova alI'interno di uno dei colonnati, sul cammino percorso talvolta da imponenti processioni, i loro cilindri ascendenti si affollano intorno come gli alberi di una foresta. I1 sole vi penetra a malapena, e da questa foresta sacrale se ne scorge un'altra al di Ià della piazza, parimenti vasta e profonda. Osservate poi come ciascuna delle due gigantesche mezzelune, il cui ritmo avrebbe potuto tanto facilmente disperdersi, è trattenuta da colonne che, come sentinelle, sporgono alle estremità e di nuovo, a coppie abbinate, nel centro. Si tiatta di una mirabile realizzazione, alla quale contribui, naturalmente, il fatto che I'occasione era meravigliosa ed eccezionale: I'occasione di costruire una struttura di tale mole e di costruirla soltanto con colonne. Per quanto mi risulta, una simile occasione non si è mai piu ripresentata: è stata solo oggetto d'invidia.

Un palazzo è una cosa molto diversa: se passiamo al Louvre di Parigi ritroviamo un colonnato, ma un colonnato la cui esistenza è in funzione di parte di una dimora regale. La progettazione di questa facciata fu uno dei grandi avvenimenti della storia dell'architettura europea. La costruzione del resto del Louvre era durata un secolo e Colbert, ministro di Luigi XIV, voleva che la facciata est coronasse felicemente I'intero edi~cio. Furono interpellati tutti i maggiori architetti francesi e alcuni di quelli italiani piu famosi, compieso Bernini, che si recò con grande pompa a Parigi e il cui progetto fu accettato, senza essere poi realizzato. Alla ~ne, I'opera fu a~idata a tre persone: Louis Le Vau, primo architetto del re, Charles Le Brun, suo primo pittore, e Claude Perrault, medico dalla vasta cultu~a scientifica, che è stato sempre considerato la mente piu originale e innovatrice fra i tre.

I1 risultato è spettacoloso. Nessun architetto italiano era mai riuscito (o forse non aveva mai avuto I'occasione per tentare di riuscirvi) ad adattare su cosl vasta scala I'architettura dei templi romani alle esigenze di un palazzo. Ma soprattutto colpisce nel Louvre il colonnato corinzio dalle colonne romane pienamente articolate. Le colonne sono a coppie. Abbiamo già visto nella casa di Raffaello di Bramante )una soluzione analoga, che costituisce un comodo espediente per assicurare alle ~nestre un ampio intercolunnio. Ma le colonne di Bramante erano addossate a un muro, mentie nel Louvre il muro retrostante arretra pe~ un tratto, cosicché le colonne risaltano come se facessero davvero parte del colonnato di un tempio. Tuttavia, considerando I'insieme della facciata in tutta la sua lunghezza, vedrete che, quantunque il colonnato sia un elemento saliente e scenografico, non è I'unico fattore che contribuisce alla 1·iuscita. Essa dipende dal modo di trattare I'ordine nel suo complesso e d'integrarlo nelI'edi~cio in modo da dominarlo. E come si è ottenuto ciò3 Abbiamo visto che per due lunghi tratti I'ordine appare indipendente; ma, al centro, nella pa~te in cui fa un passo avanti e sostiene un frontone, le colonne hanno alle spalle un muro pieno, un muro, fra parentesi, in cui si apre un arco che sovrasta I'ingresso principale e che (sopra alI'arco)è ornato di splendidi bassorilievi. Quindi, nei corpi terminali(chiamati dai francesi, e per lo piu anche dagli inglesi, padiglioni), nei padiglioni terminali, il muro avanza ulteriormente e I'ordine, con il medesimo intercolunnio del colonnato, si trasforma in una serie di pilastri. Ma, quasi in compenso, questi padiglioni terminali hanno nelI'intercolunnio di centro (ingegnosamente allargato) una rientranza, in cui il muro arretra fino al piano di quello del padiglione centrale e contiene per di piu una ~nestra ad arco che riecheggia I'arco dell'ingresso centrale. Osservate tutto ciò attentamente nella riproduzione, perché il Louvre è uno splendido esempio di come, attraverso il «gioco» di un ordine dassico, si può padroneggiare una facciata lunghissima non soltanto senza cadere nella monotonia, ma con intelligenza, grazia e logica estetica. Mi limiterò ad aggiungere, a proposito del Louvre, che le decorazioni scolpite hanno una leggerezza e una delicatezza di genere tipicamente francese, che spiega la straordinaria vitalità di questo edi~cio, il quale in una limpida mattina di primavera appare come la cosa piu nuova e fresca che si sia mai vista.

Vanbrugh

Blenheim Palace un altro palazzo, totalmente diverso dal Louvre. Questa volta non si tratta di un'unica lunga facciata con sapienti variazioni di piani, ma di un edi~cio che consta di molte parti, che si snoda in vari modi, con sporgenze e rientranze; non si tratta di un lungo e sereno orizzonte, ma di una silhouette vivacemente in moto. Blenheim Palace, fatto costruire dalla regina Anna per il duca di Marlborough come ricompensa per i servigi da lui resi allo stato e al tempo stesso come monumento della gloria militare britannica, fu opera congiunta di Vanbrugh e Hawksmoor. Probabilmente è uno degli edifici classici piu complessi di tutta 1>Europa. Potrei spiegarne la complessità soltanto dilungandomi sulle teorie architettoniche di Vanbrugh. Poiché me ne manca il tempo, desidero solo dire che Vanbrugh fuse nella sua opera due innuenze completamente diverse. Come si può bene immaginare, una di esse fu I'architettura romana, appassionatamente amata insieme a tutte le applicazioni che ne avevano fatto i grandi maestri e teorici (in ciò egli fu pienamente sostenuto dal collega Hawksmoor). L'altra fu un'influenza insolita per quei tempi: Vanbrugh era straordinariamente sensibile ai castelli medievali e alle vaste dimore cariche di torri e torrette del tempo di Elisabetta e Giacomo I, che erano fra le costruzioni piu audaci dell'Inghilterra. A Blenheim queste due in~uenze si fondono con un risultato affascinante e in apparenza caotico. Ma Blenheim non è caotico: è composto con estrema bellezza e con la massima logica, come spero di riuscire a dimostrare anche servendomi soltanto della piccola riproduzione della tavola gI.

Esaminiamo per prima cosa le due torri di destra e di sinistra, dal pesante bugnato e sormontate da una serie di pilastt~i e di pinnacoli. Sebbene se ne vedano chiaramente soltanto due, in realtà queste torri sono quattro, situate ai quattro angoli di un rettangolo: esse inchiodano al suolo Blenheim. Le torri non hanno ordini classici; il resto del palazzo invece si, essendo caratterizzato da due ordini, uno corinzio, alto piu di quindici metri, e I'altro dorico, alto la metà, i quali formano tra loro una specie di contrappunto, entrando e uscendo dalle torri. I1 corpo centrale del palazzo è corinzio, con colonne pienamente articolate nel portico e pilastri su entrambi i lati. Si può dire che in questo corpo centrale I'ordine dorico si nasconde: lo si avverte soltanto nel pianterreno ai lati delle finestre, in numero di tre a destra e a sinistra del portico, ma riemerge nelle ali, vi fa due battute e poi s'incurva, altre due battute e poi gira, entra nelle torri e scompare. Quindi, esce marciando dal ~anco successivo di ciascuna torre e prosegue la marcia in linea retta, ~nché non gira di nuovo, presentando un ingresso con una gradinata interna, sormontato da una panoplia. Tale è, molto sommariamente, lo schema di questa manovra architettonica, di questa immobile coreogra~a. Ma Blenheim o~Te ancora molte altre cose: il modo in cui le linee verticali del portico riemergono al di sopra del timpano e poi arretrano per incontrarsi col frontone della sala centrale, invenzione, questa, dav-vero «drammatica» e non remplicemente «melodrammatica»; e il modo in cui I'ordine corinzio penetra nell'edificio e ne riemerge dalla parte del parco con un portico di tipo diverso. Aggiungere altro signihcherebbe voler ricavare troppo da una piccola illustrazione; ma una cosa dovete aver già notato: Vanbrugh e Hawksmooi non avrebbero mai potuto fare di Blenheim quello che fecero se non avessero conosciuto, attraverso incisioni, ciò che mezzo secolo prima Bernini e i suoi predecessori avevano attuato, su scala all'incirca doppia, a San Pietro. Confrontate Blenheim con la piccola veduta aerea di San Pietro, le ali doriche di Blenheim con i colonnati di Bernini, I'ordine gigante di Blenheim con i pilastri giganti di Michelangelo a San Pietro

Concludendo, ecco tre edifici che, a mio parere, mostrano con particolare evidenza la «retorica» del barocco. Credo veramente che «retorica» sia il termine appropriato. Questi edi~ci si servono del linguaggio classico dell'architettura con forza e drammaticità, allo scopo di vincere la nostra resistenza e persuadeici della verità di quanto hanno da dire, sia che si tratti dell'invincibile gloria delle armi britanniche, o dell'ineguagliabile splendore del regno di Luigi XIV, o dell'abbraccio universale della Chiesa cattolica.

 

La luce della ragione e dell'archeologia

 

L'uso del linguaggio classico deli'architettura non è mai andato disgiunto da una certa filoso~a, ogni volta che ha raggiunto un'eloquenza elevata. Non potete servirvi degli ordini con amore se non li amate, e non potete amarli senza essere convinti che impersonano un qualche principio assoluto di verità o di bellezza. La fede nella fondamentale autorità degli ordini ha assunto diverse forme, la piu semplice delle quali può essere espressa in questi termini: Roma era la piu grande, Roma sapeva di piu. L'incondizionata venerazione per Roma è la chiave per spiegare molte cose della nostra civiltà. È una venerazione che ora non possiamo facilmente condividere, perché sappiamo troppo su Roma e non sempre approviamo tutto quello che la concerne, e perché, inoltre, ne sappiamo molto di piu di quanto si sia mai saputo di altre civiltà, che contribuirono ai successi ottenuti da essa. Ma, per comprendere lo spirito del xv e xvI secolo, è opportuno, sotto questo punto di vista, non essere troppo complicati. Burckhardt riporta una suggestiva leggenda concernente un episodio awenuto nel I485, allorché si sparse la voce del ritrovamento del corpo perfettamente conservato di una matrona romana in un sarcofago antico. I1 corpo fu portato al palazzo dei Conservatori e, col dif~ondersi della notizia, il popolo accorse in massa per vedere un simile prodigio. Secondo I'a~ermazione di un contemporaneo, la donna, con le labbra e gli occhi ancot·a semiaperti e le guance colorite, era bella oltre ognj dire, e chi ne avesse inteso parlare, o ne avesse letto, non vi avt~ebbe creduto. Naturalmente si trattava di un falso, ma I'emozione suscitata era genuina. Se la donna era romana, il popolo era certo che doveva essere bella piu di quanto mai avesse visto un occhio mortale.

Questa fede commovente e irrazionale nella superiorità dei romani è propria soprattutto del Quattrocento ed è espressa ef~icacemente nell'aneddoto che ho riferito. Essa è presente con incredibile vigore in alcuni dipinti di Mantegna, in cui senatori, consoli, littori e centurioni sono pronti a recitare di nuovo le loro parti, circondati da monumenti splendidi e superbi.

Ma I'ingenuità di tale fede la rendeva vulnerabile. Se incitava all'azione, spingeva anche al controllo delle fonti e alla critica; e la critica, pur riconoscendo e accettando il fatto della superiorità di Roma, voleva saperne il motivo. Perché, in architettura, ogni cosa meritevole di apprezzamento derivava da Roma? Una delle risposte era che, ovunque, tutte le persone colte concordavano sulla bellezza incomparabile dell'architettura romana; ma si cadeva cosi in una petizione di principio. Un'altra risposta era che I'architettura romana si basava su determinate regole matematiche, da cui non si poteva scindere la bellezza; ma non era facile dimostrarlo. Una terza risposta, assai piu acuta, era che I'architettura romana discendeva, attraverso i greci, dai primordi della civiltà e aveva perciò fatto propria ogni perfezione naturale, anzi costituiva quasi un'opera della natura. A sostegno di questa tesi si fece appello a Vitruvio, il quale aveva insegnato che I'ordine dorico rappresentava lo sviluppo di un prototipo ligneo e aveva dimostrato che in origine le colonne dei templi erano tronchi d'albero, e di conseguenza i templi stessi risultavano una derivazione delle foreste. Una singolare allusione a tale credenza si riscontra in alcune colonne del chiostro di Sant'Ambrogio a Milano, progettato da Bramante, sul cui fusto di pietra sono scolpiti moncherini di rami tagliati.

Ma il problema del «perché» non divenne veramente assillante prima del secolo xvII, e non venne posto in Italia bensi in F~ancia. Era naturale, a mio parere, che uno spirito critico non dovesse sorgere in Italia, patria dell'architettura classica, ma in un paese dove questa era assimilata e modificata, sostituendo la piu intellettualistica di tutte le tradizioni architettoniche medievali. Ad ogni modo, fu proprio in Francia che, verso la metà del Seicento, s'incominciò a porre il problema della vera natura degli o~dini e di come dovessero venire usati negli edifici moderni. La «perfezione naturale» degli ordini fu accettata, e la principale preoccupazione dei critici francesi fu di garantirne la purezza e I'integrità.

I1 nuovo appello agli ordini fu proclamato in una serie di trattati. Ilprimo fu il famoso Parallèle de I'Architectuve Antique et de la Modevrte di Roland Fiéart, che contiene un rigoroso confronto fra il modo in cui gli ordini furono creati nelI'antichità e quello in cui furono interpretati dai trattatisti da Serlio in poi. Fréart è per una rigida purezza selettiva.

Segue il principale architetto del Louvre, Claude Perrault, con la sua bella edizione di Vitruvio, accuratamente annotata, e con il suo trattato sugli ordini, da cui ho preso I'incisione della tavola 5, essendo essa forse la piu raffinata fra tutte quelle che li raffigurano.

Quindi, nel I706, apparve un'opera ancora piu notevole delle precedenti, il Nouveatl Tvaité de Tozlte I'Avchitectuve dell'abate de Cordemoy, che sembra essere soltanto un'altra analisi critica degli ordini, con lo stesso orientamento dei predecessori, ma che in realtà è molto di piu. Cordemoy non vuole limitarsi a liberare gli ordini da qualunque alterazione e affettazione, ma vuole sbarazzarsi del loro uso a scopo puramente ornamentale, sbarazzarsi di ciò che chiama, con e~cacia, «architettura in rilievo»: pilastri, mezze colonne, tre quarti di colonna, colonne addossate al muro, frontoni decorativi, piedestalli, piani attici, e cose del genere. È una specie di ritorno alle origini, liberandosi da ogni elaborata linguistica architettonica, da ogni elemento misterioso e drammatico, da ogni virtuosismo dei maestri italiani, facendo parlare agli ordini il loro primigenio linguaggio funzionale: nulla di piu e nulla di meno.

Questa tesi era molto bella e molto consona alla mentalità francese dell'epoca, era molto razionale (il che, naturalmente, costituiva la cosa piu importante), ma non ebbe effetti nemmeno in campo teorico, perché gli ordini, quali furono creati a Roma, non rappresentano qualcosa di primigenio, non sono a~Iatto funzionali, bensi, invece, estremamente stilizzati.

Toccò quindi a un altro francese, il gesuita Laugier, ci~ca cinquant'anni dopo, di enunciare una teoria che mandò davvero tutto all>aria, dando una base diversa al pensiero architettonico per il secolo successivo. Forse per piu di un secolo, poiché Laugier proba· bilmente può essere chiamato a buon diritto il primo ~losofo dell'architettura modeina.

Era opinione diffusa fra tutti i tiattatisti che I'architettura sorse quando I'uomo primitivo si costrui la prima capanna. Dalla capanna passò al tempio e, perfezionandone via via la formula, inventò la versione in legno dell'ordine dorico, ricopiandola poi in pietra. Seguirono gli altri ordini. Questa era la teoria comunemente accettata, ma nessuno aveva mai riaettuto in modo concreto sulla capanna primitiva: lo fece Laugier. Egli la ravvisò in una costruzione costituita da sostegni verticali, travi trasversali e un tetto aguzzo, piu o meno come è raffigurata nel frontespizio allegorico del suo trattato,. Questa, secondo lui, era I'immagine ultima del vero architettonico, «il modello - per usare le sue stesse parole - in base al quale sono state create tutte le meraviglie dell'architettura».

Furono cosi minati per la prima volta i fondamenti degli ordini, e furono sostituiti con qualcosa d'altro, con un'immagine del loro ipotetico prototipo, che è un prototipo funzionale e razionale. Laugier non intendeva bandire gli ordini, anzi riteneva che nuovi ordini potessero essere inventati, purché gli architetti li usassero con la stessa funzionalità costruttiva dei sostegni e delle travi nella capanna dei nostri progenitori. Era d'accordo con Cordemoy che tutta I>«architettura in rilievo» doveva scomparire, ma andava oltre, esigendo che scomparissero anche i muri. Secondo Laugier, I'edificio ideale era costituito esclusivamente da colonne: da colonne che sostengono travi, le quali sostengono a loro volta un tetto.

Tutto ciò può sembrare a prima vista un po' bizzario, benché a noi che viviamo a metà del xx secolo, circondati da edifici nuovi fiammanti, composti da colonne di cemento armato intercalate soltanto da diaframmi di cristallo, non dovrebbe sembrare bizzarro, ma altamente profetico. Comunque, nel I753, nessun architetto avrebbe potuto proporre una cosa tanto stravagante come I'abolizione dei muri. Laugier non era però un architetto, bensl un filosofo e rimaneva nel campo delle astrazioni. Sapeva, beninteso, che i muri non potevano essere aboliti né lo sarebbero stati, ma dettava un principio di bellezza architettonica, che, a suo avviso, dipendeva necessariamente da un problema di colonne. Non è di~icile concordare con lui su questo punto. In una pianta, una colonna isolata è soltanto un punto, o meglio un circoletto, che si limita a dare il modulo di un ordine. Due colonne, invece, formano immediatamente un intercolunnio, quindi una sequenza ritmica, cosicché, insieme al modulo, si ha in germe I'inteio edificio. Da un punto di vista logico, tale principio è valido tanto oggi quanto lo era due secoli fa.

Ma come fu accolto nel I7~3 l'~ssai szlr I'drchitecttrre di Laugier? In Francia ebbe un successo strepitoso; in Inghilterra e in Germania venne tradotto entio due anni dalla pubblicazione; fu discusso e criticato, assimilato o respinto in tutta 1>Europa. Quanto alle realizzazioni pratiche, penso che si possa obbiettivamente affermare che, dal I755 in poi, quasi tutte le opere originali o innovatrici rinettono in modo indubbio le teorie di Laugier o le respingono decisamente. L'edificio in cui i suoi principi s'incarnano nella misura piu spettacolare è il Panthéon di Parigi, . Si trattava in origine di una chiesa dedicata a santa Genoveffa. L'architetto, Jacques-Germain Sou~ot, non era precisamente un seguace di Laugier, ma le sue teorie sui principi architettonici erano simili a quelle di lui e probabilmente ne erano state inAuenzate. Se osservate I'esterno del Panthéon potreste essere tratti in inganno dal fatto che, contrariamente a ogni insegnamento di Laugier, esso consta quasi del tutto di muri pieni. Ma, ad un esame piu attento, si notano sui muri delle chiazze grige e oblunghe che sono aperture chiuse in un secondo tempo. Nelle intenzioni di Soufnot, le ape~ture dovevano prevalere sui muri pieni, ma il coef~ciente di sicurezza si rivelò troppo basso e le aperture dovettero essere chiuse. L'interno è piu coerente,sebbene anche qui siano stati introdotti elementi in muratura non preventivati, per assicurarne la stabilità. L'intento di Sou~ot è evidentissimo e ancor oggi lo si avverte subito, non appena entrati in quell'edif~cio fragile e freddamente raffinato. Egli cercò di costruire una chiesa, in cui I'ordine, espresso solo tutto intorno, solo in fusti cilindrici di colonne indipendenti, non soltanto appariva bellissimo, ma assolveva effettivamente la funzione di sostenere la copertura. Vi riusci quasi del tutto.

È stata percorsa una lunga stiada dopo un'altra chiesa già descritta nelle mie conversazioni: il Redentore di Palladio a Venezia Ricorderete che, parlando del Redentore, mi ero so~ermato in particolare sull'articolazione degli ordini. Se Palladio fece dell'articolazione una qualità, Sou&lot la rese quintessenziale. Mettendo fianco a ~anco queste due chiese, si coglie con esattezza la differenza fra gli ideali della metà del secolo xvI e quelli della metà del xvIII. Palladio ambiva soprattutto a essere autenticamente romano; Sou~ot si sforzava di essere in complesso piu ~loso~co, cercando di raggiungere al di Ià di Roma il vero, quel vero strutturale e insieme estetico, in cui si supponeva che gli ordini si fossero incarnati all'origine.

I1 Panthéon è il primo edificio importante che si può definire «neoclassico», essendo questo il termine entrato nell'uso per indicare quel tipo di architettura che, da un lato, tende alla razionale semplificazione patrocinata da Laugier e, dall'altro, cerca di presentare gli ordini con estremo rigore archeologico. Razionalità e archeologia, non sono forse i due elementi complementari che costituiscono il neoclassicismo e che lo differenziano dal barocco? Ancora una volta, bisogna stare attenti a non prendere troppo alla lettera queste etichette. Basta ripensare a una delle maggiori opere barocche descritte in precedenza, piazza San Pietro di Bernini), Si può giustamente obiettare che nulla era piu consono all'ideale di Laugier di quelle monumentali mezzelune composte per intero di colonne indipendenti, prive di qualsiasi elemento plastico e ornamentale. Come spesso accade, in quella particolare occasione si era già manifestato involontariamente, in tutta la sua maturità, un nuovo ideale molto tempo prima di essere teorizzato.

Qualcosa di simile si era veri~cato in precedenza anche nell'architettura inglese in modo particolarmente degno di nota. Osservate la chiesa di St Paul, a Covent Garden, di Inigo Jones. Fu costruita nel I63I,ma, a mio parere, è puro neoclassicismo. Si tratta di uno studio del modello primitivo, basato sulla descrizione dell'ordine toscano da parte di Vitruvio. Quel bel tetto ampio, quelle colonne massicce e distanziate, sono quasi soltanto espressione di ricerca archeologica, e fondamentalmente strutturali quanto lo si può desiderare: siamo proprio sulla strada della capanna primitiva. Un centinaio di anni dopo, ma sempre prima della formulazione della nuova teoria di Laugier, gli inglesi stavano riconoscendo I'importanza di Jones sotto questo aspetto, e un critico, forse un po' troppo entusiasta, descrisse nel I734, la chiesa di Covent Garden come «senza rivali, uno degli esemplari architettonici piu perfetti prodotti dall'uomo». Se si accetta I'ideale neoclassico, si può capire che cosa intendesse. Queste parole furono scritte soltanto un anno o due dopo che Lord Burlington aveva reso il suo omaggio all'archeologia di Vitruvio con le Assembly Rooms a York ricostruzione perfetta dell'«Oecus Aegyptius», o sala egizia, un modello vitruviano illustrato dalla xilografia di Palladio. Non credo che Laugier avesse mai sentito parlare di questi due edifici, ma a Sou~ot, come forse avrete già notato, non era del tutto ignota I'architettura inglese, perché prese la cupola di St Paul di Wren a modello per quella del Panthéon. Potete giudicare da voi stessi se I'imitazione sia completamente riuscita. A mio parere, I'intercolunnio piu stretto del Panthéon e I'eliminazione dei massicci speroni, che in St Paul erano sottostanti a un inteicolunnio ogni quattro, determinano una perdita di gravità: la cupola del Panthéon è un po' troppo aerea rispetto ai bracci rettangolari della costruzione cruciforme che sovrasta. Sou~T~ot credeva senza dubbio di rendere piu puro il progetto di Wren, sbarazzandosi di ciò che Cordemoy avrebbe definito «architettura in rilievo» e cogliendo solo I'essenziale.

I1 vero e proprio incontto dell'architettura inglese con Laugier è un altro discorso ed è un discorso importante. Come abbiamo visto o~ ora, in Inghilterra esisteva gla una forte tradizione di puritanesimo architettonico, che si presenta per la prima volta con Inigo Jones, affiora a piu riprese, a volte anche con Wren e Hawksmoor, ed è implicita nel culto per Palladio proprio del xvIII secolo. Ma forse il fatto stesso che gli inglesi avevano questo atteggiamento piuttosto puritano verso I'architettura, li rendeva riluttanti a seguire fino in fondo Laugier. Inoltre, sotto sotto, essi erano incurabilmente romantici e, se il razionalismo di Laugier li spingeva in una direzione, le invenzioni violentemente irrazionali del grande acquafortista e architetto Giambattista Piranesi li spingevano in un'altra. La fantasia di Piranesi era irresistibile. Osservate una delle sue famose scene di «carceri», una prospettiva cavernosa di archi romani, frastagliati e sfregiati, grondanti di orroie, con un impiego del bugnato molto piu vistoso che a Mantova. Come ben potete immaginare un architetto era difficilmente in grado di conciliave Laugier con Piranesi.

Eppure è proprio questo che fecero alcuni architetti inglesi: per esempio, George Dance il Giovane, la cui prigione di Newgate a Londra si trova evidentemente nella scia di Piranesi, mentre in altre opere egli è innuenzato in modo manifesto da Laugier. L'architettura ufficiale era in complesso contro Laugier. Sir William Chambers, autore dell'unico grande trattato inglese sulI'architettura del secolo xvIII, respingeva sia la tesi della capanna primitiva, sia I'eliminazione radicale di tutto tranne le colonne all'intorno. Eppure, nella tavola del libro di Chambers in cui è illustrata I'evoluzione dell'ordine dorico, vi sono due versioni della capanna primitiva che devono essere state certamente disegnate dopo la lettura di Laugier.

Qualunque sia stato ei~ettivamente I'influsso del pensiero di Laugier in Inghilterra, I'idea del primitivismo, di ricercare cioè nel passato le vere e incontaminate fonti della bellezza a~chitettonica, prevalse senza dubbio in questo paese ed ebbe due conseguenze principali: il reviYal greco e il peculiare esaspe~ato pnmitivismo di Sir John Soane.

L'Inghilterra ebbe una parte di speciale importanza nel revival greco. Fino alla metà del xvIII secolo, I'architettura greca era stata in un certo senso un mistero. Tutti sapevano che i romani in architettura avevano attinto dai greci, cosicché, se si trattava di cercare «fonti incontaminate», la Giecia era evidentemente il luogo adatto. Ma nessuno vi era mai andato: il viaggio era lungo, la Grecia faceva paite dell'impero ottomano e non era né facile da raggiungere, né sicura per un viaggiatore occidentale. Ciò nondimeno, nel I75I due inglesi, James Stuart e Nicholas Revett, partirono per Atene; ritornarono tie anni dopo e, nel I762, pubblicarono il primo volume del loro libro, contenente disegni in scala esatta di edifici greci. Stuart e Revett erano stati preceduti, nel I758, da un libro piu vivacemente illustrato del francese Le Roy, ma divennero le autorità riconosciute in questo campo.

Quando si videro riprodotti fedelmente per la prima volta il Partenone e il Thesèion, i maggiori esempi dell'ordine dorico greco dell'età di Pericle, che effetto fecero;> Erano piu rozzi e immaturi del dorico romano, in quanto lo precedevano, o erano piu puri, perché piu vicini alla fonte~ Tutto dipendeva da ciò che si stava cercando: alcuni li vedevano in un modo, altri in un altro. I1 dorico greco è piu tozzo e massiccio di quello romano d'altra parte, la sua sagoma è piu tesa e convincente. Era inevitabile un'interpretazione un po' elastica. In Inghilterra, i primi edifici con I'ordine dorico greco furono costruiti nei possedimenti dei ricchi signori piu o meno come delle curiosità e delle reminiscenze esotiche, sotto forma di templi e porticati.

Ma verso la ~ne del secolo era prevalsa la convinzione che il dorico greco, nonché lo ionico greco e il corinzio greco, erano in tutti i casi piu puri e migliori dei loro corrispondenti romani, e aveva avuto inizio il revival greco propriamente detto. Ormai la scelta non era piu fra cinque ordini, ma fra otto: i cinque ordini romani, stabiliti molto tempo prima da Serlio, e i tre ordini greci, che potevano essere dedotti dai disegni di Stuart e di Revett. Gli esponenti del revival greco si limitarono naturalmente a questi ultimi.

I1 revival greco, iniziato in Inghilterra, si sparse poi in tutta 1'Europa e piesto raggiunse 1'America. Durò circa trent'anni e non credo che possa essere considerato uno degli episodi piu fausti nella storia dell'architettura. Gli ordini greci rimasero sempre curiosità, esemplari tratti da un museo. Poiché i greci, contrariamente ai romani, non avevano mai sviluppato un'audace tecnica stilistica, poiché non avevano mai usato I'arco o la volta, né costruito enormi edifici a piu piani, gli elementi fatti rivivere tendevano a essere impiegati in costruzioni moderne, come ingombranti e costose appendici, dal carattere piuttosto negativo. Guardiamo di nuovo la fotografia della High School di Edimburgo costruita nel I825: leggiadramente situata a Calton Hill, essa è di certo una delle pm grandiose e convincenti realizzazioni nello stile dorico greco. Ma credo fermamente che, se fossero tolte tutte queste appendici architettoniche, la High School manterrebbe intatta la sua funzionalità e acquisterebbe anzi molta pm luce. Quasi altrettanto si potrebbe dire del British Museum di Londra,. So bene che questo non è del tutto esatto. È vero che portici «inutili» e colonnati «inutili» sono mezzi perfettamente legittimi di espressione architettonica; ma si è giunti proprio a un punto morto quando divengono una specie di bagaglio culturale sfoggiato da edifici che essi nascondono, rivestono e adornano, senza veramente dominarli.

Si~ John Soane, una delle menti piu originali e speculative del periodo che assistette al revival greco, non fece mai nulla del genere. Egli progettò i suoi edifici dall'interno all'esterno. Conosceva benissimo gli ordini greci e ancor meglio quelli romani, aveva studiato gli architetti italiani e stimava molto Laugier. E, grazie a questa preparazione, era in grado di affrontare alla radice il problema e trarre conclusioni sue proprie intorno ai fondamenti delI'architettura. I1 primitivismo di Laugier, I'idea di risalire agli inizi preistorici, lo attraevano certamente, ma egli era pronto ad andare molto piu in Ià nell'eliminare dalle sue opere in modo radicale tutti gli ordini tradizionali e inventare un proprio ordine «primitivo». Lo si può constatare nell'Art Gallery a Dulwich, che esiste ancora e di cui è riprodotto un disegno proveniente dal Soane Museum. L'«ordine» di Soane consiste soltanto in un pilastro di mattoni o in una striscia di mattoni con un collarino di pietra sormontato da un aggetto di pietra, che è una cornice simbolica. Egli non condivideva I'ostilità di Laugier per i pilastri. I critici di Soane chiamarono ironicamente «beota» il suo ordine. Non sono visibili una sola colonna, né una modanatura convenzionali. Ogni elemento è stato iielaborato da Soane e ricreato secondo una sua personale interpretazione. L'originalità è assoluta e sembra che ci si avvii verso un rinnovamento dell'architettura. Ma cosi sembra a noi, non alla generazione che lo segui. Alla morte di Soane anche il suo stile mori, e nessuno se ne rammaricò. I1 revival greco stava del pari morendo. Laugier e le sue teorie furono dimenticate. Si poteva pensare che la storia del linguaggio classico dell'architettura fosse finita. Ma non lo era. Non so se la storia di quel linguaggio abbia avuto un termine, o se lo avrà mai.

gli elementi essenziali del classicismo, poiché essi penetrarono nel caos stilistico del xIx secolo e divennero fattori vitali nella rivoluzione architettonica del xx, la rivoluzione cioè che ci ha dato I'architettura di cui oggi ci serviamo.

 

 

Negli ultimi cinquant'anni, le caratteristiche dell'architettura sono completamente mutate in tutto il mondo. Nell'ambito di tale periodo e alla base del processo di mutamento possiamo ormai delineare, da un punto di vista storico gli sviluppi di quello che chiamiamo ancora a buon diritto il movimento moderno in architettura. Esso ebbe inizio nel decennio precedente il I3I4 e raggiunse il massimo vigore creativo verso il I970· Dopo la seconda guerra mondiale non ha avuto ulteriori sviluppi, non perché la guerra lo avesse ucciso, ma perché ne aveva reso inevitabile I'accettazione universale. I suoi effetti si sono sempre piu diffusi, tanto che ormai non vi è un angolo del mondo industrializzato in cui non siano divenuti caratteristici e familiari i sottili e alti caseggiati scintillanti, le prospettive di pilastri in cemento armato e i rettangoli ripetuti all'infinito. Oggi quasi nessuno attraverserebbe la strada per osservare meglio un edificio, il cui stile trent'anni fa avrebbe spinto a percoiiere 1'Europa con I'impaziente desiderio di vederlo, fotografarlo e descriverlo per lettera agli amici.

È questa la rivoluzione architettonica del nostro secolo, ma a mio parere è compiuta. I1 turbinio delle mode incide solo sulla super~cie delle cose, le brillanti realizzazioni dei singoli possono anche essere spettacolari, ma la rivoluzione è accettata, conchiusa. Tendono a diminuire i problemi formali dell'architettura, e subentrano problemi di tecnologia e d'industrializzazione , di pianificazione e produzione in serie per il fabbisogno sociale: sono problemi piu di edilizia che di architettura, e ci si può perfino chiedere se I'architettura conserverà ancora per molto tempo la sua posizione tradizionale, o sarà assorbita dalI'urbanistica, dall'ingegneria strutturale e dalla progettazione industriale strettamente associate.

In ciò non vi è nulla di deplorevole, anzi, vi è molto da sperare da questa metamorfosi che costituisce in realtà il vero punto di arrivo di una nuova condizione ambientale umana, la quale era stata da lungo tempo preconizzata. Accenno a queste cose al solo ~ne di porre, davanti a tale vasto sfondo, la domanda piuttosto ingenua: «Che ne è attualmente del linguaggio classico dell'architettura2»

Evidentemente esula dall'architettura moderna; ma ha qualche attinenza con essa2 Un'altra domanda: «Che cos'è I'architettura moderna?» Se si vuole, si può rispondere a quest'ultima domanda con alcuni luoghi comuni sulla forma e sulla funzione, ma in realtà non servono. Se vi accingete a esporre che cos'è I'architettura moderna, potete farlo soltanto descrivendo i risultati raggiunti da determinate personalità innovatrici, i loro rapporti di tempo e spazio e lo scompiglio da loro progressivamente arrecato alla tendenza generale della teoria e della pratica architettonica. Le radici dell'architettura moderna si ritrovano nel pensiero e nell'attività di questi capi, e il loro pensiero e la loro attività sono inscindibilmente connessi con le loro reazioni contro, la loro alleanza con, e le deviazioni dalla tiadizione classica del loro stesso secolo e dei precedenti. Oltre a questo, dalla metà del xvIII secolo in poi, appaiono presagi continui del moderno nell'ambito di tale susseguirsi di tradizioni. In breve, si può giungere all'esatta comprensione di ciò che chiamiamo, in modo piuttosto vago e disinvolto, moderno soltanto attraverso la comprensione della sua ascendenza classica, ed è proprio questa funzione del linguaggio classico che desidero ora prospet-

tare.

Ricorderete che nella mia ultima conversazione ho accennato alla filosofia architettonica di Laugier, colui che diede al mondo I'immagine della capanna primitiva o «casetta rustica», come la piu antica fonte di ogni bellezza architettonica. Questa immagine era piuttosto bizzarra e consisteva semplicemente in quattro tronchi d'albero so-

vrastati da rami in funzione di travi e da altri rami in funzione di puntoni; mancavano i muri. Poiché una costruzione di questo genere non servirebbe a nessuno, nemmeno all'uomo primitivo, si può presumere che sia esistita soltanto nella fantasia di Laugier. Non ha addentellati nelI'archeologia piu di quanto il «buon selvaggio» di Rousseau (che fece la sua apparizione in letteratura alcuni anni dopo) li avesse nell'antropologia. Era soltanto uno schema simbolico e signi~cava che dietro Roma, dietro la Grecia, stava un principio che era, per cosi dire, la pura essenza dell'architettura.

Ciò comportava implicazioni di cui forse lo stesso Laugier non era conscio e che si rivelarono solo molto tempo dopo. Se la capanna primitiva era architettura «pura», costituiva forse per questo una soluzione valida al cento per cento dello specifico problema del riparo? Evidentemente no. 0 significava invece che I'architettura «pura» si limita a colonne, travi e puntoni? Sembra che questa sia stata I'idea di Laugier e, sotto tale aspetto, la sua capanna primitiva rappresentava semplicemente la riduzione ai minimi termini della forma del tempio classico: un'espressione ancora nell'ambito del linguaggio classico delI'architettura. D'altra parte, essa conteneva il germe del uazianale: le colonne ridotte a sostegni cilindrici, il frontone a un semplice triangolo sovrastante. Infatti, conteneva il germe di un'architettura, da cui era eliminato ogni elemento decorativo e plastico e che(levigati un po' i tronchi d'albero) diventava esclusivamente materia di geometria solida, pur restando architettura.

Una simile architettura venne alla luce, piu o meno, verso la fine del xvIII secolo. Aveva soprattutto aspetti alquanto utopistici, e una delle sue piu sorprendenti manifestazioni è la città ideale concepita, progettata e mai eseguita, ma pubblicata nel I805, dall'architetto francese Ledoux. È una città iireale per una società irreale e contiene alcuni progetti davvero sorprendenti tanto per il loro scopo quanto nella loro forma. Uno di questi è riprodotto alla tavola 6I. Si tratta di un centro per I'educazione sessuale degli adolescenti, un problema, lasciatemelo dire, delicatissimo, con un elabo·ato programma di cui non occorre qui occuparci. Osserviamo la geometria del centro, una complicata ma armoniosa disposizione di solidi, bene inserita nel paesaggio. Scaturisce il ricordo della definizione dell'architettura formulata nel I32I da Le Corbusier: «le jeu savant, correct et magnifique des volumes assemblés sous la lumière». Anche Le Corbusier progettò una città ideale, la Ville Radieuse, e non sorprende che verso il Igjo uno studioso di architettura ritenesse di dover scrivere un libro tracciando un'analogia fra le due utopie, quella di Ledoux e quella di Le Corbusier. Questo non significa che Le Corbusier sia stato influenzato da Ledoux, anzi a mio avviso non lo è stato.

La tendenza di Ledoux a vedere gli edifici come aggregati di semplici forme geometriche fu condivisa da alcuni altri architetti contemporanei e di poco successivi: per esempio, il tedesco Karl Friedrich Schinkel, il cui Altes Museum a Berlino è illustrato alla tavola 62. Le forme sono assai semplici, ma straordinariamente ef~icaci. Esso consiste soprattutto in una massa rettangolare, un lato della quale è una cortina trasparente di colonne. Queste si stagliano contro un muro interno, ma dietro tale muro s'innalza, al centro, la forma cubica della sala centrale del museo. È un complesso tridimensionale sobrio, ma molto potente, accanto al quale il British Museum (tav. 67), nonostante I'imponenza dei suoi colonnati, fa una figura piuttosto misera. Perché il British Museum è tutto un colonnato, non presenta un solo indizio architettonico delI'edificio retrostante, il quale, per quanto riguarda chi lo osserva dall'esterno, potrebbe quasi anche non esservi.

Quantunque abbia sottolineato soltanto I'importanza della geometria solida pura nel progetto di Ledoux e nel museo di Schinkel, non vi sarà sfuggito che gli ordini architettonici sono presenti in entrambi: nel progetto di Ledoux sotto forma di un portico greco a un'estremità delI'edificio, che ne regola le linee principali e a cui fa eco alI'altra estremità un colonnato semicircolare; nel museo di Schinkel sotto forma di un colonnato grandioso e splendidamente articolato, che influisce formalmente in modo notevole su tutto il progetto. I1 linguaggio dell'architettura classica è ancora molto vivo e gli ordini sono ancora non

soltanto presenti, ma anche pienamente controllati. Benché possa sembrarci di essere ormai alle soglie dell'architettura moderna, tali soglie dovevano essere varcate molto piu taidi. In mezzo vi è la maggior parte del xIx secolo e parte del xx.

I1 xIx secolo s'interessava molto, secondo me fin troppo, agli stili storici. Si continuava ininterrottamente a costruire edifici classici, ma guardando sempre indietro, non solo alla Grecia e a Roma, ma a quasi tutte le fasi successive dello sviluppo classico, servendosi del passato come di una gloriosa miniera di idee. C. R. Cockerell nel1'Ashmolean Museum a Oxford, a cui abbiamo già accennato (tav. 38), inseri motivi ornamentali dei templi greci, una disposizione di colonne tratta dall'arco di trionfo romano, un cornicione preso da Vignola e altri elementi attinti a fonti disparate, come il manierismo fiorentino e Nicholas Hawksmoor. Analogamente Charles Garnier nelI'Opéra di Parigi( tav. 64), costruita vent'anni dopo 1'Ashmolean Museum, incluse un'idea fondamentale di Bramante, il colonnato del Louvie con I'aggiunta di un ordine supplementare derivato dai palazzi capitolini di Michelangelo, alcune parti del vecchio Louvre e un piano attico romano. I progettisti classici stavano per cosi dire girando intorno alle conquiste del passato in cerca di elementi da ripetere in modo diverso o in combinazioni diverse.

Intanto il pensiero vivace e progressista dell'epoca di Laugier era giunto a una svolta piuttosto strana. Era impossibile ai francesi, per quanto condizionati dal classico, ignorare che alcuni degli edifici piu audaci, potenti e inge gnosi di ogni tempo erano le cattedrali sorte nel Medioevo sul loro stesso suolo. I francesi non condivisero mai del tutto con gli inglesi la venerazione nostalgica e campanilistica per il gotico, limitandosi ad ammirarlo dal punto di vista tecnico. Ed era forse inevitabile, ammirandolo in tal modo, cioè per I'economia strutturale e la compiutezza insite in una chiesa a volte, che I'ideale di un'architettura razionale avrebbe condotto dall'interesse per I'antichità classica a quello per il Medioevo. Comunque, il maggior teorico francese dell'Ottocento, Eugène Viollet-le-Duc, dedicò la maggior parte della vita a spiegare I'architettura gotica come un modo completamente razionale di costruire e a lanciare nelle sue conferenze una sfida al mondo moderno pe~ché creasse una nuova architettura basata su ferro e vetro anziché su legno e muratura, un'architettura economica e razionale come quella gotica. La sfida fu accolta in vari modi. Lo sperimentale Art Nouveau dell'ultimo decennio dell'Ottocento comprende diversi tentativi di risposta ai pioblemi sollevati da Viollet-le-Duc. Ma nessuna di queste risposte era pienamente valida e vi si avvertivano lo sfor~o e il fatto di essere studiate a tavolino. La risposta appropriata doveva giungere infine non da una ~loso~a del gotico, ingegnosa e in realtà piuttosto precaria, ma dalla tiadizione classica che tutta 1>Europa aveva condiviso per tanto tempo con I'antichità.

È stata scritta piu volte, e probabilmente lo sarà molte volte ancora, la storia di quello che ritengo verrà sempie chiamato il «movimento moderno» in architettura. Ai nostri ~ni basterà mostrare, per quanto concerne quel complesso e intricato frammento di storia, come e fino a che punto il linguaggio classico oggetto di queste conversazioni vi abbia avuto a che fare, quali ne siano state le conseguenze e quanto di esse pet·manga. I1 modo piu diretto è di esaminare I'attività dei due grandi pionieri della prima generazione di architetti modemi: il tedesco Peter Behrens, nato nel I868, e il francese Auguste Perret, nato nel I874· Opere di entrambi sono illustrate alle tavole 65 e

66.

Peter Behrens, che dapprima si diede alla pittura, era uno degli esponenti pnncipali del movimento Arts and Crafts in Germania all'inizio del Novecento. La grande industria elettrica AEG lo nominò suo architetto e consulente artistico e nel I308 gli a~idò il compito di progettare una fabbrica di turbine per la sede di Berlino( tav. 65). Behrens dovette quúldi affrontare il problema di ptogettare un edi~cio di carattere rigorosamente industriale, conferendogli insieme quel «prestigio» che la AEG Si attendeva dai proprio architetto. Era naturale nella Germania di quel tempo che Behrens guardasse al neoclassicismo tedesco e all'epoca di Karl Friedrich Schinkel, del cui Altes Museum abbiamo or ora parlato. La fabbrica di turbine è in

realtà un edi~cio neoclassico progettato sulla falsariga di un tempio, ma tralasciandone o mutandone tutte le indicazioni stilistiche e i simboli. Nella mia ultima conversazione, ricorderete, avevo detto che Sir John Soane aveva fatto qualcosa di simile piu di un centinaio di anni prima. In un certo senso, Behrens nel Igo8 non andava molto piu in là di Soane (a Dulwich) nel I8II, tranne in questo: Soane elaborava il proprio stile servendosi di materiali tradizionali e (per quanto egli poteva immaginare) insostituibili, mentre Behrens doveva accettare la sfida delle strutture in acciaio, materiale che avrebbe presto messo gli architetti fuori combattimento, se non si fossero piegati alla sua dittatura economica. Cosl, nella fabbrica di turbine, il coIonnato classico è rappresentato da quegli elementi verticali non modulati, posti sul fianco dell'edificio, che in realtà sono montanti di acciaio. I1 portico del tempio si è trasformato in una grande superficie a vetri, sotto un «frontone» che, per accordarsi con la conformazione del tetto retrostante, non è triangolare, ma pluriangolare. Agli angoli i muri presentano superfici lisce segnate da linee orizzontali, che sembrano un residuo di bugnato. Nessuno di questi fattori potrebbe «parlare» nel modo suggestivo in cui lo fa, se Behrens non avesse adottato I'espediente di «assottigliare», cioè d'inclinare, il muro pieno cosi da portarlo sullo stesso piano inclinato delle finestre lungo il lato. Non so ~no a che punto tale espediente sia soltanto di carattere estetico, ma esso dà rilievo e ombra agli spioventi del tetto nel punto in cui, in un tempio, si avrebbe il rilievo e I'ombra della cornice.

La fabbrica di Behrens è una grande realizzazione, ma non appartiene a un tipo di opere che si potrebbero ripetere molto spesso. La s~da dell'acciaio doveva essere affrontata in modo piu diretto ed economico e fu 7Jlralter Gropius, allievo di Behrens, a fare il passo successivo, spingendosi assai oltre i modelli neoclassici, senza perdere tuttavia I'integrità estetica o, per meglio dire, il senso classico dell'ordine e della simmetria. Gli edi~ci industriali di Gropius precedenti la prima guerra mondiale sono, al pari di quelli di Behrens, monumenti chiave del movimento moderno.

Passiamo ora da Behrens e dal suo allievo Gropius al francese Auguste Perret. I suoi progetti erano completamenti diversi, egli non aveva bisogno, né desiderava guardare al neoclassicismo del xIx secolo; come francese, aveva per cosi dire nel sangue I'ancor viva tradizione del disegno classico, incukata dall'Ecole des Beaux-Arts, quella scuola di cui I'Opéra di Parigi è, a mio parere, I'edificio piu evidentemente rappresentativo. Penso che, se darete ancora un'occhiata all'Opéra( tav. 64~, riscontrerete una certa parentela con I'edificio di Perret(tav. 66). A Parigi, I'edificio per la Marina militare di Perret è tutto in cemento armato, completamente privo di motivi ornamentali, ma è concepito in termini di «ordini»: un ordine principale che parte da terra e sale fino a qualcosa di molto simile a un architrave e a una cornice, e il simulacro di un ordine secondario, la cui trabeazione cade proprio sopra la sommità delle ~nestie del primo piano. In questo edificio vi sono quasi altrettanto «rilievo» e quasi altrettanta varietà di ritmo che nell'Opéra. Mancano soltanto le modanature e gli elementi plastici.

Nelle opere esaminate di questi due maestri del movimento moderno abbiamo due diverse affermazioni sulla possibilità d'interpretare il linguaggio classico in termini di acciaio (Behrens)e di cemento armato (Perret). La costruzione di simili edi~ci proclamò una libertà nuova, che, pur non avendo rapporti con ordini specifici, era ancora strettamente legata ai ritmi e alla disposizione generale dell'architettura classica. Non vi era assolutamente alcun motivo per cui questo genere di classicismo schematico non dovesse diventare predominante in modo indefinito come strumento per nuove costruzioni: infatti numerosi edifici sono tuttora molto vicini a quelli di Perret fra il I320 e il I930· Ma le cose presero una piega diversa, grazie soprattutto al genio creativo di un uomo, Le Corbusier, la mente piu fertile del nostro secolo in campo architettonico e anche, per quanto possa sembrare strano, una delle piu classiche.

Le Corbusier nacque nel I887. Nel Igo8-go3 fu per un breve periodo a Parigi nello studio di Perret; nel IgIo-II trascorse alcuni mesi in Germania con Behrens. La sua

prima casa, costruita in Svizzera durante la prima guerra mondiale, mostrava I'influenza di questi due maestri, in particolare di Perret. Dopo la guerra si volse alla pittura e partecipò, insieme ad Amédée Ozenfant, a un movimento, il purismo, il cui ~ne era di assoggettare a una disciplina matematica ciò che esso considerava come I'imminente disintegrazione del cubismo. Nel Igzo Le Corbusier incominciò a scrivere sull'architettura. La raccolta dei suoi scritti fu pubblicata nel I923 COn il titolo Vers tlne Architecture e divenne subito famosa come il libro di architettura contemporanea che ha avuto la maggiore dif~usione e in~uenza.

Se volessimo esporre in poche parole i risultati architettonici di Le Corbusier, dovremmo dire che egli ha capovolto completamente I'architettura moderna da come I'aveva trovata. Subito prima di lui, uomini come Behrens e Perret avevano domato il caos della tecnica empirica e delI'edilizia industriale, disciplinandole entro una struttura progettata classicamente. Le Corbusier si liberò da una struttura di questo genere, consentendo alle forme industriali di parlare il loro personale e spesso bizzarro linguaggio, ma esercitò un controllo piu potente ed ef~icace di quanto potessero fare gli ordini simbolici di Behrens e di Perret, applicando ciò che aveva chiamato «tracés régulateurs», linee di controllo. Nel far questo Le Corbusier riprendeva un tipo di controllo che non era mai caduto del tutto nell>oblio, ma che appartiene essenzialmente al Rinascimento ed è fondamentale tanto nelle opere di Alberti che in quelle di Palladio.

Alla base di questo tipo di contt~ollo è il convincimento che in architettura I'armonia delle parti può essere salvaguardata soltanto se la forma delle stanze, le aperture nei muri e, anzi, tutti gli elementi di un edi~cio sono conformi a certi rapporti, costantemente connessi con tutti gli altri rapporti dell'edificio stesso. Dubito molto fino a che punto sistemi razionali di tal genere pioducano risultati che occhio e mente possano consapevolmente percepire. Ho I'impressione che I'essenza di questi sistemi iisieda semplicemente nel fatto che coloro che ne usano (e sono per lo piu i loro autori) ne hanno bisogno: vi sono, cioè, persone dalla mente fertile e inventiva in sommo grado, che non possono fai~e a meno della dura e inesorabile disciplina di simili sistemi per correggere e insieme stimolare la fantasia. E il destino di tali sistemi sembra, tutto somma· to, confermare quanto ho detto: essi raramente sopravvivono ai loio autori e a chi li usa, mentre chi viene dopo, se piovvisto di fertile ingegno, ne inventa un altro suo proprio. Ciò tuttavia non ne diminuisce in alcun modo I'importanza.

Nella mia prima conversazione ho detto che lo scopo dell'architettura classica è stato sempre quello di ottenere un'armonia delle parti suscettibile di dimostrazione. Forse la parola «suscettibile» non avrebbe dovuto essere cosi strettamente collegata al «sempre». Tuttavia un'armonia suscettibile, quella che scaturisce da un codice specifico a cui fare riferimento, è qualcosa di assolutamente conforme alla natura del classicismo e si awicina molto all'uso degli ordini, che sono in se stessi esempio di composizione armoniosa. Per Le Corbusier la dimostrazione delI'armonia è stata sempie estiemamente importante. Anche la prima casa, sulla scia di Perret, del I3I6 fu da lui pubblicata con i «tracés régulateurs» controllati attraverso gli alzati. I1 manifesto purista seguiva la stessa via e dei «tracés» si parla, sebbene superficialmente, in un capitolo di Vers une Architecture. Fu solo durante i primi anni della seconda guen·a mondiale che Le Corbusier elaborò il sistema che aveva usato fin dall'inizio, il sistema da lui chiamato «modulor». Modulor è una parola composta da «module» (unità di misura)e «section d>or» (sezione aurea), ossia rapporto medio ed estremo, vale a dire la divisione di una linea in modo che la parte piu lunga stia alI'intera linea come la parte piu corta sta alla piu lunga. I1 modulor è un sistema di notazione dello spazio basato su questo assoluto geometrico, che dà luogo a una «gamma» di dimensioni. Una fase media della gamma è in rapporto con le dimensioni del corpo umano; le altre fasi la prolungano ~no alle minuzie degli strumenti di precisione, da un lato, e fino alla scala di una vasta pianificazione urbanistica, dall'altro.

Le Corbusier ha sostenuto energicamente che il modulor è un sistema, il quale, se adottato in modo esteso, poteva risolvere molti problemi della standardizzazione industriale e per giunta favorire I'armonia in tutto I>ambiente in cui viviamo. Forse ne aveva la possibilità; ma in realtà, dopo la sua teorizzazione nel I350, Ilnteresse per il modulor è andato costantemente diminuendo. Sono propenso a credere che in questo come in tanti altri casi I'importanza e~ettiva di un sistema dipende dal genio del suo autore, il quale gli consente di affrontare progetti di cosi estrema originalità come la cappella di Ronchamp, edificio tanto libero nella forma da essere quasi una scultura astratta, e gli permette sempre di padroneggiare completamente il procedimento razionale.

«Procedimento razionale»: si tratta forse in oidine di tempo dell'ultim o, ma certamente non del piu trascurabile retaggio che I'aichitettura contemporanea ha ricevuto dal classicismo. È esso che controlla, e stimola, I'invenzione. Ciò è sempre stato e piobabilmente sempre sarà il modo in cui opera la creazione a~chitettonica. E di questo processo la storia del linguaggio classico dell'architettura fornisce I'antichissimo, il piu univeisale ed esplicito modello.

 

 

 

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