Compact Disc Emozioni in musica

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Indice :

Io non mi sento italiano di Piero

Conosci Victor Jara? di Piero

Próxima estación …Esperanza  di Pol Faber

Giorgio Gaber “La mia generazione ha perso”  di Piero

Bob Dylan   di Ce

Andrea Mingardi “ Ciao ragaz”  di Pol Faber


Io non mi sento italiano

 

Mi ero riproposto una cosa, accingendomi ad ascoltare questo CD: di fare finta che il suo autore fosse ben vivo e vegeto, pronto ad ascoltare anche le critiche. Ma fin dalle prime note non ce l’ho fatta. E’ impossibile, credetemi. Anche se per un attimo ci riesci, arriva sempre quella voce, la sua voce stanca e affaticata a ricordarti che quelle saranno le ultime note e gli ultimi versi. Una voce stanca e affaticata, sì, ma bellissima. La voce di chi si attacca disperatamente, cocciutamente alla vita per un ultimo, supremo sforzo, di chi vuole lasciare un’ultima cosa di sé.

E’ bella questa raccolta. Dolce, poetica, cattiva. Ti riempie di indignazione, di amore, di dolcezza, di dolore.

Ci sono dieci canzoni, quattro che ritornano dal passato e sei nuove. E come accade sempre con Gaber, si spazia, dal politico al personale, e si mischiano tanto questi due fattori, politico e personale, che non riesci a renderti conto dove comincia l’uno e dove finisce l’altro. Ma c’è dappertutto, dalla prima all’ultima nota, dal primo all’ultimo verso, un denominatore comune: il ‘rigore’. Il rigore di chi vuole uno spazio "popolato da chi odia il potere/ e i suoi eccessi/ ma che apprezza/ un potere esercitato su se stessi". La canzone citata è ‘Se ci fosse un uomo’, è quella che chiude l’album, e ci torneremo.

Il rigore che porta due amanti a vivere la loro struggente storia d’amore senza scendere a compromessi né concessioni con la propria morale, tanto da portare fino alle estreme conseguenze il loro rapporto: "Forse il ricordo di quel maggio/gli insegnò anche nel fallire/il senso del rigore, il culto del coraggio/e rifiutarono decisamente/le nostre idee di libertà in amore/ a questa scelta non si seppero adattare./Non so se dire a questa nostra scelta/o a questa nostra nuova sorte/so soltanto che loro si diedero la morte". La canzone è ‘Il Dilemma’, che riesce sempre, dopo anni che l’ascolto, a commuovermi. Il rigore che nella canzone che dà il titolo all’album ‘Io non mi sento italiano’, lo porta, lontano da ogni delirio leghista, ad attraversare senza fare sconti l’Italia che non va, mettendo in evidenza quasi con crudeltà i vizi e le schifezze del nostro paese. Stesso afflato che torna, ancora più cattivo, in ‘C’è un’aria’, dove si concentra in principal modo su chi fa informazione. "I servizi aggiornati testimoniano gli eventi/con audaci filmati/ e inquadrature emozionanti/di persone malate/ che non possono guarire/di bambini denutriti/così ben fotografati,/messi in posa per morire./ C’è un’aria, un’aria, ma un’aria/che manca l’aria".

C’è poi quel piccolo gioiello che ‘L’illogica allegria’, così stranamente leggero, dolce, incoraggiante, proprio come l’aria che si respira all’alba. E c’è il brano che, con grande intelligenza, è stato suonato dentro l’abbazia di Chiaravalle, durante i funerali di Gaber. "Non insegnate ai bambini/non insegnate la vostra morale/ è così stanca e malata/potrebbe far male,/forse una grave imprudenza/è lasciarli in balia di una falsa speranza". E ancora: "Non insegnate ai bambini/ ma coltivate voi stessi il cuore e la mente/stategli sempre vicini/date fiducia all’amore il resto è niente".

E torniamo, in chiusura alla canzone che chiude l’album, ‘Se ci fosse un uomo’. Possiamo considerarlo come un testamento? Sì, credo proprio di sì. Il desiderio, intenso ed irrinunciabile, ad un nuovo rinascimento, ad un nuovo umanesimo. Il desiderio di un uomo che trovi "Uno spazio vuoto/ che va ancora popolato./ Popolato da chi è certo/che la donna e l’uomo/siano il grande motore/del cammino umano". Un testamento? Sì, io lo prendo come tale. E non solo perché è l’ultima delle sue canzoni.

Ciao, Giorgio Gaber, e grazie per tutto quello che mi hai dato e che continuerai a darmi.


 

Conosci Victor Jara?

 

Probabilmente la maggioranza di chi legge questo articolo non era ancora nato l’11 settembre 1973. Quel giorno, in Cile, con uno dei più cruenti colpi di stato nella cruentissima storia dell’America Latina, veniva rovesciato il governo, legittimamente eletto, del presidente Salvador Allende. I militari cileni, addestrati dalla C.I.A. e finanziati dal governo degli Stati Uniti, si accingevano a realizzare ad una delle più violente e bestiali repressioni che la storia moderna ricordi, repressione fatta di omicidi, torture, rapimenti, soffocamento d’ogni più elementare libertà individuale e collettiva.

Gli oppositori arrestati furono talmente tanti che per contenerli tutti fu necessario rinchiuderli nello stadio della capitale, che per qualche mese fu trasformato in un vero e proprio campo di concentramento. Tra gli arrestati ci fu un cantautore abbastanza noto all’epoca, che, ironia della sorte, solo un anno prima aveva tenuto un apprezzatissimo concerto proprio in quello stadio. Si chiamava Victor Jara, di lì a pochi giorni avrebbe compiuto quarantuno anni. Quando scoppiò il golpe, lui, membro del comitato culturale del partito comunista cileno, non scappò, non si nascose. Fu arrestato, deportato allo stadio, torturato. Prima di finirlo, in un macabro simbolismo, gli tagliarono le mani, per essere sicuri che mai avrebbe più potuto usare la sua arma, la chitarra (e come non ricordare.il verso della canzone qui contenuta, “A Luis Emilio Recabarren”, dove Jara dice :”Pongo en tus manos abiertas/mi guitarra de cantor;/martillo de los mineros/arado del labrador”, “Metto nelle tue mani aperte/la mia chitarra di cantore;/martello dei minatori/aratro del lavoratore”).

Daniele Sepe, per i Cd del Manifesto, compie un’operazione culturale e politica assai ardita: raccoglie alcune delle più belle canzoni di Victor Jara, le unisce ad altre splendide canzoni di altri importanti autori latino americani (Violeta Parra, Gilberto Gil), e nel mezzo della raccolta inserisce la registrazione dell’ultimo discorso pronunciato dal presidente Salvador Allende, che in quel tragico 11 settembre 1973, ad un comodo esilio preferì lottare fino all’ultimo e morire combattendo contro i golpisti.

“Conosci Victor Jara?” è un cd che ti fa venire la pelle d’oca dal momento in cui lo prendi in mano, e cominci a sfogliare l’interessantissimo libretto di accompagnamento, fino al momento in cui si spegne l’ultima strofa. E’ un pezzo di storia, un pezzo di musica bellissima, un pezzo di altissima letteratura. Ed è una splendida, violentissima provocazione. Da quando Lucio Dalla dichiarò, qualche anno fa, “la musica andina, che noia mortale”, da quando democrazie di facciata hanno preso il posto in America Latina, di violente ed anacronistiche dittature, l’America Latina non è più di moda. E allora ben venga questo piccolissimo contributo a lanciare un piccolissimo sasso nello stagno, a ricordarci che niente è cambiato, laggiù, che si vive nella stessa miseria, con le stesse allucinanti differenze sociali, con la stessa fame, lo stesso rischio di morire per un’influenza, alla mercé, come prima e più di prima, degli strozzinaggi operati dai paesi ricchi e delle banche internazionali. Per la serie: “Ne uccide più il liberismo, della dittatura”.

Ma non voglio addentrarmi in questi discorsi. Voglio parlare del contenuto del cd.

Come ho già detto si raggiungono vette altissime. Da “Calamito Temucano” di Violeta Parra (“Todas las aves del mundo/volaràn hacia el horizonte/cantando un solo himno/la alegrìa de los ninos/alzando a una sola fuerza/las montanas que nos pesan”, “tutti gli uccelli del mondo/voleranno fino all’orizzonte/cantando un solo inno/la allegria dei bambini/sollevando con una sola forza/le montagne che ci opprimono”), a “Luchin” (“Si hay ninos como Luchin/que comen tierra y gusanos/abramos todas las jaulas/pa’ que vuelen como pàjaros/con la pelota de trapo”, “Se ci sono bimbi come Luchin/che mangiano terra e vermi/apriamo tutte le gabbie/perché volino come uccelli/con la palla di stracci”), fino a quella meravigliosa, sconvolgente canzone che è “Te recuerdo Amanda”. Ma la chiusura degna di questa raccolta è la registrazione, emozionante, coinvolgente, dell’ultimo discorso pronunciato dal presidente Salvador Allende asserragliato nel palazzo presidenziale della Moneda, con il fucile in mano, poco prima di essere ucciso dai golpisti. E’ un lungo discorso, ma la summa di tutto sta in una frase, che non ha bisogno di traduzioni: “La historia es nuestra, y la hacen los pueblos”. Sì, è nostra la storia, ed è tanto più vero questo adesso, se consideriamo che, ad esempio, lo stadio dove Victor Jara fu torturato, mutilato delle mani, ucciso, adesso si chiama proprio “Estadio Victor Jara”.

 

Piero Cavallotti


 

Próxima estación …ESPERANZA

 

L’ultima fatica di Manu Chao. Potrebbe essere il titolo di un articolo dedicato al Bologna visto quest’anno, anche perché all’interno del CD è contenuta la canzone che chiude l’album, col titolo “Infinita tristeza”.

17 canzoni che ci rapiscono e ci portano verso i paesi che spesso sogniamo come mete per le nostre vacanze.

46 minuti (45’37” per l’esattezza) per volare in Jamaica, Brasile e Cuba …con tappa a New Orleans. Ritmi decisamente accattivanti tipici del Sud America con molto reggae (di quello vero). Non manca il Jazz. Tutte le canzoni contenute nel Cd sono collegate tra loro per portare avanti un discorso comune e ..complesso. Consigliato vivamente a chi ama la musica e il contenuto.

Amo molto la musica, tanto da avere sposato in pieno una frase contenuta all’interno del romanzo giallo elaborato da Piero e pubblicato sul nostro sito “Colonna sonora”.

A un certo punto l’eroe del giallo afferma …” ..si può dire che la mia vita sia come una lunga colonna sonora…”.

 Acquisto qualsiasi cosa in grado di trasmettere emozioni e che possa ricordare una particolare situazione della mia vita; è per questo che ascolto indifferentemente un brano di musica classica, passando quindi a uno di trash metal più cattivo e graffiante che ci sia.

Grazie a questo modo aperto di pormi di fronte alla musica, credo di avere una discreta “cultura musicale”.

Mi sono avvicinato incuriosito a Manu Chao grazie alla canzone che ci perseguita in radio ultimamente “Me gusta stu” …la classica canzone che ci fa pensare al mare e agli ombrelloni, però, ho pensato che uno che suona così deve per forza avere molte frecce nel suo arco …alla fine credo di avere avuto ragione.

Musiche tutte quante ottime, tutte quante in collegamento, tanto da potere essere usate veramente come colonna sonora ad un film.

Il Reaggae è predominante, talvolta rasenta il commerciale, altre volte invece potrebbe veramente gareggiare con il mitico di tutti i tempi; Bob Marley.

Il reggae…musica che trasmette (o cerca di farlo) uno stile di vita e una religione…quella Rasta. Avete mai provato ad ascoltare questa musica chiudendo gli occhi con le cuffie che vi separano dal mondo? Ebbene, anche voi avete notato quanto possa essere triste ed allegro nello stesso tempo indipendentemente da quello che viene cantato?

Poca musica riesce a fare la stessa cosa pur non cambiando ritmo.

Purtroppo la conoscenza che ho dello Spagnolo non mi permette di apprendere appieno quello che viene detto nelle canzoni.

Consigliato particolarmente a CE e Piero (sperando di ricambiare in parte quest’ultimo con i consigli che mi da per acquistare i libri)

 

EL FUTURO LLEGO HACE RATO

 

Pol Faber       (Paolo Fabbri)

 


 

La mia generazione ha perso

 

Due sono le cose che non mi sono piaciute, di questo disco: la registrazione in studio e il titolo. Dopo ventidue anni, Giorgio Gaber abbandona le registrazioni dal vivo nei teatri e torna in studio, ma il risultato è peggiore. Sì, lo so, la riuscita ‘tecnica’ della registrazione in studio non si paragona a quella dal vivo, ma volete mettere con l’adrenalina, la partecipazione, il coinvolgimento emotivo che ti dà una registrazione dal vivo? In uno spettacolo come quello di Gaber, poi?

Ma la cosa che mi è piaciuta di meno è il titolo. “La mia generazione ha perso” implica sconfitta, sì, ma soprattutto accettazione della sconfitta. Vedete, per me ci sono due tipi di perdenti: c’è il perdente che cade per non rialzarsi, per esporre bandiera bianca e arrendersi, e c’è il perdente che cade per rialzarsi subito, per dire “Ok, oggi ho perso, ma domani torno a romperti i coglioni più di prima, a farti sentire il mio fiato sul collo”. Io ho sempre fatto parte della seconda categoria di perdenti, sia politicamente, con la mia antica militanza di sinistra, sia sportivamente, con il mio tifo appassionato e sofferto per Bologna e Fortitudo. Ecco, il titolo non mi piace perché mi sembra una contraddizione palese, nel senso che Gaber, con la sua generazione, non ha perso. E’ caduto, sì, decine, centinaia, migliaia di volte, ma è sempre lì, cocciuto, insopportabile, a rompere i coglioni a tutti noi, a provocare, in maniera intelligente ma inesausta, a non assecondare nessuno, a non lasciar scappare la più piccola ovvietà, il più piccolo conformismo.

Non mi piace questo atteggiamento di autodenuncia e di abiura per quello che si è fatto e pensato, che accomuna tanti militanti ed ex militanti di sinistra. Mi viene in mente una bellissima scena del bellissimo film di Nanni Moretti, “Caro Diario”, in cui il protagonista, assistendo ad un film in cui alcuni quarantenni che fanno il bilancio della loro vita dichiarano “Gridavamo cose orrende e violentissime…. siamo imbruttiti”, si ribella ed urla a se stesso e al mondo “Voi gridavate cose orrende e violentissime, e voi siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste e sono uno splendido quarantenne!”  Come può dichiarare di avere perso uno che, negli anni 70 scriveva una canzone come ‘Si può’, che riappare in questo CD con la stessa carica polemica, la stessa cattiveria, a chiederci: “Ma come, con tutte le libertà che avete volete anche la libertà di pensare? Utopia, utopia….”.

E’ proprio il gusto per la polemica diretta e non fine a se stessa, la volontà di denunciare ogni forma di conformismo e di buonismo il filo conduttore del lavoro di Gaber. L’artista milanese non dà tregua a nessuno, non concede sconti. Brani come ‘Il Conformista’ (“Il conformista/ è un uomo a tutto tondo che si muove/ senza consistenza, il conformista/ s’allena a scivolare/ dentro il mare della maggioranza/ è un animale assai comune/ che vive di parole da conversazione/ e di notte sogna e vengon fuori/ i sogni di altri sognatori”), il già citato ‘Si può’, ‘Il potere dei più buoni’ (in cui Gaber accetta di correre il rischio di lanciare messaggi che confinano con un certo qualunquismo), fino a quella summa di ironia e di cattiveria che è ‘Destra-Sinistra’ (“Fare il bagno nella vasca è di destra/ far la doccia invece è di sinistra/ un pacchetto di Marlboro è di destra/ di contrabbando è di sinistra/ (…) io direi che il culatello è di destra/ la mortadella è di sinistra/ se la cioccolata svizzera è di destra/ la nutella è ancora di sinistra”), brani come questi, si diceva, ci impongono di mettere in discussione continuamente le nostre idee, i nostri atteggiamenti e i nostri comportamenti.

Ma non c’è solo la critica feroce a tutti i conformismi. In “La mia generazione ha perso” Giorgio Gaber affronta anche il tema del rapporto con gli altri, sia inteso come convivenza civile (“E tu mi vieni a dire”, “La canzone dell’appartenenza” che si chiude con un bellissimo “Sarei certo di cambiare la mia vita/ se potessi cominciare/ a dire noi”), sia come rapporto uomo/donna. E’ qui che si raggiungono a mio avviso le vette più alte con “Quando sarò capace d’amare”, una canzone d’amore che forse è qualcosa di molto di più, è un inno, uno slancio verso quello che si vorrebbe raggiungere nel rapporto con un’altra persona (e, concedetemi una digressione personale, dio mio, Lucia, amore mio, che gioia e che orgoglio capire che noi, tu ed io, li abbiamo raggiunti, quei traguardi!). “Quando sarò capace d’amare/ vorrò una donna che ci sia davvero/ che non affolli la mia esistenza/ ma non mi stia lontana neanche col pensiero./ Vorrò una donna che se io accarezzo/ una poltrona, un libro o una rosa/ lei avrebbe voglia di essere solo/ quella cosa”.

E, last but not least, veniamo all’ultimo brano del CD, il famosissimo ‘Qualcuno era comunista’, una specie di orazione civile, sofferta al limite dell’angoscia, ma orgogliosa al limite della superbia, su quelle che furono le ragioni, etiche e morali, oltre che politiche, che portarono tante persone di questo paese a fare quella scelta.

Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana./ Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri./ Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo./ Perché sentiva la necessità di una morale diversa./ Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita”. E’ inutile, ho già sentito questo pezzo decine di volte, ma ogni volta l’emozione riesce a trasformarsi in magone e in un groppo in gola. E sono tante le domande che mi pongo, anche se la più importante riguarda quell’ “era”. Come quando mi domandano se io sono o no comunista, e mi  viene da rispondere con le parole di Manu Chao, che dice “Dipende: comunista come Stalin no, ma comunista come mio padre, sì”. E penso al mio, di padre, che in quanto comunista mi ha sempre insegnato a dire ‘noi’ prima di ‘io’, a basare le proprie scelte innanzitutto sull’interesse dei molti; a mio padre che passava intere notti in fumose ed appassionate riunioni, che, da assessore comunale, impediva alla moglie di accettare sconti dai negozianti. Sì, lo so, il muro di Berlino è caduto. Ma che cosa c’entra il muro di Berlino con me, con mio padre, con il suo rigore morale, rigore che era comune a lui e a tanti suoi compagni?

Ecco perché, Giorgio Gaber, cocciuto ed implacabile censore d’ogni conformismo, impareggiabile cantore delle rabbie della mia adolescenza e della mia maturità, ecco perché mi viene da urlarti che hai fatto un disco bellissimo con un bruttissimo titolo.

 

Piero Cavallotti


Forever Young

 

Ecco, mancava solo l’Oscar. O quasi. E adesso è arrivato.

A dire il vero manca ancora il Premio Nobel. Candidato due anni orsono nella sezione letteratura. Ma questo non l’ha vinto. Lo show business, l’establishment, le case discografiche e cinematografiche hanno fatto a gara negli ultimi anni, conferendogli premi e onorificenze a tutto spiano e tutte di grande prestigio. Ma sì, avranno pensato, giochiamocelo finchè è ancora vivo e pimpante. Finchè è ancora così, sempre scontroso e scorbutico ma decisamente più malleabile che in passato. Finchè ancora i suoi CD vecchi e nuovi vendono. Finchè possiamo sbandierare ai quattro venti che, sì, è sempre il menestrello, il poeta, il maestro, l’icona principe, il rock, il folk, insomma tutto. Finchè continua a girare per il mondo concedendosi a platee da stadio o a piccoli teatri di provincia per più di 150 serate ogni anno. Da più di dodici anni. Sempre uguale, sempre diverso. Finchè la sua sete di denaro, di popolarità, di soddisfare quel mostruoso ego non si appaghi e non si plachi. Finchè la salute e la voglia reggono. Finchè la sua immagine, sempre meno misteriosa e rara continua a non sfigurare sulle pagine dei quotidiani, delle riviste patinate più prestigiose. Finchè le migliaia di pagine web a lui dedicate non saranno sostituite da altro. Ora che si mette addirittura lo smoking per ricevere il Golden Globe, come a Los Angeles poco più di due mesi fa. Ora che, tra poco più di un mese e mezzo dovrà soffiare su 60 candeline. Dai ragazzi, c’è ancora poco tempo.

Sono così stanco e stufo di leggere analisi, verità, segreti, notizie. C’è sempre qualcuno che ne sa di più, che ne ha scoperta una nuova. Che finalmente ha capito il significato di un testo del 1965, di una risposta in un’intervista del 1976, di una strana espressione sul palco in una sera del 1996.

E chissà la valanga di banalità che leggeremo oggi e nei prossimi giorni dopo l’assegnazione della statuetta dorata.

Lasciatelo stare. Lasciatemelo stare.

Dylan lo scaltro. Dylan l’ebreo. Dylan lo stronzo. Dylan il maestro. Dylan amaro. Dylan malato. Dylan tirchio. Dylan sagace. Dylan vecchio. Dylan genio. Dylan sempre giovane.

L’ho visto in concerto la prima volta nel 1984. Da allora credo di aver saltato solo un’anno senza vederlo almeno una volta. Girando di qua e di là in Italia, in Europa e negli Stati Uniti.

Mi sono sentito dire che ero matto. Matto, fanatico e malato. Non lo escludo. Per me Dylan è Dylan. Lo zio Bob, come lo chiamano in casa mia, perché è uno di famiglia. Ora più che mai.

E’ per questo che male sopporto il resto. Imitatori, esperti, critici, analisti, teologi, quizzettari, somari, cantautori, valletti, plagiatori e colleghi. Tutti hanno detto la loro su tutto. Lasciatemelo stare, per piacere. Lasciatemi sognare ancora con la sua voce, con la sua armonica e con i suoi riccioli sporchi. L’unico autorizzato a dire qualche cosa, semmai, è lui.

Ho conosciuto Joan Baez, una delle poche persone che forse un po’ lo conosce davvero. E lei, nel corso di una lunga e bellissima conversazione in cui si è parlato di tutto, mi ha raccontato una cosa così semplice e disarmante che me lo ha fatto amare ancora di più. “Chissà per quanto tempo ancora – le confessò Dylan una volta – continueranno a chiedermi il significato di questo verso, di questa canzone. A che cosa volevo riferirmi in realtà. Ma io non lo so. Non c’è stato alcun significato o alcun senso recondito al di là delle parole che, ora, spesso neppure ricordo”.

Quindi caro zio Bob complimenti anche questa volta. E, come dici tu stesso “May you stay forever young”.

 

Ce


Ciao Ragaz

 

L’ultima fatica di Andrea Mingardi si chiama Ciao Ragaz (live in dialetto) edito dalla AM Managemant.

 14 canzoni più una breve intervista ai Luna Pop che ormai sono diventati come il classico prezzemolo …i èn da par tòtt (sono ovunque)

 La durata del CD è di 71 minuti e 25 secondi.

 Consigliato vivissimamente a tutti i Bolognesi e …simpatizzanti tali.

Per chi, come me, conosce Mingardi musicalmente, conoscerà sicuramente la maggior parte dei brani contenuti che lo hanno reso celebre. Stessa minestra quindi? Niente affatto. Tutte le musiche sono state riviste ed ognuna di esse al di la del testo ironico o profondo che si possa ascoltare fanno traspirare maestria e professionalità; insomma non è una “zirudèla “strampalata.

Molti i cantanti famosi Bolognesi che hanno partecipato alla costruzione del CD:

·         Luca Carboni Che col suo modo di cantare riesce a far diventare tragica anche una canzone come Gig duemila

·         Gianni Morandi

·         Lucio Dalla, splendida la sua interpretazione di A iò vést un Marziàn duemila

·         Francesco Guccini che offre insieme a Mingardi forse la canzone più esilarante di tutto il Cd lanciandosi in un rifacimento di La fìra ed San Làzer duemila

·         E tanti altri ancora.

Ma non c’è solo da ridere

Troviamo un passo dell’Inferno di Dante interamente tradotto in Bolognese e magistralmente interpretato da Ivano Marescotti in Il Conte Ugolino

Troviamo due canzoni dedicate ad altrettante parole di uso comune nella “nostra” madre lingua; Socc’mel e Benéssum (striscioncino che il Narab Group mostra a tutte le partite) che servono molto a far capire il vero significato senza fermarsi solo alla traduzione letterale

Per finire in una nostalgica Bulàggna lè cambiè che vuole essere anche un grido contro il razzismo, pur mantenendosi nei limiti senza entrare nel buonismo forzato.

 

E se non conoscete il dialetto?

Due cose

1)-  Peggio per voi, non sapete cosa vi perdete …sono scusati solo i non residenti

2)- Mingardi ha pensato anche a voi inserendo un simpatico vocabolario in ordine alfabetico Bolognese – Italiano, non limitandosi però solo alla traduzione ma dando anche piccole spiegazioni.

E per il punto 2 mi allaccio al libro Benéssum scritto da Andrea Mingardi assolutamente da mettere nella propria libreria perché aiuta a capire meglio il nostro dialetto o se lo conoscete abbastanza bene,  ci riporta con la mente a modi di dire dimenticati o a scoprire l’origine di certi vocaboli.

Sicuramente Cd e libro sono un’accoppiata da non perdere

 

 

Bulàggna lè cambiè

 

Bulàggna lè cambiè, tótt al mannd al cambia … anca mé

Cal ritmo qué al va ban, anche per i ghetti di New York,

o la periferì ed Nuova Delhy, e le montagne Curde,

sòtta ai grandi cieli,

a voi imparèr a chattèr, e a viazèr su Internet.

 

Cinìs, giapunìs, africàn, albanìs,

ròss ed Bazzàn, filipèn ed Calderèra,

indiàn maruchén, àarab algerén,

i fan impressiàn, sott al Pavaiàn.

 

Çn ed Curdgèla na vòlta, entrò in un bar di funo,

ci guardaron storto, csa fèt tè qué? Sei fuori zona!

Va mo’ a cuntèr sta storia qué a una rondine o ad un falco

O al mi amìg Carlén, cal va a Firànz in curva

Tòtt bardè ed rossoblù

 

Cinìs, giapunìs ….

I én mégga catìv, si én soul pérs

As pòl vivér insàmm, anc sa sàn divérs

 

Bulàggna lè cambiè, ans tròva piò un etrusco nianc a pagherél

Se a te ti piace il pése, a mè invézi l’um va brisa zò …e alòra!!

Mé al so che tè t’è dla Fortitudo, invézi mè a san dla Virtus….

Csa cambia?!

T’um fè ander za d’testa, ma siamo amici, e la va ban acsé.

 

Cinìs, giapunìs….

I fan impressiàn, sòtt al Pavaiàn

As pòl vivér insàmm, anc sa sàn divérs.

 

 

Traduzione

 

BOLOGNA E’ CAMBIATA

 

Bologna è cambiata, tutto il mondo cambia … anche io,

il ritmo che abbiamo noi va bene, anche per i ghetti di New York,

o la periferia di Nuova Delhy, e le montagne Curde,

sotto i grandi cieli,

voglio imparare a chattare, e a navigare in Internet.

 

Cinesi, Giapponesi, Africani, Albanesi,

Russi di Bazzano (Paese satellite di Bologna), Filippini di Calderara (altro paese satellite di Bologna),

Indiani Marocchini, Arabi Algerini

Fanno impressione, sotto il Pavaglione (il portico più famoso e “storico” di Bologna insieme a quello che porta a S. Luca da Via Saragozza)

 

Uno a Corticella una volta (quartiere di Bologna…dove fanno la pasta Corticella appunto), entrò in un Bar di Funo (Paese satellite di Bologna che dista da Corticella pochissimi Km),

ci guardarono male, cosa fai te da queste parti? Sei fuori zona!

Vai a raccontare questa storia a una rondine o ad un Falco,

o al mio amico Carlino, che va a Firenze in curva

tutto bardato di rossoblù

 

Cinesi, Giapponesi…

Non sono cattivi, si sono solo persi

Possiamo vivere insieme, anche se siamo diversi

 

Bologna è cambiata, non si trova più un Etrusco neanche a pagarlo (tipico modo di dire Bolognese, quando non si trova una cosa si dice “neanche a pagarlo” come per sottolineare l’impossibilità a reperirla)

Se a te piace il pesce, a me invece non va proprio giù …e allora!

Io lo so che sei della Fortitudo, invece io sono della Virtus…

Cosa cambia?!

Mi fai andare giù di testa, ma siamo amici, e va bene così

 

Cinesi, Giapponesi….

Fanno impressione sotto il Pavaglione

Si può vivere insieme, anche se siamo diversi

 

 

Pol Faber                  (Paolo Fabbri)