Emozioni

Su ] [ Emozioni ] Colpo di genio ] Concerti dal vivo ] Musica classica ] Dvd ] Compact ] Rugby ] Viaggi e miraggi ]

Dice: "Non faresti un pezzetto su Dylan ? Potrebbe essere interessante e tutto il resto" dice "sai, uno che fa canzoni, che scrive su un altro che fa canzoni, uno che poi ha avuto tanto peso eccetera eccetera..." E io dico: "Perchè no?" e l'idea mi sembra buona, e anche in un certo senso divertente.
Si era più o meno in settembre, e a me piacciono i progetti a lunga scadenza, voglio dire che certe cose come idee lì per lì mi piacciono, ma spesso restano tali, nel senso che l'idea è buona ma poi mettiti lì alla macchina da scrivere a tirar fuori le cose da dire.
E poi non sono un critico; i dischi me li ascolto così, li metto su poi mi piacciono o no, parlo soprattutto dei testi, li ascolto e certi testi mi lasciano steso, e mi piacerebbe averle scritte io, quelle parole. Così ti rimangono dentro, te le rimescoli senza accorgerti di niente poi, anche dopo un anno magari, tiri fuori la tua, di canzone, non copiata, intendiamoci, ma c'è sempre qualcosa da imparare, e in questo senso Dylan per me è stato importante.
Ma una critica, o qualcosa di simile?! Sai, in giro c'è quella gente (bravi, voglio dire) che sanno anche di che colore era la camicia che portava nel concerto quello là di quell'anno, che corde montava sulla chitarra, perchè ha smesso di
usare quelle, e giù giù fino a tutta la formazione del complesso in ordine alfabetico: Abbati, Abbondi, Accursi, Barigazzi, Bufalini...
Poi allora dischi da ascoltare non ne avevo; era già molto se riuscivo a mettere assieme le duecento per le Nazionali senza filtro, mica storie; il giradischi sì, un mono bestiale con una puntina da 350 kg. e non è che gli amici me li prestassero volentieri.
Così dico: "II pezzo lo faccio, ma in un altro senso, cioè diciamo cos'è
stato Dylan, e lasciatemi sbrodolare addosso un po' di ricordi, che in quel senso a volte mi viene anche bene, e diciamo cos'è stato Dylan, ma soprattutto chi era che lo impersonava e cosa accadeva in quegli anni, a cominciare circa dal
1964".
E Bob Dylan, per me, era quel tale Joe Novitsky, che si faceva chiamare "Gringo" perche aveva fatto il corrispondente del N. Y .Times in Sud-America, dove credo sia ora a fare la stessa cosa; e pare che là lo chiamassero così.
"Gringo" girava con un paio di stivali da cow-boy estate e inverno; ma d'inverno ci metteva sopra anche giubboni di pelle e strani copricapi
(ora non so se DAVVERO portasse strani copricapi, ma ne era il tipo, voglio dire ); girava spesso con una custodia nera e dentro c'era una Gibson, la prima che abbia mai visto, e la cosa, dico, la chitarra, era già un bel colpo, se la si
paragonava alla mia, allora neanche Masetti, una Carmelo Catania tutta tenuta assieme dallo scotch nero perche avevo avuto la pessima idea di caderci sopra rientrando una sera.
Joe studiava allora alla Johns-Hopkins, e ci si incontrava al giovedì sera in un posto che si chiamava la "Grondaia"; lui suonava roba americana, io le mie canzoni d'allora, come Il 3 dicembre del '39, L' antisociale eccetera. E lo
avrei ascoltato delle ore, per quel suo arpeggio maledetto che guardavo guardavo e non riuscivo a imparare. Gli avevo detto: "Insegnamelo" e
lui me lo aveva anche insegnato, ma così, in fretta, è ovvio non ero riuscito a imparare niente.
"Ma che arpeggio è?" "Boh" diceva "è il travi's pick, o chiamalo come vuoi". "E questa canzone di chi è?". "Di Woody Guthrie". "E chi è Guthrie?". "Un vecchio folksinger, un hobo; è bravo, ora ai giovani piace Dylan, ma Dylan canta come lui, ha preso tutto da lui...", "Dylan, e chi è Dylan?", ma poi non mi interessava molto, chi era Dylan, mi interessava più quell'arpeggio, pollice, pollice, medio, pollice, medio, indice, pollice...
Poi Bob Dylan è, per me, quell'autostoppista americano di cui non ricordo il nome, solo che veniva da Palo Alto, California. Solo il nome, per me allora, una specie di mito, in cui entravano Steinbeck, la California e tutto il resto; i figli dei fiori, allora, di là da venire, almeno da noi.
Fu nello stesso anno, l'anno di Joe, più o meno il 1964 credo, ma la memoria dei vecchi spesso s'incasina. Palo Alto era sulla tangenziale, che faceva l'autostop, e Ludi mi era venuto a prendere quella domenica mattina verso le 11 perchè aveva scoperto quell'osteria deliziosa, dice, dove c'era, (appena fuori Bologna, due passi, ho la macchina qui giù), "un salame e un'albana che non te li devi proprio perdere".
Ma dico, hai presente l'ora, ma lui che era fatto così dice dài dài e andiamo e sulla tangenziale carichiamo questo tizio e ce lo portiamo dietro, (lui che voleva andare a Firenze), a mangiare salame e a bere albana. E Ludi poi se lo porta anche a casa sua a mangiare, e ci incontriamo nel pomeriggio, in giardino da Ludi, che aveva quel registratore con tutte le canzoni che ci piacevano allora, e c'era Brel, c'era Brassens, c'era Amodei, e qualcuna delle mie d'allora, tipo Le belle domeniche.
Palo Alto per ascoltare ascoltava, anche le nostre traduzioni, ma credo che non capisse bene queste cose, o che non gli importassero molto, perchè poi gli americani sono così, se le cose non le hanno fatte loro, o non è arte del rinascimento, non è che gli interessino particolarmente. Folklore pataccaro,
monumenti, e via andare, i ragazzi. E fa:
"Conoscete Dylan ?" "Certo" dico "Dylan Thomas". E lui fa "No, no, Bob Dylan! Oh me, he's great!".
Bob Dylan è, per me, quel ragazzino americano, amico di mio fratello ma un poco più vecchio di lui, a Bologna con quella sua strana madre e un numero incredibile di fratelli più piccoli (come solo riescono ad averne gli americani) e questa sua strana madre a Bologna per un anno a scrivere un libro di cucina, o di viaggi, o qualcosa del genere. Venne un giorno a casa mia con dei dischi finalmente DISCHI, di Dylan e Guthrie. E soprattutto c'era quel meraviglioso Freewheelin", con Don 't think twice, e Blowin' in the wind e Hard rain's, e i Talkin'blues di Dylan e di Guthrie, e io là ad ascoltarli per pomeriggi e a cercare di capire le parole, con gli amici di allora, poi a cercare di ripeterle, e a tradurle, e a buttare quei giri nuovi d'accordi sulla chitarra e in poco meno di tre mesi vennero fuori Auschwitz e Noi non ci saremo e È dall'amore che nasce l'uomo. L 'idea di Noi non ci saremo poi stranamente uscita da una mia strana interpretazione di Mr. Tambourine man.
Bob Dylan è per me il primo folk-studio bolognese , le nostre idee di allora, le nostre discussioni di politica e di musica, e il viaggio ad Amsterdam, coi primi soldi delle prime canzoni uscite. Ad Amsterdam era tempo di provos e
io e Claudio con le nostre chitarre a cercarli, lungo i canali e negli scantinati; i provinciali che non capivano bene la situazione, un po' sospettosi, un po' curiosi, noi ancora coi capelli corti, arrivati là quando il movimento stava già
morendo.
E quella marcia per il Vietnam, in centro ad Amsterdam, e io che cantavo Masters or war e stranamente l'uomo della TV olandese venne a intervistare proprio me, forse si vedeva che ero straniero, e disse, perchè questo, perchè
queste canzoni, e io a spiegare perchè e cos'erano quelle canzoni, e cosa rappresentavano.
Ci si credeva, voglio dire: "I tempi cambiano, i tempi stanno cambiando" e in un certo senso era anche vero.
Anche il nonno di quella ragazza, Nike, se ne stette tutta una mattina ad ascoltare quelle canzoni, le mie e quelle di Dylan, con attenta pazienza, perchè la nipote gli aveva detto "Ascoltale, sono nuove, sono importanti" e lui, il
vecchio famoso architetto, in quella buffa casa piena di strani oggetti e disegni e sculture e foto, si emozionò, si esaltò, forse un po' gigionesco, dicendo cose tipo io credo ai giovani, mi piacciono, sorgono sempre, stanno ribellandosi,
stanno arrivando, portando nuove forze, come i popoli del terzo mondo. Non tutto vero, forse retorico, ma allora era bello, come, nella confusione di allora, cantare Dylan, di sera, dentro le facoltà occupate, quelle prime volte.
Bob Dylan è, per me, il '68-'69, l'arrivo a Bologna di Debby
(nota: Deborah Kooperman, musicista americana amica di Guccini. Ha suonato in molti suoi pezzi)  e di quel gruppo d'americani miei allievi coi quali si era sempre assieme.
Forse gli ultimi anni interessanti di questi ultimi anni. E vuol dire Gandolfi, l'osteria fuori porta d'Azeglio, prima che diventasse un posto importante, di moda; solo noi e i vecchi, prima, poi tutta la gente che ci seguiva il giovedì sera, e poi anche le altre sere.
C'era anche Alex, greco, e tutti i suoi amici, Janis che ballava, e il vecchio Bergamini con la fisarmonica, a cantare mezzo francese e mezzo italiano, lui che aveva portato dalle "mine" quello strumento e la silicosi. E infatti due anni
dopo, quando il Moretto che aveva preso il locale me lo fece rivedere, ed erano due anni che non ci entravo, di proposito, e anche allora non sapevo che sarebbe diventato un posto importante, vidi su un mobile, fra la polvere e la confusione lasciata dagli imbianchini la fisarmonica di Bergamini.
E il Moretto mi fa "Sai, l'ha lasciata qui, poi è morto, e nessuno l'è venuta a
riprendere" e fu un colpo davvero, e scrissi quella canzone Le osterie di fuori porta anche per lui, per Bergamini, e non solo per quello che noi eravamo allora.
Che a raccontarlo così fa un po' cineromanzo, ma a farle, le cose, è differente.
E c'era Lynn, la strana Lynn che cantava assieme a me Mr. Tambourine man, ubriaca di vino da 250 lire la bottiglia, allora, e crollava sotto ai tavoli ridendo e piangendo; e c'era Frascari, un vecchio contadino che ci portava a casa sua alle tre di notte, quando Gandolfi chiudeva, e tirava fuori vino e salame e pane e ciccioli, e faceva friggere la salsiccia alla moglie che si alzava e ci guardava sbalordita, e noi ancora a cantare, sotto gli occhi stupiti delle figlie che dovevano andare a lavorare.
Chissà se a Dylan fischiavano le orecchie, in quei momenti? Certo, la
situazione, non se la poteva immaginare, noi là, americani greci e italiani, sulle colline di Bologna, a urlare it ain't no use to sit and wonder why, baby fin quando Frascari andava a mungere e noi voltavamo le macchine verso Bologna.
Ma già tutto sapeva di qualcosa che stava per finire, o che doveva finire, anche se forse non ce ne accorgevamo; eravamo felici, andava bene, e non guardi mai molto avanti, in quei momenti.
Ma non ritrovai Dylan l'anno dopo, in America, e non c'erano le cose che avevo pensato di vedere e di trovare.
Già Dylan, per dire solo lui, era come invecchiato, e non lo si cantava più. Farlo, sembrava di ripetere qualcosa di già conosciuto.
C'erano altri nomi; lui, chissà dov'era, era già passato; di presente c'era la malinconia e la voglia di tornare a casa per vedere se era possibile ripetere quelle cose che non si possono ripetere. Al massimo, si fanno diverse, con altra gente e in altri posti. Le cose finiscono e i miti passano, restano i ricordi. E anche Dylan, in un certo senso, era scomparso.
Ma Dylan è stato per me quello strano personaggio di un film, Pat Garret quando lui, proprio lui, così piccolo (e Debby, che l'aveva conosciuto e ci aveva suonato assieme, a New York, me lo aveva detto, che era piccolo) quando lui dicevo esce fuori da quella porta e il tizio gli fa: "come ti chiami" o "e tu chi sei?" qualcosa così non ricordo bene. E lui sta un attimo zitto, e
poi risponde: "Che domande". E quella strizzata d'occhio, fatta a quelli che l'hanno capita, mi è piaciuta, e mi ha ricordato tutte le cose che erano
state e che avevamo fatto, assieme a lui; e forse più grandi di lui.
Francesco Guccini