Viaggi e miraggi

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APPUNTI DI VIAGGIO

di Piero Cavallotti

ABC Islands

Sui depliant turistici si chiamano per comodità ABC Islands, dove la A sta per Aruba, la B per Bonaire e la C per Curaçao. Si trovano una trentina di chilometri a nord della costa venezuelana, un po’ decentrate rispetto alle altre isole dei Caraibi. Paradiso fiscale ma non troppo, con industrie (soprattutto raffinerie di petrolio venezuelano) impensabili nel resto dei Caraibi, sono anche posti assolutamente piacevoli, con dettagli e scorci da cartolina. Politicamente fanno parte del Regno d’Olanda: Curaçao e Bonaire costituiscono, insieme a Sint Maarten, Saba, e Statia, le Antille Olandesi, mentre Aruba è un’entità autonoma (e di questo parleremo presto). Sì, politicamente fanno parte del Regno d’Olanda, ma di fatto fanno parte del mondo. Credo infatti che non ci sia una razza umana che non sia rappresentata in queste isole: i libri parlano di almeno quaranta razze diverse, ma forse sono anche di più. Mancano solo i legittimi proprietari, coloro che abitavano le isole all’arrivo degli spagnoli, gli Arawak, ma furono tutti massacrati, e i pochi che si salvarono, furono deportati nell’isola di Hispaniola. Gli altri ci sono tutti. Africani di almeno venti etnie diverse, ebrei, europei di ogni latitudine e longitudine, arabi, libanesi, cinesi, giapponesi, indonesiani, filippini, indiani, pakistani; e poi sudamericani di origine india, sudamericani di origine europea, forse mancano solo gli aborigeni dell’Oceania. Queste isole hanno anche una tradizione di tolleranza e di ospitalità che ha pochi uguali nel continente americano, e che viene in qualche modo incrinata oggi con gli assurdi controlli doganali, le carte di sbarco, la necessità di mostrare il biglietto di ritorno, chiaro e grottesco scimmiottamento di quanto avviene al momento di entrare negli U.S.A. Questa tradizione di ospitalità e di tolleranza ha fatto sì che a Willemstad, capitale di Curaçao, sia stata costruita la prima sinagoga del continente americano, e che nel corso della storia le popolazioni reiette, ebrei in primo luogo, abbiano trovato qui un porto sicuro. Un benessere economico senza paragone con i paesi vicini, soprattutto ad Aruba, ha fatto sì che le differenze di razza e di religione sfociassero in una convivenza che quasi mai è stata incrinata, se non nei momenti di maggiore crisi economica. Intendiamoci, non siamo nell’Eden, e non siamo di fronte ad un’integrazione ‘totale’. I bianchi di origine europea e yankee reggono i cordoni della borsa, gli asiatici monopolizzano il commercio, gli ebrei le banche, i neri e gli immigrati latino americani lavorano invece come operai e addetti al settore turistico. Ci sono pochissime coppie miste, e anche i gruppi di amici misti sono rari. Capita qualche volta (ma con cadenza inferiore a qualsiasi media europea) di sentirsi chiedere l’elemosina, e capita passeggiando la sera, di imbattersi in qualche persona (che di persona non ha più nulla) che in preda alla droga o all’alcool o a tutte e due, si butta a dormire sopra un marciapiede, incurante dei passanti, della pioggia, e di tutto il resto. Capita che chi ti affitta una macchina si raccomandi di chiudere sempre a chiave l’auto e di non lasciare oggetti visibili all’interno, e capita di passare per quartieri di Willemstad o Oranjestad (capitali di Curaçao ed Aruba) e avere voglia di uscirne in fretta. Ma capita anche di confrontare questa situazione con le realtà europee, o addirittura (con un’operazione certamente più corretta), con la realtà centro e sud (ma anche nord) americana e ti rendi conto di stare in un posto incredibile.

Sono le ABC Islands, dove il turista in bermuda e ciabattoni, siede a fianco dell’impiegato in giacca e cravatta che ha staccato per la pausa pranzo, e dove le comitive che sbarcano dalle navi da crociera s’incrociano con le scolaresche composte da scolari di ogni colore, uniti solo dalle loro impeccabili divise.

L’odore

Mi è capitato ogni volta che vengo ai tropici. Non importa in quale stagione ed in quale emisfero: l’ ‘odore’ è uguale. Era così nello Yucatan, in Salvador e in Guatemala, ma è stato lo stesso anche a Mauritius, ed è lo stesso qui. C’è un odore particolare, che senti appena esci dall’aria condizionata dell’aeroporto, e che senti prima del caldo umido che attacca i vestiti alla pelle. E’ l’odore del tropico, un odore che si attacca a quello che indossi, e poi alla tua pelle e poi al tuo sudore. Non è un profumo, non è una puzza, ma è un odore.

E’ capitato anche stavolta: mi sono reso conto di essere arrivato ai tropici prima che con gli occhi o con le orecchie, con il naso. E’ il naso che mi avverte, prima di ogni altro senso, dell’effettivo sradicamento che ho operato. Sento quell’odore e mi rendo conto di essere davvero ‘da un’altra parte’, con il timore e la timidezza che si vivono in questi contesti, ma anche con la voglia pazzesca di tuffarsi in una nuova realtà e di andare a ficcare il naso in casa d’altri. Già, il naso…

Papiamento

E’ la settima lingua neolatina parlata al mondo, avendo superato il ladino delle nostre valli alpine, come numero di persone che lo parlano. Ed è la più recente di tutte le lingue. E’ il papiamento (o papiamentu, secondo altre versioni). Un misto di spagnolo, portoghese, inglese, francese, olandese, più parecchi dialetti africani. Sentendolo parlare sembra portoghese, con la stessa cadenza cantilenante; leggendolo assomiglia di più allo spagnolo. Ma è il papiamento. Mi sta simpatica questa lingua, la più sovversiva ed antimperialista delle lingue. Nata tra gli schiavi africani che la usavano per non farsi capire dai padroni, è sempre stata ‘subita’ dal potere di turno che non è mai riuscito a sradicarla. Ogni poveraccio che arrivava da queste parti nel corso degli anni portava il suo tassello alla lingua, gli africani prima, poi tutti gli altri immigrati, per volontà o per forza: gli indiani (quelli dell’India, visto che gli altri furono massacrati e deportati in brevissimo tempo), i cinesi, gli indonesiani, gli arabi, gli ebrei, i portoghesi, i sudamericani. Un gruppo linguistico arrivava qui, e dopo qualche tempo il papiamento si arricchiva di nuovi vocaboli, nuove forme verbali, nuove caratteristiche sintattiche. Quando all’inizio del ventesimo secolo, con l’avvio dei grandi impianti di raffinazione del petrolio, arrivò un gran numero di immigrati portoghesi, soprattutto dall’isola di Madeira, la lingua si arricchì subito di vocaboli e di un modo di parlare tipico dei portoghesi. Tutto questo sempre e comunque alla faccia del potere. Una lingua che è stata codificata da non più di trent’anni, che ha visto le sue prime forme scritte nella prima metà del ventesimo secolo, che ha rischiato l’estinzione (e nel Suriname, ex colonia olandese del sud america si è di fatto estinto), che invece ha resistito e ha vinto. Adesso il papiamento è la lingua ufficiale delle Antille olandesi e di Aruba, lo parlano quasi tutti (sembra che siano proprio gli olandesi i più refrattari all’apprendimento, forse per non lasciare anche quest’ultimo pezzetto di vestigia coloniale), ci sono giornali, televisioni in papiamento, e da qualche anno viene insegnato anche nelle scuole e nelle università delle Antille Olandesi (in quelle di Aruba ancora no). Per una volta il potere ha perso e adesso anche lui parla in papiamento (le interviste televisive a primi ministri e uomini politici delle isole, si svolgono rigorosamente in questa lingua). Sì, è una lingua simpatica. E come potrebbe non essere simpatica una lingua in cui ‘denaro’ e ‘cazzo’ si dicono nello stesso modo? Volete sapere come? ‘Placa’. Bello, no?

Curaçao

Quando siamo entrati in un centro commerciale lontano dalle spiagge e vicino a banche e alla raffineria, per un attimo ho pensato di avere sbagliato posto. Più che in un luogo di vacanza mi sembrava d’essere al lavoro, con un abbigliamento non molto consono. I miei bermuda, la mia maglia del Bologna, i miei sandali erano un po’ in contrasto con le giacche e le cravatte degli impiegati che stavano facendo la pausa pranzo, e i depliant che Lucia ed io sfogliavamo, per cercare una nuova spiaggia o un nuovo ristorante, nulla avevano a che fare con i quotidiani economici che altri stavano leggendo. Insomma, per un attimo ho creduto di avere sbagliato aereo e di trovarmi a Milano. Curaçao, grande poco più dell’isola d’Elba, è uno strano posto. Bellissime spiagge, casinò, locali di tutti i tipi, ma anche posti dove il turista crede di essere arrivato per sbaglio. La capitale, Willemstad, ha più di centomila abitanti, e riassume tutte queste contraddizioni. Le prime contraddizioni le vedi appena arrivi: le case che si specchiano sul porto canale ti fanno pensare ad Amsterdam, e solo il caldo e l’umidità ti ricordano che sei da un’altra parte. Altra cosa strana: normalmente le città portuali sono disposte tutte nello stesso modo. C’è il porto, e poi, dietro il porto, la città. Qui no, è il contrario. C’è la città, sul mare, e, dietro, c’è il porto, fra l’altro uno dei porti più sicuri e più attrezzati dell’area. Non ho mai visto città che hanno il porto dietro. La stranezza si spiega col fatto che alle spalle di Willemstad c’è una baia, profonda e riparata, alla quale le navi possono accedere attraverso un canale, tanto stretto quanto profondo. La città è tagliata in due da questo canale, e si può andare da una parte all’altra (per la cronaca, i due quartieri hanno i nomi di Punda, Punta, e Otrobanda, che in papiamento significa ‘Dall’altra parte’) o attraverso un ponte di barche che si apre al passaggio delle navi, o con una specie di piccolo traghetto, o attraverso uno spettacolare ponte, alto più di sessanta metri sul livello del mare, che soprattutto le prime volte in cui si attraversa, fa drizzare un po’ i peli. E così capita molto spesso che, mentre sei a berti una birra o un cocktail sul canale, vedi passare un’enorme petroliera e pochi metri da te, o una grande nave da crociera. E c’è un albergo a Willemstad, il Plaza, che, unico al mondo, ha fatto un’assicurazione contro le collisioni navali.

Strano posto, quindi, Curaçao. Un posto che non ti accoglie, ma che ti ‘ospita’. Con eleganza, con cortesia, ma anche con distacco. Per la serie "Voi turisti siete i benvenuti, ma noi, qui, dobbiamo lavorare. Per cui, per favore, divertitevi ma non disturbate".

Bonaire

Questa piccola isola, arida e quasi priva di vegetazione, sembra che voglia negare fuori, quello che regala sott’acqua. Alcuni tra i fondali più belli del mondo, accessibili non solo ai sub esperti, ma anche ai poveretti come me, che con maschera e pinne si concedono un onesto e tranquillo snorkelling. Pesci di tutti i tipi e colori, compresi alcuni eleganti ma inquietanti barracuda, tartarughe, coralli, insomma, sotto, c’è di tutto e di più. Il problema è sopra. Forse a causa anche di un bed and breakfast spartano (già dal nome, Friars Inn) che ti fa davvero sentire come in un convento, il nostro impatto con l’isola è stato alquanto traumatico, come se Bonaire avesse fatto di tutto per non farsi amare (anche se poi, in fondo, non c’è riuscita). Il primo impatto con il fuori è infatti quasi sconvolgente. Con lo scooterino ci facciamo tutto il sud dell’isola, coperto al 90% da paludi e saline, dove con il sole a picco, un vento caldo e fortissimo, le uniche forme di vita sono rappresentate dai fenicotteri (i Flamincos, simbolo dell’isola, dove tutto, compresa l’aerostazione, è in rosa). C’è la presenza inquietante delle casette bianche dove stavano gli schiavi per riposarsi quando erano costretti a raccogliere il sale per intere giornate: in pratica delle cucce per cani in muratura, coperte con calce bianca, con una piccolissima entrata, all’interno delle quali si poteva stare solo seduti. Una cosa che alla sola vista ti fa diventare claustrofobico.

Poi c’è il nord dell’isola, occupato quasi completamente da un parco nazionale, che visitiamo dopo aver noleggiato un pick up. Ci sentiamo un po’ Indiana Jones, visto lo stato dei sentieri, e visto il numeroso gruppo di iguana che ci viene incontro alla seconda o terza sosta. Tra le tante cose che abbiamo letto sull’isola e sul parco abbiamo dimenticato la più importante: gli iguana sono pacifici o no? Queste specie di mostri che ci vengono incontro quasi di corsa, tutt’altro che intimiditi, vogliono fare amicizia o difendere il territorio? E se vogliono difendere il territorio, come lo difendono? Nel dubbio schiviamo e torniamo in macchina. Nel parco potrebbero girare dei film western: i cactus sono le presenze più numerose, insieme ai divi-divi, gli alberi tipici delle isole. Alberi sfigatissimi, con foglie piccole e spine grandi, che a causa del vento che soffia incessante tutto l’anno, in una sola direzione, crescono tutti storti e penzolanti da una parte.

L’unica attrazione di Kralendijk, la capitale di Bonaire , è un bar sul molo, dove, tra l’altro, incontriamo l’unico italiano incontrato in tutta la vacanza. E’ sardo, si chiama Alberto, e, nella classica vicenda dell’italiano all’estero, è arrivato qui in vacanza dieci anni fa e non è più tornato a casa. Mi viene da chiedergli perché ha voluto punirsi in questo modo, ma forse non è il caso.

Insomma, una volta che esci dall’acqua, per apprezzare Bonaire devi avere uno spirito un po’ da Legione Straniera, o da ecologista duro e puro, da talebano della vacanza, da integralista del viaggio. Quando infatti confidiamo al proprietario del nostro bed and breakfast qual è la nostra prossima tappa, Aruba, ci guarda un po’ schifato. E non ci fa lo sconto.

Aruba

Normalmente odio con tutto me stesso il nazionalismo in generale e tutti i nazionalismi in particolare. Io che odio le frontiere, la divisioni, gli steccati, non posso che essere, visceralmente, antinazionalista. Avevo quindi letto con un po’ di apprensione e di rigetto quelle che erano state le vicende politiche dell’isola di Aruba una ventina d’anni fa. In pratica le vicende erano andate così: fino al 1986 Aruba, insieme con Curaçao, Bonaire, Sint Maarten, Saba e Statia faceva parte delle Antille Olandesi, che a loro volta, insieme all’Olanda costituivano il Regno d’Olanda, una specie di piccolissimo Commonwelth in salsa olandese, insomma. Si dà il caso, però che gli arubani cominciassero a rompere le scatole per staccarsi dalla Antille Olandesi. Sempre nel Regno d’Olanda, ma da soli, senza quei rompicoglioni di Willemstad. Un bossismo caraibico? Una lega tropicale? Fatto sta che nel 1986 Aruba ottenne di staccarsi dalle Antille Olandesi e di entrare a far parte autonomamente del Regno d’Olanda. Fra l’altro cominciando a battere una moneta propria, il fiorino d’Aruba, in contrasto con il fiorino delle Antille Olandesi.

Sono arrivato ad Aruba, quindi, convinto di entrare in una Padania tropicale, e invece ho trovato un’atmosfera ed un’aria che mi hanno fatto concludere che il nazionalismo, qualche volta, non è deleterio. Vabbe’, i soliti stupidi controlli alla frontiera ("Da dove venite?" "Fino a quando restate?" "Posso vedere il biglietto di ritorno?" "Niente da dichiarare?" "In quale hotel alloggiate?"), e poi abbiamo trovato più che nazionalismo, una consapevolezza di quello che si è e che si vuole, come popolo, e l’orgoglio di appartenere a quel popolo.

Sia chiaro che Aruba, in confronto con Curaçao e soprattutto con Bonaire è un turistificio. ‘Zona Hotelera’ a nord, con alcuni mega alberghi delle grandi catene internazionali, casinò (ma molto meno che a Curaçao), ristoranti, locali di ogni tipo, molti più turisti che nelle altre isole (per la cronaca, agosto nelle ABC Islands è bassa stagione, e questo si nota molto a Curaçao, moltissimo a Bonaire, quasi niente ad Aruba). Però, però… Parlo per sensazioni, con la pelle più che con il cervello, però contrariamente ad altri turistifici Aruba mi è piaciuta. E sapete perché? Perché ci sono gli abitanti. No, non sto vaneggiando. Fateci caso. Andate in qualche turistificio in giro per il mondo, che so, Cancun, Isole Canarie, Mar Rosso. Girate per le strade, per le spiagge, e provate a ricordare gli abitanti. Difficilmente ve ne verrà in mente qualcuno. Vi verranno in mente gli altri turisti, le guide, ma gli abitanti, i locali no. Ad Aruba invece gli abitanti ci sono. E sono talmente orgogliosi e fieri della loro terra, che non potrete dimenticare le loro facce e i loro discorsi. Chiunque, in qualunque momento, ti riferirà che ad Aruba non c’è disoccupazione, che il reddito medio annuale è tra i più alti di tutta l’America, che c’è una forte immigrazione dall’America Latina, calmierata e controllata, ma in grande espansione, e senza contrasti o problemi. Ti spiegherà che Aruba decise di staccarsi dalle altre Antille perché i problemi e le risorse di Aruba erano diversi da quelli delle altre isole, e che gli arubani volevano affrontare i problemi e sfruttare le risorse a modo loro. C’è anche un po’ di spirito di superiorità in tutto questo, magari anche un po’ di presunzione, ma forse glielo si può perdonare. E così, quando ho detto ad Ivo, simpaticissima e bravissima guida di una gita, che prima di arrivare lì eravamo stati a Curaçao e a Bonaire, mi ha guardato con compatimento.

Aruba, one happy island, è lo slogan che appare in tutte le targhe dell’isola. Sembrava la solita menata all’americana, quando siamo arrivati, ma col tempo ho capito che come tutti gli slogan è sì esagerato e pomposo, ma anche che è uno slogan che sta meglio qui che in tanti altri posti. Ho cominciato a capirlo quando, in gita al faro il secondo giorno, un signore che distribuiva volantini di un ristorante italiano, saputo che eravamo arrivati il giorno prima, ci ha dato il benvenuto nella sua isola e ci ha augurato un felice soggiorno. Senza affettazione, senza secondi fini, solo per piacere di accogliere due tra i tanti turisti dell’isola.

Charlie’s Bar

San Nicolas è la città con più abitanti, ad Aruba, ed è un’eccezione clamorosa alla vocazione turistica dell’isola. Sorta dietro un’immensa raffineria, è nata, si è sviluppata, si è contratta con la raffineria. Quando la raffineria lavorava a pieno ritmo era una cittadina piena di abitanti, di smog e alquanto ricca. Quando la raffineria è arrivata ad un passo dalla chiusura, si è impoverita e quasi spopolata; adesso che la raffineria ha ripreso, non ai ritmi di quarant’anni fa, ma ha ripreso, anche la città ha ripreso vita. Ma passare da Oranjestad a San Nicolas è come passare da un mondo ad un altro, completamente diverso, come se fra le due città non ci fossero dieci chilometri di distanza, ma mille. Arriviamo a San Nicolas per visitare una delle maggiori istituzioni dell’isola, il Charlie’s Bar, attivo dal 1941, specializzato in gamberi. Il posto è incredibile. Nato per dare da bere agli operai della raffineria, è completamente privo delle fighetterie di quasi tutti gli altri locali dell’isola. Però, tutto il resto c’è, non manca niente. Il soffitto e le pareti sono piene di qualsiasi oggetto, dalle magliette di varie squadre di calcio, basket, baseball, ai cappelli, alle targhe automobilistiche, fotografie, manifesti, no, credo proprio che non manchi nulla. Entriamo, Lucia ed io, e c’è solo una coppia seduta ad un tavolo. Il proprietario del locale, figlio del Charlie fondatore, è un olandese sulla sessantina che starebbe bene in un romanzo di Conrad o Hemingway; è seduto al bancone del bar, in bermudoni, sandali e maglietta, forse un po’ bevuto, e sta raccontando la storia dell’isola e del suo locale all’altra coppia. In attesa dei gamberi mi guardo intorno a bocca aperta. Le foto, gli oggetti, i manifesti… Ce n’è uno che rappresenta un bulldog arrabbiato nero che sta giocando a pallone. E’ il simbolo della squadra di calcio. Sì, perché il Charlie’s Bar sponsorizza una squadra di calcio, i Booziers, che vuol dire, più o meno, gli Ubriaconi. Non so in quale serie giocano, come va la squadra, i colori sociali, non so niente dei Booziers, ma da stasera hanno un nuovo tifoso. Io.

Arrivano i gamberi: grandi come bambini, sodi, profumatissimi. Li accompagno con la salsa tipica del Charlie’s Bar, la Honeymoon Sauce, una roba che definire piccante è un eufemismo. Solo gamberi come questi riescono a distrarmi dalla visione di tutti gli oggetti appesi, mentre con le orecchie cerco di carpire le informazioni che il proprietario, con la lingua sempre più impastata dalla birra, dà ai suoi ospiti.

Poi noto che il cameriere indossa una maglietta: davanti il simbolo del Charlie’s Bar, e dietro una frase di Oscar Wilde: "Il lavoro è la disgrazia peggiore per la Drinkig Class". La voglio, deve essere mia.

E così usciamo, affrontando i fumi e gli odori della raffineria, ma non ci facciamo caso più di tanto. Le due o tre birre piacevolmente trangugiate, quei meravigliosi gamberi, la lingua meravigliosamente bruciacchiata dalla salsa piccante, e la maglietta che indosso orgoglioso, ci fanno dimenticare anche la raffineria. Unico rimpianto: il barattolo di Honeymoon Sauce che non abbiamo potuto comprare. Difficilmente avrebbe potuto affrontare un viaggio transoceanico…