Concerti Live

Su ] Emozioni ] Colpo di genio ] [ Concerti dal vivo ] Musica classica ] Dvd ] Compact ] Rugby ] Viaggi e miraggi ]


"Siete pazzi!"

Davvero, forse c’erano più di 60.000 pazzi. Senz’altro i 15.000 del prato ma anche chi si era accomodato sulle tribune un po’ d’acqua l’ha presa per forza, nonostante la copertura di San Siro.C’era poco da fare per proteggersi dal vento che tirava in trasversale e dall’acqua dell’uragano che si è scatenato sullo stadio dopo circa tre quarti d’ora dall’inizio del concerto."Siete pazzi!": certo. Ma chi l’avrebbe immaginato? A Milano non pioveva in maniera un po’ consistente da settimane e settimane. C’erano state due gocce (ma proprio due) la mattina. Poi era uscito un bel sole e la temperatura si era assestata su livelli accettabili, quasi gradevoli.Il colpo d’occhio dello stadio è molto simile a quello visto poco più di due settimane fa per i Rolling Stones. Si notano solo, a differenza dell’altro concerto, numerosi striscioni e cartelli che testimoniano l’amore del pubblico per Bruce.Chi ringrazia Adele (la mamma di Springsteen), chi ricorda il Giugno del 1985, chi richiede un pezzo. Chi, più semplicemente, scrive un eloquente "we love you".Il pubblico è tranquillo, variegato. Colpisce il mix delle età.Si chiacchiera, si fanno incontri, si beve una birra: sono le 19.00 e manca un’ora.San Siro si riempie anche se fuori ci sono dei bagarini che restano con qualche biglietto sul groppone. Non ce ne crucciamo più di tanto.Alle 20.15, preceduto dalla musica di "C’era una volta in America" ci siamo. C’è un grande ondeggiamento di folla verso il palco.Esce prima la E Street Band e quindi Springsteen, chitarra ed armonica,che parte con The Promised Land. Un colpo basso a chi per giorni aveva scritto con certezza che avrebbe aperto con Born in the USA, versione acustica. Seguono, senza interruzioni The Rising, Lonesome Day e My Love will not let you Down.Sia Bruce che la Band sembrano carichi e vogliosi. C’è grande allegria e partecipazione, sia sul palco che tra la folla. Breve pausa e Springsteen, in quel suo italiano spagnoleggiante, ringrazia e ricorda quel giorno di 18 anni prima, le emozioni ed i cori Bru-ce, Bru-ce (pronunciato così, com’è scritto) che hanno dato il via al rito. La frase più bella è "Spero siano stati anni buoni".Una splendida Darkness at the Edge of Town ce li fa ricordare tutti. Buio sul palco. Anche il cielo si sta facendo scuro e minaccioso. Uno spot-light bianco mira Springsteen. Due passi dietro di lui Patty Scialfa. Intonano Empty Sky, calda e coinvolgente, ma mai come oggi decisamente fuori luogo.Passano infatti pochissimi minuti, e dopo The River cantata da tutti e sessantamila, il violino di Soozie Tyrell e l’acustica di Springsteen attaccano le prime note di Waitin’ On a Sunny Day.E l’empty sky di Milano si trasforma in un diluvio universale. Acqua, acqua e ancora acqua.Ci si guarda intorno. I più previdenti estraggono da non si sa bene dove delle mantelline. Compare persino qualche ombrello. Che si fa? Andiamo su, al coperto? Ma no dai, adesso smette.Dal nulla si materializzano i venditori di mantelline. Un furto: cinque euro per una "cosa" di plastica sottilissima che offre solo la sensazione di riparo.Dal palco la Band intona "Who’ll Stop The Rain" di memorie Creedenciane. Pare che l’avesse già fatto a Parigi e che avesse funzionato. Macchè. Siamo anche noi a chiederci who’ll stop the rain perché siamo ormai fradici ma la pioggia non accenna, non dico a smettere, ma almeno a calare di intesità. C’è chi si ripara sotto il tendone dei punti di ristoro, chi si stringe al centro, chi opta per i sottopassaggi laterali delle uscite.Saliamo per cinque minuti anche noi sugli spalti, mentre sul palco intonano Growin’ Up e Worlds Apart. Siamo zuppi. La pioggia pare cessare per un momento. Giù tutti di nuovo appena in tempo per l’attacco di Badlands. Nel frattempo Springsteen è uscito dal palco un paio di volte, la prima con un cappellaccio bianco in testa, ed è lì, tra di noi, a bagnarsi. Come a voler esprimere la sua solidarietà a noi, ai nostri vestiti, alle nostre scarpe che danzano nelle pozze di San Siro.Fa quasi freddo: piove decisamente con meno intensità ma non smetterà mai sino alla fine."Siete pazzi!". Out in the Streets e Mary’s Place ci scaldano un poco. L’acustica purtroppo non rende giustizia ad una E Street Band perfetta per sonorità ed intesa.Seguono Follow That Dream ed una acclamatissima Thunder Road.I punti vendita del merchandaising ufficiale sono stati presi d’assalto da chi tenta almeno di cambiarsi la maglietta. Gli va grassa perché con quei prezzi senza pioggia non so quanto avrebbero venduto (magliette a 30 euro, t-shirts a maniche lunghe a 50 e perfino una felpa con cappuccio a 75: prezzi da via della Spiga più che da concerto rock, mah…).Bruce presenta uno ad uno i componenti della band. Ovazione per tutti ma Clarence Clemons la fa da padrone. Springsteen gigioneggia col pubblico, mette in scena quei suoi ammiccamenti e quella mimica che, anche grazie ai due schermi giganti posizionati ai lati del palco (con una definizione che rasenta la perfezione) fanno partecipare tutti.Into the Fire e, attesissima ed apprezzata, No Surrender. Si chiude. Beh, sembra che si chiuda naturalmente. Sono solo le 22.20.Ed infatti…Bobby Jean, Ramrod e una Born to Run che avrebbe fatto danzare un sordo sono i primi bis. Ciao, ciao Bruce. Macchè."Siete pazzi, vi amo!". Lo dice, quasi sottovoce, mentre si accomoda al piano. Partono le note della struggente My City of Ruins, dedica melanconica alla New York dell’immediato dopo 11 Settembre. Quindi Land of Hope and Dreams.Poi, di nuovo, un pò di cabaret con la Band: andiamo? Restiamo? Che ore sono? E’ tardissimo! Sono stanco. Figurarsi.Dancing in the Dark con tutte le luci accese dello stadio e migliaia di mani alzate. Abbiamo scordato che siamo bagnati dalla testa ai piedi, un po’ stanchi ed infreddoliti. Ma non è finita qui.Parte, un po’ a sorpresa, Rosalita. Uno dei pezzi dei primi tempi: sono passati trent’anni."Siete pazzi!". "Rosalita jump a little lighter, Señorita come sit by my fire…..". Beh, magari avessimo un bel focherello qui ora. Sono le 23.15. Sembra quasi dispiaciuto di dover salutare davvero. "I’ll be back" è la frase con cui lascia il palco. Verrebbe da rispondergli "Anche noi". Ma lui lo sa."Siete pazzi!". Si.


I ROLLING STONES A SAN SIRO

E’ davvero difficile descrivere e provare a far rivivere a chi non c’era le sensazioni e le emozioni vissute ieri sera a San Siro.E’ andata in onda una buona parte della colonna sonora della nostra vita. Ma questa volta non era un CD, un film, un libro (magari di Nick Hornby) a farcela ricordare e risentire.Erano loro. Inossidabili ed incredibili. Lo stereotipo del mestiere, della gigioneria, degli ammiccamenti, del riproporre musiche che in alcuni casi hanno bel oltre trentacinque anni non regge. Questi "sono" il rock. E che rock.

Un passo indietro. Non sono mai stato sul prato di San Siro. Varcando le porte a vetri sotto "la curva del Milan", l’emozione è forte. Lo spettacolo incredibile. Pare assurdo, ma visto dall’interno lo stadio sembra più piccolo di quello che in realtà appare quando siamo seduti sulle tribune. Ci si immagina cosa possa voler dire dire essere lì con 75.000 persone che ti guardano, ti giudicano, ti incitano o ti fischiano, mentre giochi a pallone. Il campo è gigantesco.Con un po’ di vergogna commentiamo le nostre meraviglie quando, magari negli ultimi dieci minuti di una partita, ci chiediamo come mai qualcuno non corre più. Da lì dentro lo si intuisce bene il perché. Abbiamo speso un bel po’ di soldi per questa serata (oddio, in realtà poco più di un distinto centrale a Bologna per una partita del BFC, ma per un concerto fa più effetto), ma la parte centrale del prato che ci è riservata è fantastica. Siamo a pochi metri dal palco e dalla passerella che corre lungo la linea di centrocampo e che permetterà agli Stones con una mossa ad effetto di andare ad eseguire tre brani sotto le tribune. Doveroso omaggio a chi è più lontano dal palco. C’è tanta, tantissima gente ma, forse a causa del prezzo del biglietto, dove siamo noi ci si riesce a muovere bene. Il palco, posizionato sul lato lungo dalla parte dei "distinti" è grande, ma appare abbastanza spartano e spoglio. Alle 19.10, con un anticipo di cinque minuti, escono i Cranberries. Suonano per 45 minuti circa. Fanno le loro hits, carine, orecchiabili. Cantate da tanti.  Sembrano ( o sono?) un po’ tutte uguali. Il pubblico però gradisce e loro rispondono bene. Alle 20.00 salutano. Mezz’ora di chiacchiere, di lotte e sudate per riuscire a prendere una birra fresca. E’ tutto pronto ed alle 20.35 un boato accoglie l’ingresso sul palco dei Rolling Stones. E subito via alla grande con Brown Sugar e Start me Up. Non li avevo mai visti "live". Il cuore batte forte forte. Al termine del terzo brano (You got me rocking) il palco si trasforma. Un gigantesco disegno a metà tra un fumetto ed un quadro futurista riempie lo sfondo mentre 8 enormi pannelli neri si spostano alle spalle dei musicisti e vanno a formare un megaschermo che trasmette le immagini di musicisti e pubblico. La regia è spettacolare, sia per le immagini che per i giochi che riescono a fare con questi pannelli: a volte vengono separati a due a due mostrando solo i primi piani degli Stones, a volte se ne stacca uno solo che va a fare le pulci alle coriste, ai fiati o alla platea. Dopo un trittico composto da Don't Stop, Miss You e Out Of Control c’è un momento di pausa. Le luci spengono, la band si ritira dietro le quinte. Ricompaiono Keith Richards e Ronnie Wood con due chitarre acustiche. Dal nulla esce Jagger che intona Angie. E’ il tramonto: lo stadio si scioglie e abbraccia virtualmente i tre sul palco.

Si torna immediatamente al rock ed alla commozione con You Can’t Always Get What You Want: Jagger corre da una parte all’altra del palco, utilizzando le passerelle laterali per arrivare a pochi metri dagli spettatori. Ad un certo punto è lì, lo possiamo quasi toccare. Il volto è segnato ma lo sguardo e la carica sono quelli di sempre. Tumbling Dice, poi due pezzi di Richards e via di nuovo con Simpathy for The Devil. Ron Wood gigioneggia e si accende una sigarette dietro l’altra. Richards si concede di più, stringe mani e occhieggia con quella faccia da pirata che non avrebbe stonato nella ciurma di Francis Drake. Poi, di colpo, tutti giù (di corsa!). Passerella centrale. Dopodiché la band va a posizionarsi su un piccolo palco sotto le tribune. E sforna tre pezzi da capogiro: It’s Only Rock and Roll, una Mannish Boy da brividi e Like a Rolling Stones di Dylan, cantata da tutto lo stadio. Un trionfo. Cambio d’abiti, Jagger si disseta spesso, lo schermo gioca con le immagini, le linguacce simbolo del gruppo e le luci.

Via alla parte finale: Gimme Shelter, Honky Tonk Woman, Street Fighting-Man. La musica non ci circonda più ormai: è parte di noi. Richards sfodera una chitarra bianca e viola e le note di Satisfaction esplodono insieme a migliaia di grossi coriandoli rossi sparati da sotto al palco e da un piccola serie di fuochi artificiali. Salutano: "Thank you Milano!", dopo qualche buffo ma riuscito tentativo di dialogo in italiano di Mick Jagger. Il pubblico li richiama, facendo tremare lo stadio.

Escono. Jumping Jack Flash. Si chiude davvero. Come una compagnia teatrale tutti i componenti si inchinano, abbracciati, al pubblico. Sembrano davvero felici e paiono quasi timorosi a lasciare il palco. Un solitario faro illumina i volti di Jagger, Richards, Wood e Watts. Restano loro quattro in scena. La storia della musica rock sono quattro signori che si abbracciano ridendo.

Cesare

11/6/2003

 

 

 

 


Eh si, e un’altra volta è notte. Francesco Guccini

E, ancora una volta ci ha stupito. Non che non ce lo aspettassimo ma insomma, si pensava, prima o poi si stuferà un poco, prima o poi gli anni (le prossime candeline da spegnere saranno 63) si faranno ben sentire, prima o poi magari ci stancheremo anche noi. Invece no. Il primo brivido arriva subito quando sta ancora salendo le scalette che portano al palco: Francesco, Francesco è il boato di un FilaForum gremito come raramente mi era capitato di vedere. Guccini è un mago: conscio di essere amato da un pubblico che spazia da ragazzini sedicenni a attempati signori, gigioneggia, intrattiene, accenna con un po’ di tristezza e con qualche battuta ai tristi tempi che stiamo vivendo ed al vuoto (di opinioni) che ci circonda sempre più spesso. Non canta: parla per quasi un quarto d’ora. Adesso attacca, adesso la smette di ridersi addosso e inzia. Ed infatti ecco la sorpresa: non è Canzone per un’amica, come da sempre, il brano iniziale bensì una splendida Libera Nos Domine che ben si adatta ai nostri tempi

( Da tutti tutti gli imbecilli d'ogni razza e colore
dai sacri sanfedisti e da quel loro odore
dai pazzi giacobini e dal loro bruciore
da visionari e martiri dell'odio e del terrore
da chi ti paradisa dicendo: è per amore
dai manichei che ti urlano "o con noi o traditore"
libera, libera, libera, libera nos, Domine. )

anche se pubblicata nel disco "Amerigo" del 1978 (e da quel disco, scopriremo poi durante la serata, Francesco pescherà a mani basse per la scaletta di oggi). Ma poi non ce la fa, non resiste: chitarra a tracolla e via: lunga e diritta correva la strada. E’ un brano che mi emoziona sempre anche se ormai ascoltato decine di volte in concerto.  Poi arrivano Bisanzio, 100 Pennsylvania Avenue, un paio di brani nuovi (Una Canzone e Dite) che si perdono un po’: l’acustica non è delle migliori, la musica sembra un po’ un deja-vu ma, soprattutto, nessuno di noi (il rito si ripete) è qui stasera per sentire brani nuovi. Una perla inaspettata: Due anni dopo arriva come un carico di ricordi che mi riempiono la mente. Chiacchiere, discorsi e, come d’improvviso, Canzone di Notte numero due. Forse il miglior brano per intensità della serata: eseguita con la sola magica chitarra di Flaco Biondini ad accompagnare la voce di Guccini.  Eh si, caro Francesco, è davvero un'altra volta è notte e suoni. Poi spazio a Don Chisciotte, Amerigo, Quando è tardi. Come sempre "si disseta", come dice lui e quando introduce il brano successivo dicendo che l’ha scritto un bel po’ di anni fa e le parole "Questa domenica in Settembre…" ci vengono vigorosamente gettate addosso il Forum, letteralmente, esplode.

Il tempo passato lo costringe a cambiare qualche rigo: il vigore e la bellezza di Eskimo restano immutabili.E poi è una corsa a ritroso: Il Vecchio e il Bambino, Auschwitz, Cyrano, Dio è Morto e le altre. Immutabili ed immutabile. Il finale è noto, un copione già letto, visto e sentito che però piace e ci sta. Si chiude così, dopo oltre due ore di musica che i "soliti noti" Tavolazzi, Bandini, Marangolo e Biondini riescono ancora una volta a farci sentire come nuova. Si, il merito è anche loro oltre che di Francesco. E’ decisamente strano e bello vedere tre generazioni sedute fianco a fianco a cantare le stesse canzoni.  Il mio primo incontro dal vivo con Guccini è stato (se non erro) nel 1974. Venne in un piovoso sabato pomeriggio d’inverno al mio liceo, a Milano. Non cantò perché non stava bene. Delusione totale ma le parole che pronunciò un po’ goffamente scusandosi del suo stato di salute me lo resero subito simpatico.Anche questa sera è stato tutto bello, nuovo e vecchio insieme. Forse è proprio quello che si cercava: un attimo di sincera commozione nel riascoltare Due anni dopo dopo così tanto tempo…..beh, grazie, come sempre Francesco.

 


Dieci Notti del Pop Musica e Storia .

Giovedì 26 luglio 1965 Riviera Adriatica.

Giornata di intenso sole, che ottunde le menti. Poi, la sera ... Dancing "Igea Bar" di Igea Marina.Ore 22.48. Silvano Silvi e gli Erranti attaccano "Ruby Tuesday". Folla in delirio.  Alla rullata l'entusiasmo esplode in grida gutturali. Franco Kelly, presentatore della serata, offre a nome della Direzione spumeggianti bottiglie di Moscato di S. Marino ai 3 tavoli che più si sono esibiti nelle grida. Io c'ero. Sono cose che non si possono dimenticare. Alla fine della serata ci fermiamo in 4 o 5 a parlare con Silvano. Sappiamo tutti, bene , di avere assistito ad una grande notte del pop mondiale.

Bologna , settembre 1967. Palazzo dello Sport, Piazza Azzarita.

2 ore di fila , ma ce la facciamo. Siamo dentro. Oggi pomeriggio primo concerto dei Rollong Stones. Il palazzo è stracolmo, sarà ancora peggio la sera. Due interminabili ore di complessi locali e cantanti italiani, L'attesa è spasmodica. Sudore , fumo, decibel che ti colpiscono incessanti. Poi , finalmente , il buio, il silenzio.  Entrano loro : luci stroboscopiche, riff di chitarre e si parte . "Ruby Tuesday" E ti accorgi di stare pensando "mo questa qui mi piaceva di più con Silvano Silvi e gli Erranti" .... Le Notti del Pop sono Messaggi.


Febbraio 1972.
Bataclan di Bazzano.

Sono ormai le 11 di sera , quando sale sul palco una piccoletta con una gran chioma mora, a ricci. "Padre davvero" canta , che lagna. Perché racconta i fatti suoi a noi ? Ma chissenfrega , tanto è solo Mimì Bertè, una piccoletta che non farà strada. Le Notti del Pop sono illusioni.

Marina di Nicotera, settembre 1978

Un mese di mare è come un mese di isolamento. Ma la spiaggia di S. Ferdinando è un sogno. Lo sarà ancora per poco, stanno iniziando i lavori per il mostro di Gioia Tauro (che non vedrà mail la luce , rssterà solo un porto faraonico ed una costa violentata. Stanchi di niente (come direbbe Guccini) ci trasferiamo in massa a Nicotera Mare. Srata eccezionale. Mia Martini in concerto esclusivo per la Calabria. Sotto le stelle, vicino al mare, una brunetta attacca "Padre davvero". Bellissima , imperdibile. Le Notti del Pop sono chimere.

S. Ferdinando di Rosarno, un anno prima. Festa del S. Patrono, e qui fanno le cose in grande.

Dalla mattina girano per le strade "Li Giganti" preceduti da una banda sgangherata di 5 elementi e seguiti da un gruppone di ragazzini vocianti. La sera, tutti in piazza attorno al gazebo. Canta una sconosciuta biondina "DEL NORD". Dopo quattro canzoni accolte con tiepidi applausi la cantante, insoddisfatta dello striminzito abitino rosso, tira ancor più su la gonna. Qualche gridolino al microfono, due o tre ragazzotti si avvicinano al gazebo. La cantante si agita, canta ancor un pezzo, poi mormora qualcosa e si lancia in una forsennata fuga verso la porta della sacrestia della vicina chiesa. Non ci capisco nulla. Ma a questo punto la folla si sveglia e 50, 60 persone si lanciano all’inseguimento.  Due carabinieri, spiazzati, si affannano dietro. La mattina dopo saprò che sono riusciti a salvare la poveretta. Si sposerà , 3 anni dopo, con un piccolo boss locale. Pochi anni dopo sarà trovata morta, incaprettata. Le Notti (buie) del Pop.

Bologna , parco della Montagnola, Agosto 1967. Festa dell’Unità. Grande attrazione, l’Equipe 84.

Palco arditamente montato sopra la grande fontana, migliaia di ragazzi vocianti aspettano dal pomeriggio. L’Equipe 84. Cosa vuoi di più dalla tua esistenza ? Con solo 40 minuti di ritardo il concerto inizia. Attaccano "Io ho in mente te" un pezzo mitico (storpiato in inglese da Barry Mc Guire, ma lasciamo perdere). Alfio si agita alla batteria, Victor guarda tutti dall’alto, con quei suoi occhi trasognati.  Il Principe si avvicina al microfono. Due, tre frasi e stiamo tutti sognando con lui. D’improvviso, un colpo di tosse .  E’ lui, che si ferma si schiarisce la voce , dice "Scusate.." SCUSATE ! a noi, a 3.000 ragazzi in silenzio, accorsi lì per il nostro mito, un banale "scusate". La musica riprende, il cantante ripete l’ultima strofa e prosegue. Ma l’incanto si è rotto. Torno a casa , a piedi, all’Arcoveggio. Tre chilometri di tristezza e delusione. Le notti del Pop sono anche lacrime.

Bologna , Palazzo dello Sport, anni 70. Dalla e De Gregari in concerto.

Attaccano subito,in modo duro. "Ma come fanno i marinai" " 4 – 3 – 43" Sei anche tu un naufrago della vita , ti lasci trasportare. E quando le luci si spengono, solo un "occhio di bue" illumina i diue cantanti, 100 , 1000 accendini si accendono e ballano nel buio. E tu, che non hai mai fumato, ti senti l’ultimo degli idioti. Che fai , ora , sventoli la coca cola ? Le Notti del Pop sono Fumo.

Bologna , parco della Montagnola, Agosto 1968.Di nuovo Festa dell’Unità.

Palco di nuovo montato sopra la grande fontana, ancora migliaia di ragazzi vocianti aspettano dal pomeriggio Patty Pravo, annunciata per le 21. Due ore di ritardo e ancora non si vede. Alcuni fischiano, ma pochi se ne vanno. Poi un movimento , un ondeggiare della folla e compare Lei, che neppure si scusa. Tenuta nera, capelli biondissimi e vaporosi, attacca subito. "Ragazzo triste". I toni bassi ti entrano nella pelle. "La bambola", poi una che non conosci.  Vorresti "Concerto per Patty", ma ti accorgi che intorno nessuno la conosce, e tanto lei non la canterà. Sette canzoni in tutto, poi scompare come era venuta. Le notti del Pop sono Sogno e delusione.

Kiwi di Piumazzo, ottobre 1978 Francesco Guccini in concerto.

Dentro è stipato, a fatica guadagniamo quattro posti su un divanetto verso il fondo della sala. Io, Maria Grazia, Davide e Roberta. Francesco è puntuale. Canzone per un’amica, poi le altreei fluiscono inframezzate dai suoi monologhi. Flaco Biondini, Vince Tempera , Marangolo. Ci sono tutti, intorno a lui. Attacca Eskimo. Ricordo che con te, a S. Lucia, al Portico dei Servi, per Natale, credevo che Bologna fosse mia...ballammo assieme ll'Anno, a carnevale... Perché Francesco canti la tua, la mia, la nostra vita ? Ed io ti canterò questa canzone , uguale ad altre , che ricorderai… Ci guardiamo negli occhi, ci vediamo nudi, inermi Tu giri adesso con le tette al vento Io ci giravo già vent’anni fa. Hai ancora vent’anni, ma vent’anni sembran molti, poi ti volti, guardi indietro e non li trovi più. ( Questa è rubata a De Gregari, ma le cose non cambiano) Le notti del Pop sono Saggezza.

23 Luglio 1967 - la Locanda del Lupo, Rimini  Patrick Samson Set.

I quattro ai sax si agitano ritmicamente. Il bel libanese fa impazzire le ragazzine con la sola sua presenza. Sorride, poi attacca. Passa il cameriere per prendere le consumazioni. Un wisky , con molto ghiaccio e selz. Che pena , hai fatto capire subito che sei minorenne ! Le Notti del Pop sono Scuola di vita.


 

Francesco De Gregori a Siena

22 Agosto 2001

Proseguo l’amarcord musicale di questa estate con un concerto tanto casuale quanto bello. Girellavamo per la Toscana con base fuori Siena quando scopro che nell’ambito del Festival dell’Unità del capoluogo è in programma il concerto di De Gregori.

Serata fresca e piacevole, dopo le “fatiche” turistiche ed il caldo della giornata, nella bella Fortezza Medicea appena fuori dal centro storico. Troviamo dei posti numerati in ottima posizione. Non vedo De Gregori da parecchio tempo anche se ho sempre seguito la sua produzione musicale. L’emozione però mi assale vedendolo arrivare sornione, ciondolante, cappellino in testa e con la chitarra elettrica, lì davanti, su un palco basso a pochi metri da me.

L’attacco è con “Bambini Venite Parvulos” un pezzo dell’89 che Francesco trasforma mirabilmente in un tirata ballata-rock. Dopodichè è un alternarsi continuo di pezzi dell’ultimo album “Amore nel Pomeriggio” e altre canzoni pescate non a caso dal suo vasto repertorio. Quindi due ore di novità e di “storia” con Il Cuoco di Salò, Buonanotte Fiorellino, Un Guanto, Condannato a Morte, Povero Me, Cercando un altro Egitto, Buffalo Bill. Con l'ausilio della band coordinata da Guido Guglielminetti, e che vede Greg Cohen al basso, Paolo Giovenchi e Alessandro Arianti alle tastiere, Alessandro Svampa, batteria, Marco Rosini, chitarra e mandolino, Toto Torquati, organo Hammond,

il fresco cinquantenne De Gregori appare in gran forma e ben disposto nonostante le 42 tappe di questo lungo tour estivo partito in Luglio e che si concluderà a metà Settembre. Il pubblico presente è stranamente timido: applausi alla fine dei pezzi e all’inizio di quelli più conosciuti, molto composto e “perbene”. La cosa mi sorprende non poco perché l’ultima volta che avevo assistito ad un suo concerto (circa cinque anni fa al Forum a Milano) ero circondato da ragazzini urlanti che mi cantavano a squarciagola nelle orecchie tutte (ma proprio tutte!) le canzoni e tant’è che lo stesso cantautore romano verso la fine del concerto tra il divertito e lo spazientito aveva chiesto se ne avesse potuta cantare “una lui da solo”.

Da solo, al contrario, Francesco ha quasi recitato una coinvolgente “La valigia dell’attore” e, come primo bis “L’uomo che cammina sui pezzi di vetro”, unica citazione di quel capolavoro che fu l’album Rimmel.

Indubbiamente gli giova molto la sua voce, rimasta negli anni tra le poche in Italia a conservare il carisma che può dare alle parole il potere della sincerità e dell’impegno.

Il concerto si è chiuso con una “rivisitazione” di “Battere e Levare” che accosta sempre più De Gregori a Dylan. Il modo di interpretare i vecchi pezzi, l’apparente indifferenza sul palco che in realtà nasconde un coinvolgimento ed una professionalità totale, le poche parole, la voce sempre più nasale e tirata, l’armonica (anche se purtroppo questa volta usata con grande parsimonia), l’alternare pezzi elettrici di grande rock a dolci ballate acustiche sembrano testimoniare questa camaleontica simbiosi degregordylaniana.

Lui ha sempre rifiutato, sdegnandosene, questo paragone.

Io no. Anzi è uno dei motivi che ancora oggi me lo fanno più apprezzare e amare teneramente.

 

Cesare Bassani (Ce)

 


The Eagles a Lucca

14/7/2001

Prosegue, con il concerto degli Eagles, il tuffo nel passato e nel bellissimo ed irripetibile sound anni ’70 di questa estate che sembra pescare a mani basse e con grande successo dalle colonne sonore del rock di oltre venticinque anni fa.

Dopo Mark Knopfler il piatto forte del fine settimana musicale è nuovamente in Piazza San Martino a Lucca. Stessi disagi di sabato scorso (70.000 lire il costo del biglietto e posto in piedi), ma questa volta gli organizzatori montano due schermi giganti ai lati del palco, permettendo così a tutti di avere un’idea chiara ed una buona visione di quello che accade. Una regia sapiente ci mostra primi pianie totali della scena e ci fa vivere in modo coinvolgente la lunga serata. Resta il disagio, come detto, di quasi quattro ore in piedi ma la musica ha aiutato e fatto dimenticare giunture doloranti e stanchezza.

Per la  prima e storica apparizione degli Eagles in Italia si danno appuntamento a Lucca 10.000 appassionati. Inizio previsto per le 21.30 che in realtà slitta alle 22.00.

Un boato accoglie Henley & soci al loro ingresso. Intonano la bellissima “Seven Bridges Road” che sfocia in “The Long Run”, esattamente come nell’album “Live” di qualche secolo fa.

All’inizio il pubblico sembra un po’ timido, quasi intimorito dal mito materializzatosi sul palco. Ma bastano “New Kid in Town” e “Peacefull Easy Feeling” a convincere i presenti che sì, sono proprio loro e sono lì, a pochi metri di distanza.

Il tempo trascorso ci mostra qualche evidente differenza rispetto alle foto che tutti noi avevamo in mente ma le voci, l’abilità strumentale e la grande maestria del gruppo riescono, chiudendo per un attimo gli occhi, a farci vivere e rivivere momenti magici.

Joe Walsh ci delizia con assoli e virtuosismi alla chitarra, le note delle canzoni si fondono con i cori della piazza. “Take it to the limit”, “Best of my love” e “One of these nights” chiudono la prima parte del concerto (e sono già le 23.10).

Dieci minuti di intervallo e pronti via: “Witchy Woman” e “Lyin’ Eyes” ci riportano subito al sound californiano. E da qui è un crescendo: “Walk Away”, “Tequila Sunrise”, “Dirty Laudry” e “Life in the fast lane” sono il viatico per il trionfo che arriva, come voleva il copione, con una splendida “Hotel California” introdotta da un assolo di tromba.

Mi guardo intorno e capisco dalle facce delle persone intorno a me che è veramente un momento magico e unico. Un breve stacco con “Rocky Mountain Way” e quando la band accenna le note di “Take it Easy” è il trionfo.

E’ quasi l’una del mattino quando un sorprendentemente fresco Don Henley ci regala la splendida “Desperado”, accompagnato al pianoforte da Glenn Frey.

E nonostante stanchezza e ora tarda non c’è voglia di muoversi da lì.

In effetti, come riportato da alcuni quotidiani in sede di presentazione, riuscire a vedere gli Eagles in Italia, oggi, è stato un mezzo miracolo. Litigi, a volte puerili, del gruppo, incomprensioni, divisioni carriere (più o meno riuscite) da solisti e ripicche avevano fatto sì che l’idea di un World Tour nell’anno di grazia 2001 fosse veramente impossibile da realizzare. Ed invece Don Henley, Joe Walsh, Glenn Frey e Tim Schmidt, accompagnati da un’ottima band di professionisti, ci hanno fatto vedere che a volte i miracoli sono possibili. Le canzoni sembrano, forse incredibilmente, ancora molto attuali e fresche.

Le emozioni ed i sentimenti sono, al contrario, decisamente datati: ma non è forse proprio quello che cercavamo, tra chitarre e cori westcoastiani, facendo check-in all’Hotel California?

 

Cesare Bassani (Ce)


Bob Dylan a Brescia

10 Luglio 2001

 

Ed eccoci finalmente alla prima data italiana di Dylan, in questa estate ricchissima di offerte musicali di ogni genere.

Piazza del Duomo, Brescia. La sera prima davanti a 9.000 persone aveva suonato Neil Young con Dylan ben nascosto nel backstage a seguire il concerto dell’amico canadese.

Ieri sera la capienza è stata limitata a 7.500 posti, avendo l’organizzazione sistemato circa 2.500 posti a sedere nella parte più vicina al palco.

Buona acustica e ottima visuale per i fortunati che erano riusciti ad accaparrarsi il prezioso numerato. Per gli altri, come per Lucca con Mark Knopfler, vale la regola del chissenefrega se non vedono e se sentono male, basta che paghino.

Puntualissimo e annunciato dall’ormai noto “Ladies and Gentlemen please welcome Columbia recording artist Bob Dylan” alle 21.00 Bob sale sul palco accompagnato dalla ormai classica formazione di quattro elementi che lo segue da anni.

Attacco nella media con “Roving Gambler”, un classico della tradizione folk americana, ma si nota subito un certo distacco. Dylan passa a “The times they are a-changing” come secondo brano. La prima strofa è un disastro: o ha dimenticato le parole, bofonchiando qualche cosa dentro al microfono, o volutamente l’ha storpiata. Si vede che qualche cosa lo infastidisce. Passa poi a “Desolation Row”, leggermente meglio dei primi due brani ma con la medesima insofferenza. Poi a  “Maggie’s Farm , veramente tirata via. Conciliabolo con i musicisti ed organizzatore dietro agli amplificatori. Alla folla viene permesso di avvicinarsi sin sotto al palco e da quel momento tutti in piedi. Forse proprio quello che voleva Bob. Infatti da qui in poi il miracolo: Dylan attacca una “Just Like a Women” stupenda, sentita, dolce e accattivante. Parole chiare e musicalmente perfetta. E da questo punto in poi il concerto decolla. Dylan diventa (incredibile) improvvisamente allegro, sorride, sghignazza, accenna a passi di danza, fa il verso con le ginocchia piegate ai cantanti di rock and roll e ci regala una chicca via l’altra.

In un paio di brani prende l’armonica e si lancia in due assoli dei suoi, mandando in visibilio una platea etoregenea che andava da sedicenni con cellulare acceso ai loro genitori e, forse, qualche nonno.

Non so se la presenza di Francesco DeGregori (che ha inciso questo brano in maniera superba con il titolo “Non dirmi che non è così”) tra il pubblico abbia in qualche modo influito ma “If You See Her, Say Hallo” cantata con così tanta intensità è veramente un fatto rarissimo per i fan del menestrello di Duluth.

Alternando pezzi acustici ed elettrici Dylan ha suonato per quasi due ore e mezza con un crescendo di entusiasmo suo e di chi lo ascoltava.

Abbiamo così apprezzato “Masters of War”,  “One Too Many Mornings”, “Knocking on Heaven’s Door”, “Like a Rolling Stone”, una bellissima versione di “I Shall Be Released”.

Chiusura obbligata con “Blowin in The Wind” in versione corale: poco sentita ma, forse, dovuta al grande pubblico.

Nonostante la ben nota miopia, Dylan ad un certo punto ha individuato Fernanda Pivano, seduta in prima fila in compagnia di Dori Grezzi. Forse memore dei bei tempi, forse abbandonando per un attimo il suo essere scontroso e schivo, Dylan ha scambiato due battute con lei, accennando ad un invito nel backstage al termine del concerto.

Dunque un sessantenne in splendida forma che, pur crogiolandosi e crogiolato nel “mito”, riesce ancora ad entusiasmarsi immergendosi nella sua musica, nel caldo abbraccio di un pubblico di appassionati che lo seguirebbe ovunque qualsiasi cosa gli passasse per la testa di cantare, suonare o fare.

 

Ora Dylan va in Inghilterra ed Irlanda per qualche giorno ma a chi ancora interessasse c’è un lungo elenco di date italiane in programma, iniziando dal 19 Luglio a Udine e passando poi a La Spezia, Pescara, Perugia, Anzio, Napoli e terminando il 28 a Taormina.

 

Cesare Bassani (Ce)


Mark Knopfler a Lucca 7 Luglio 2001

 

Come ogni estate Lucca offre un ottimo Luglio musicale. L’anno scorso i concerti si tenevano nella splendida piazza Anfiteatro. Quest’anno gli organizzatori, vista l’affluenza ed i nomi di maggior richiamo in cartellone (Knopfler, Eagles, David Crosby, Neil Young, Lionel Ritche, Giorgia solo per citarne alcuni), hanno spostato i concerti in Piazza San Martino, nelle vicinanze del Duomo.

Il posto è bello anche se non ha il fascino di Piazza Anfiteatro, che resta unica.

Quindi segnalo subito la pessima acustica, un gigantesco palco-mixer piazzato centralmente troppo vicino al palco (i concerti vanno in diretta su RadioRai Due) e una spinta continua con i vicini per cercare di intravedere il palco. Il tutto, ovviamente, in piedi.

Mi sembrano sofferenze eccessive nel 2001 a 60.000 lire a biglietto. Certo l’alternativa è presentarsi due ore prima dell’inizio e raggiungere lo spazio sotto il palco ma io lo trovo onestamente assurdo.

 

Detto questo mi sono consolato con quasi due ore e mezza di ottima musica eseguita da Knopfler e dalla sua band quasi tutta “made in USA”.

Knopfler è, a 52 anni, in forma a dir poco smagliante. Buon umore, voglia di suonare che sprizza ad ogni nota e una maestria e professionalità che pare sfociare a volte nel manierismo.

Non è facile trovare un chitarrista simile e anche se i pezzi migliori sono sempre quelli con marchio Dire Straits, Knopfler ha saputo proporre nel corso della serata alcune piacevoli novità.

Un inizio a dir poco fantasmagorico (e penso non casuale) ha entusiasmato il pubblico. Dopo “Calling Elvis”, “Walk of Life” e “What it isKnopfler si è lanciato nella sempre struggente “Romeo and Juliette”, suonata con il Dobro, e ha raggiunto il massimo di questa sparata-revival iniziale con una tiratissima “Sultans of Swing” che fu il primo grande hit dei Dire Straits.

Parte centrale del concerto dedicata ad alcuni brani del suo ultimo LP “Sailing to Philadelphia”, con un intermezzo di una ballata scozzese e un simpatico siparietto quando il pubblico si è messo ad intonare il classico “alè-oh-ohKnopfler e band gli sono andati dietro a ritmo di chitarre e batteria.

Finale da fuochi d’artificio con la sequenza Money for Nothing, Brothers in Arms e So far Away che Mark ha eseguito richiamato dalle richieste di bis.

Ultima sorpresa di un Knopfler ormai stremato da due ore e mezza di musica: una bellissima e dolcissima “Local Hero” eseguita alla chitarra con il solo sottofondo del piano elettrico.

 

Nel complesso dunque un signor concerto di un grande musicista e serio professionista che continua a regalare emozioni. Deludente come detto la sistemazione del pubblico: evidentemente 60.000 lire non bastano per non essere trattati come un branco di pecore da tosare per bene.

 

Cesare Bassani  (Ce)