Libri di calcio

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Una selezione dei migliori libri di calcio a cura della redazione del Nara B. (n.d.r) alcuni libri precedentemente recensiti sono stati tolti perché ormai fuori commercio.


Ho fatto piangere il Brasile “Un’autobiografia“
di Paolo Rossi . Edizioni Limini  14,90 €

Pablito Rossi è stato il primo giocatore universalmente riconosciuto. Chi spasima oggi per Baggio deve sapere che vent’anni fa in qualunque posto del mondo andasse un italiano sarebbe stato riconosciuto come “ Italiano? Paolo Rossi ! “Dopo vent’anni di silenzio il centravanti della nazionale campione del mondo si racconta in questo bellissimo libro curato da Antonio Finco Il libro ripercorre l’intera carriera dagli inizi a Como fino al rapido declino causato dai numerosi infortuni. Alla fine d’ogni capitolo c’è un’intervista a personaggi che con Rossi hanno diviso una fetta di storia. Oltre all’ovvia esaltazione del mondiale 1982 il punto più interessante è quello dove Rossi ripercorre il momento peggiore della sua carriera, quello della squalifica per illecito sportivo nel famigerato “calcio scommesse “ di fine anni 70A parte l’ovvia dichiarazione d’innocenza sostenuta anche da Bearzot e Boniperti è molto interessante notare come le dichiarazioni dei protagonisti di quei giorni, concordino sostanzialmente con quelle di Petrini.Di fatto furono squalificati giocatori a fine carriera e due simboli come lo stesso Rossi e Giordano,questo  per infliggere una punizione esemplare ed evitare di coinvolgere una società che era nello stesso tempo Corrotta e corruttrice Il nome ve lo lascio immaginare ma se andate a pagina 89 del libro troverete tutto nero su bianco… o bianco su nero.

Castelfranchese


Il Romanzo del Vecio. Enzo Bearzot Di Gigi Garanzini Edizioni Baldini 8,40 euro

C’è profumo di buono in tutte le pagine di questo libro. L’intervista a Bearzot è un piccolo capolavoro per chi ama il calcio. Gli argomenti trattati si snodano lungo tutta la carriera del Ct. Dagli inizi come calciatore fino ad una panoramica sui personaggi incontrati nella lunga carriera. La parte del leone è sicuramente l’ampio numero di pagine dedicato alla Nazionale, dagli inizi in Argentina (“ la mia nazionale più bella “) fino al trionfo del Luglio 1982. N’esce il ritratto di un uomo e di un calcio d’altri tempi. Il gruppo, l’importanza del singolo giocatore e dei fuoriclasse, una critica spietata al calcio degli schemi fissi. Nils Liedholm una volta disse: “ Gli schemi sono bellissimi, in allenamento riescono sempre..senza avversari però”.Bearzot prima della vittoria fu trattato con ferocia ed insulti dalla stampa di allora, il vecio non cerca rivincite ma vi sono delle bellissime stoccate ad alcuni giornalisti oggi famosi anche in televisione. Il libro è anche una vera lezione di tattica, un piccolo corso per apprendisti allenatori. La marcatura ad uomo o a zona, il rispetto per l’avversario, i frequenti viaggi per conoscere anche l’ultima riserva della squadra che si andava ad affrontare. In ogni riga si riconosce un amore sconfinato per la nazionale e per il gioco del calcio ed una sorta di rabbia verso chi lo ha trasformato in un business.Indimenticabile la risposta ad Arrigo Sacchi che nella conferenza stampa di presentazione della finale Italia – Brasile ad Usa 94 disse :  “ Non so come finirà ma vorrei farvi notare come per la prima volta nella storia la nazionale disputa un finale senza stopper e libero. “La risposta di Bearzot è fulminante :  “ Si dimenticò di dire che per la prima volta la nazionale giocava una partita senza attaccanti di ruolo “Un libro da leggere assolutamente

Castelfranchese


 

Una porta nel cielo - un’autobiografia di Roberto Baggio, Ed. Limina, 2001, 12,90 euro

 Si è parlato di questo libro soprattutto con riguardo alle dichiarazioni che l’autore fa nei confronti di alcuni suoi allenatori: Lippi e Ulivieri in testa. Ma le considerazioni su questi allenatori rappresentano invero una parte marginale nel contesto generale del libro.Il libro è strutturato sostanzialmente in quattro parti che si intrecciano e si integrano l’una con l’altra; gli argomenti trattati sono: il buddhismo (o la Buddhità come ama definirla l’autore, intesa come stile di vita), la passione per la caccia e il valore dell’amicizia, il calcio in generale e in particolare la vita calcistica di Roberto Baggio e, infine, i numeri e le statistiche sul giocatore.Il libro consiste in una lunga intervista a Baggio, divisa in capitoli e argomenti, e, dal punto di vista stilistico, si avvertono quasi in modo palpabile la ricerca delle frasi ad effetto, del “buonismo” del personaggio che deve risultare a tutti i costi positivo e salta agli occhi l’intenso lavoro di revisione e di aggiustamento che deve aver preceduto la stesura definitiva del libro.L’idea che ho avuto dalla lettura di questo libro è stata, inizialmente, che l’autore cerchi con tutte le sue forze di fare una sorta di “pubblicità” alla religione in cui crede, di cui ha fatto uno stile di vita e che ispira ogni sua azione. Viene spesso richiamata, e fortemente, la valenza di una guida interiore che sorregga il cammino umano e che rappresenti un aiuto importante soprattutto nei momenti in cui si affrontano le difficoltà che ci paiono insormontabili.Della caccia Baggio parla in toni da vero appassionato fino a cercare di “giustificarla” nel contesto religioso in cui si muove (contesto che non consentirebbe l’uccisione di altri esseri viventi). Sembra, comunque, che tale passione sia almeno altrettanto importante che il calcio, forse anche per il fatto che ha consentito all’autore di avere un rapporto esclusivo con il padre e di coltivare le amicizie a cui tiene maggiormente.La vita calcistica di Roberto Baggio viene descritta dedicando un capitolo a ciascuna squadra in cui il giocatore ha militato. Tranne i pochi accenni ad alcuni allenatori  non vengono citati, se non per inciso, altri personaggi del mondo del calcio (l’elegio a Trapattoni – allenatore che lo potrebbe portare al mondiale 2002 – risulta in linea con quanto dicevo precedentemente sul lavoro di revisione).Interessante la parte finale, concernente i “numeri” del calciatore, per la sua completezza e per alcuni dati non consueti.Pur con evidenti limiti di stile e di contenuti il libro è piacevole e, se non altro, aiuta a ricordare alcuni episodi della storia del calcio italiano e internazionale di cui Baggio è stato ed è protagonista. Lo consiglierei, oltre che agli estimatori del calciatore, piuttosto ai suoi detrattori perché ne traggano una visione diversa da quella che ci è stata sempre proposta dai mass-media.

Genio


Il miracolo del Castel di Sangro di Joe McGinnis, Kaos Edizioni, 2001, 20 euro

Settembre 1996. Il campionato italiano di serie B sta per cominciare con una grande sorpresa. La squadra di Castel di Sangro, un piccolo paese sulle montagne d’Abruzzo, cinquemila abitanti, a più di mille metri sul livello del mare, avendo vinto i play-off di serie C nel campionato precedente aveva compiuto il miracolo della promozione. Mai la squadra di un paese così piccolo si era affacciata al calcio professionistico, e veniva logicamente salutata con grande simpatia da tutto il mondo del calcio. Un famoso scrittore americano, Joe McGinnis, grande appassionato di calcio in generale e di calcio italiano in particolare, ebbe un’idea: quella di seguire la squadra del Castel Di Sangro durante l’esaltante avventura del campionato di serie B; venne quindi di fatto aggregato alla squadra, e visse dalla prima all’ultima partita di quel campionato a stretto contatto di gomito con atleti, allenatore e dirigenti. Il miracolo, almeno per quell’anno, si ripeté. Dopo un’alternanza di risultati negativi e positivi, con qualche momento esaltante (la vittoria a Marassi sul Genoa), altri momenti di lutto e di disperazione (la morte di due giocatori, Di Vincenzo e Biondi, in un incidente stradale), cronache giudiziarie (l’arresto ed il successivo proscioglimento di un giocatore, Prete, per un traffico di cocaina), la squadra alla penultima giornata, battendo il Pescara, ebbe la certezza di una clamorosa ed insperata salvezza. Tuttavia la vicenda del Castel di Sangro in serie B fu meno idilliaca di quanto potesse pensare e sperare. Durante i mesi passati nel paesino abruzzese, McGinnis ebbe a scontrarsi con personaggi e vicende assai poco edificanti. Dal proprietario della società, noto palazzinaro semi-analfabeta, più a suo agio con il dialetto abruzzese che con l’italiano, con un passato ed un presente tutt’altro che limpido, al presidente (nipote del proprietario), anche lui coinvolto e poi prosciolto nel traffico di cocaina, ai giocatori, impegnati in una specie di lotta per la sopravvivenza, attraverso piccoli scandali, affarismi, ambiguità, arriviamo a capire piano piano come il sottobosco che c’è dietro al calcio ‘ufficiale’ sia una specie di giungla dove solo i più forti, i più furbi, i meno sprovveduti riescono a sopravvivere. McGinnis, accolto con tutti gli onori, come la possibilità di una pubblicità gratuita per tutti (società, cittadina, giocatori, proprietario), nel momento in cui dimostra di non voler essere solo una grancassa acritica di ciò che lo circonda, viene prima sopportato, poi emarginato, poi, più o meno velatamente, minacciato. Il libro, uscito in America nel 1999, chissà per quale motivo non è riuscito a trovare un editore italiano disposto a pubblicarlo nel nostro paese, ed ha dovuto aspettare due anni, e quegli inguaribili pazzi idealisti della Kaos Edizioni, per arrivare alla nostra attenzione. I motivi sono tanti, ma il più importante lo scoprirete alle ultime pagine. Ultima di campionato. Il Castel di Sangro, che ha raggiunto la salvezza matematica la settimana precedente, è impegnato a Bari, contro la squadra del potente Matarrese che deve assolutamente vincere per salire in serie A; in caso di pareggio, siccome il Genoa avrebbe sicuramente vinto contro un Palermo già retrocesso, i galletti sarebbero rimasti in serie B. Il giorno prima dell’incontro (dopo essere stato ‘invitato’ a non seguire la squadra a Bari, nei giorni precedenti) sul bordo della piscina McGinnis senza essere visto ascolta le chiacchiere di molti giocatori del Castel di Sangro, che decidono come perdere la partita contro il Bari. Il risultato finale sarebbe stato 3-1, con tre reti baresi in apertura, ed il gol dei giallorossi abruzzesi su rigore nel finale del primo tempo.La partita in questione finì 3-1 per il Bari, che grazie ad un gran avvio si portò subito sul 3-0. Verso la fine del primo tempo, il Castel di Sangro ebbe un rigore, che venne trasformato. Il secondo tempo fu una festa per i tifosi baresi, ed una lunga melina per i giocatori in campo.Ah, a proposito: ovviamente non risulta che alcuna querela sia stata emessa contro l’autore e gli editori…

Piero


 Nato a Betlemme di Andrea Maietti. Limina Ed., 2000, £ 25.000 

In uno sperduto angolo di paradiso, nella più improbabile delle osterie, tra fumo di sigaro, vini di classe, piatti poveri e di alto livello, durante una briscola giocata tra Gianni Brera, Gipo Viani, Nereo Rocco e lady Erminia Moratti, interviene Gesù che chiede ai commensali di organizzare per suo padre, stanco del calcio moderno, il derby dei derby, vale a dire un derby di Milano giocato dai ventidue giocatori più forti che avessero vestito le maglie rossonera e nerazzurra. E’ questo l’incipit, divertente fino allo spasso, triste fino al magone, di questo libro. Che cosa c’entri in tutto questo Gianni Rivera è presto detto: nonostante deboli resistenze di Gianni Brera, una delle figure su cui non si discute, nella formazione all time del Milan è proprio lui, Gianni Rivera, l’abatino o il golden boy, a seconda dei punti di vista, ma per tutti il ‘Bambino’, “quello che dicono sia nato a Betlemme”.Chi ha cominciato a guardare il calcio negli anni ottanta sa forse di avere perso qualche gemma preziosa, nel firmamento calcistico, ma sicuramente una delle più preziose è stata proprio Gianni Rivera. Nato povero in uno dei quartieri più poveri di Alessandria, è stato uno dei calciatori più precoci nella storia del calcio italiano (titolare in serie A a quindici anni), ed ha attraversato il calcio italiano per due decenni, fino a quando non si ritirò, da vincitore con lo scudetto della stella rossonera, nel 1979. Gianni Rivera, una tecnica sopraffina, un’intelligenza (non solo calcistica) rara in questo ambiente, è stato uno dei personaggi più importanti nel panorama del calcio italiano di tutti i tempi. Capace di battaglie dialettiche memorabili (con gli arbitri, il famoso Concetto Lo Bello in primis, ma anche con i giornalisti, a cominciare dallo stesso Gianni Brera), Rivera è uno degli ultimi campioni che ancora si identificano con una maglia, in un’epoca in cui il calcio aveva ancora una dimensione umana, in cui al pressing e alla forza fisica si preferiva la giocata geniale ed artistica (e non sbaglia forse chi sostiene che se giocasse oggi, Rivera faticherebbe a trovare posto in panchina). Questo libro di Maietti (biografo ufficiale di Gianni Brera oltre che appassionato tifoso interista…) è un bellissimo viaggio nel ventennio che ha visto brillare la stella di Rivera, un viaggio che ha come tappe non solo le vicende del protagonista, ma anche i fatti e i personaggi che gli hanno fatto da contorno. Valga come esempio la cronaca che l’autore fa degli ultimi minuti del memorabile Italia-Germania 4-3 a Mexico 70: “Angolo per i tedeschi, la testa del vecchio Seeler incorna alla ‘come viene’: la palla spiove davanti ad Alberatosi. La sfiora appena col ciuffo il maligno Gerd Muller, sorprendendo Rivera che è appostato sul palo di sinistra. Alberatosi strozzerebbe il golden boy, che forse si strozzerebbe da sé. E’ lo stesso Gianni a portare la palla al centro, a scambiare con De Sisti che porge a Facchetti. Lancio immediato sulla sinistra per lo scatto di Boninsegna . Il pugile si libera con un ringhio da un tentativo di abbraccio di un difensore, va sul fondo e crossa a rientrare, teso e basso. Un invito per chi abbia ancora forza orgoglio e cuore per crederci. Chi mai, buon dio? Ma lui, Giannirivera. Eccolo sulla palla, la colpisce al volo di piatto destro, spiazzando Maier senza rimedio. E’ un colpo che si tenta solo in allenamento. Riva è il primo a voler stritolare Rivera. Io, interista e breriano, mi sento urlare: Gianni, sei nato a Betlemme!”

P.S.

D’accordo, siamo tifosi del Bologna, ma vi interessa sapere le formazioni che quei quattro, in quell’osteria del paradiso, hanno deciso per il derby dei derby? Eccole, recitate alla vecchia maniera. Milan: Cudicini, Tassotti, Maldini; Rijkaard, Rosato, Baresi; Rivera, Liedholm, Van Basten, Schiaffino, Gullit. Allenatore Nereo Rocco. Inter: Zenga, Burgnich, Facchetti; Matthaeus, Guarneri, Picchi; Mazzola, Suarez, Vieri, Meazza, Corso. Allenatore Helenio Herrera. Non si sa chi abbia vinto, ma una cosa è sicura: chi ha assistito a questo derby si è divertito da pazzi…

A cura di Piero


 

Storia critica del calcio italianodi Gianni Brera, Ed. Baldini & Castoldi, 1998, 21 euro

Forse è il caso di sgomberare subito il campo da giri di parole ed eufemismi: Gianni Brera è un pezzo di calcio italiano, e soprattutto, Gianni Brera è ‘il’ giornalismo sportivo italiano. E’ stato colui che, forse per primo, ha dato dignità letteraria al giornalismo sportivo, che ha trasformato la chiacchiera da bar in pagine di alta letteratura, che ha fatto uscire lo sport in generale ed il calcio in particolare (ma Brera è stato anche un grandissimo scrittore di atletica leggera e di ciclismo) da un ghetto chiuso e volgare, per portarlo nel palazzo della cultura. Su Gianni Brera sono state scritte anche delle tesi di laurea, per cui ci rendiamo conto di quanto sia riduttivo parlare di lui qui, in poche righe. Come tutte le fortissime personalità, Gianni Brera è stato amato e odiato, ammirato e disprezzato, considerato un modello da imitare e un esempio da non seguire. Comunque sia Gianni Brera è stato il rivoluzionario del giornalismo sportivo, è stato colui che ha inventato le pagelle ai giocatori sui giornali del lunedì, e soprattutto ha inventato un linguaggio nuovo: parole come atipico, centrocampista, cursore, forcing, goleador, incornare, libero, melina, pallagol, pretattica, rifinitura, che oggi sono sulla bocca e nella penna di qualsiasi appassionato di calcio, sono state inventate o utilizzate per la prima volta in ambito calcistico da lui; e come non ricordare i soprannomi affibbiati ai calciatori, dai famosissimi ‘abatini’, che indicavano i bravissimi ma tremebondi centrocampisti battuti dalla Corea del Nord nel 1966, a ‘Bonimba’ per Boninsegna, a ‘Rombo di Tuono’ per Gigi Riva? Ma la personalità di Gianni Brera andava ben al di là del calcio e dello sport. Uomo di vastissima cultura umanistica, raffinato gourmet ed enologo (intendendo per ‘raffinato’ colui che sa cogliere il meglio delle cose), era il rappresentante più tipico di quell’ “uomo lombardo” che va purtroppo scomparendo, sommerso da stilisti e leghismi vari.La ‘Storia critica del calcio italiano’ è un ponderoso volume (739 pagine) che può essere considerato la summa del calcio italiano, dal primo campionato giocato tutto in una giornata, ai mondiali argentini del 1978. Ristampato dopo vent’anni, il volume viene integrato molto bene da una carrellata sugli eventi del ventennio 1978/1998 ad opera di Giulio Signori,  e dalle calciostatistiche di Giorgio Sali e Mario Porqueddu.Che dire del libro? Che c’è tutto, tutte quelle informazioni che vogliamo trovare sui campionati italiani, sulla Nazionale e sulle sue partecipazioni alle manifestazioni internazionali, sul giornalismo e sui giornalisti che hanno accompagnato e commentato gli eventi, sui personaggi, grandi e piccoli, che di quegli eventi sono stati protagonisti e vittime. Il tutto scritto in maniera piacevolissima, unendo il rigore ed il rispetto per le fonti propri dello storico, all’abilità descrittiva e narrativa propria del grande romanziere, e alla passione e al coinvolgimento proprie dell’appassionato. Vi assicuriamo, insomma,  che le 739 pagine, una volta cominciata la loro lettura, vi sembreranno molte, molte di meno.

A cura di Piero


Nel fango del dio pallone di Carlo Petrini, Kaos Ed., 2000, L. 25.000

Per prima cose devo confessare il grandissimo disagio che ci ha accompagnato durante la lettura di questo libro, disagio che non ci abbandona nemmeno mentre scriviamo queste righe di commento. Il motivo è semplice: dalle pagine del libro, da ogni pagina, forse da ogni frase, esce una tale quantità di brutture, di bassezze, di squallore, di degenerazioni dell’animo umano, che risulta impossibile non provare un senso di disagio o addirittura di nausea. Carlo Petrini è stato calciatore in moltissime squadre di serie A e B negli anni 70; ha chiuso la sua carriera professionistica nel 1980, nel Bologna, travolto dallo scandalo del calcio scommesse. E’ stato un giocatore corrotto, dopato (e i suoi occhi quasi ciechi sono ora la conseguenza di quel doping), dallo spessore umano pari a zero; una persona squallida che nelle pagine del libro non fa assolutamente niente per apparire meglio di quel poco che è, anzi sembra che accentui i suoi sforzi per convincere tutti noi della sua pochezza (riuscendoci peraltro benissimo). Chiusa la carriera di calciatore, Petrini si infilò in un giro di finanziarie e di usurai che finì per travolgerlo, scappò all’estero, inseguito da debiti e da personaggi senza scrupoli, rimanendo nascosto per anni. Tornò indirettamente alla ribalta pochi anni fa, quando uno dei suoi figli, malato terminale di cancro, fece un pubblico appello televisivo al padre affinché andasse almeno una volta a trovarlo. Petrini preferì rimanere nascosto e il figlio morì senza rivedere il padre (per la serie: quando la realtà supera, e di molto, la fantasia). Il libro è come il suo autore: duro, spietato, volgare, un pugno nello stomaco che ti prende ogni volta che  cominci una pagina. Il mondo del calcio che esce da queste pagine è una specie di giungla, in cui nessuno si può permettere di dare le spalle a nessuno. I calciatori, quando va bene, sono ragazzotti ricchi ed immaturi, privi di ogni regola morale, capaci di parlare solo delle proprie avventure erotiche, quasi sempre extra coniugali, e di automobili; per non parlare degli allenatori, dei dirigenti, degli arbitri... Le pagine che parlano delle partite truccate sono quelle più sconvolgenti: negli anni 70 (ma come non si può non ricordare il caso di Venezia-Bari dell’anno scorso, con il gol ‘indesiderato’ di Tuta, che, guarda che coincidenza, non gioca più in Italia) l’accordo tra dirigenti o tra giocatori per guidare il risultato di una partita era la regola. Lo si faceva o per convenienza reciproca (“un punto fa comodo a tutti due...”), o per motivi ancora più loschi legati alle scommesse clandestine. I giocatori scommettevano abitualmente, e fa veramente male, da tifoso del Bologna, leggere che nella squadra rossoblù nel 1980, i soli giocatori che non facevano mai scommesse erano Sali (il terzino con i baffoni e i capelli da guerrigliero, che portava Eneas a comprare i giornali di estrema sinistra) e Castronaro. Dal presidente Febbretti in giù, erano le uniche eccezioni...Intendiamoci: non sappiamo fino a che punto l’autore del libro sia attendibile, e non sappiamo se il suo scopo sia quello di una sorta di ‘catarsi interiore’, o sia qualcosa di più basso e sordido. Quello che ci fa specie è che, per quanto se ne sappia, nessuno dei personaggi citati, con tanto di nomi (solo i protagonisti della scappatelle erotiche vengono celati dietro una sigla), legati ad episodi di doping e corruzione, abbiano non dico sporto querela (tanto, per quello che servono le querele...), ma almeno convocato una conferenza stampa per dire: “Fermi tutti, io non c’entro!”. Perché Colomba, Dossena, Savoldi, Zinetti, Perani, non sono insorti per dire che Petrini ha detto bugie? Perché Trapattoni, che a giudizio di Petrini, insieme ai dirigenti della Juve e del Bologna di allora, avrebbe concordato un pareggio di comodo  tra bianconeri e rossoblù, tanto che ad un’imprevedibile papera di Zinetti si dovette porre rimedio con un autogol di Brio, non convoca i suoi amici giornalisti e dice loro di essere stato e di essere una persona pulita? Sono domande che per il momento restano senza risposta, e noi ci teniamo, insieme alla nostra incertezza, anche il nostro disagio e la nostra nausea, che vengono accentuate dall’ultima e più importante delle domande che possiamo porci: perché nonostante le persone e gli episodi descritti in quel libro continuiamo a spendere soldi, fatica e passione per il dio pallone?

 A cura di Piero


Io sono El Diego Di Diego Armando Maradona Editore: Fandango Libri

Uscita "inspiegabilmente" molto in ritardo rispetto al resto degli altri paesi europei l’autobiografia di Maradona ha avuto un buon riscontro di pubblico a dimostrazione di quanto affetto o curiosità susciti ancora un personaggio come El Pibe.Nelle pagine di questo libro Maradona si racconta dagli inizi della sua vita, dai ghetti e dai campi polverosi di Rosario Fiorito (luogo natio) fino ai monumentali stadi calcistici dove si è consacrato icona calcistica degli interi anni ’80 e parte degli anni ’90. Ci porta dentro gli spogliatoi del Nou Camp, del San Paolo, della Nazionale argentina che grazie al suo leader riusciva a conquistare il titolo di campione del mondo; ci racconta le liti e le amicizie con giocatori, presidenti, procuratori, vertici della Fifa (Blatter, guarda caso) e tutta quella "corte dei miracoli" che ha sempre accerchiato e spesso "sfruttato" il personaggio Maradona. Confessa ancora una volta la sua triste e al momento perdente battaglia contro un demone chiamato droga, da cui dipende quasi dagli inizi della sua carriera. E poi la sua ammirazione per Castro, per Menem e il suo disprezzo per i generali argentini, senza peli sulla lingua, in linea con il suo personaggio che non ha mai avuto paura di esporsi neanche di fronte a pensieri polemicamente forti. Certo spesso nel libro lo si ritrova anche nella sua versione più patetica e pacchiana (nella galleria fotografica c’è una sua foto sotto la doccia rasentante la peggior cultura trash), ma anche questi sono i suoi tratti distintivi che forse resero il personaggio ancor più popolare e chiacchierato (chi non ricorda il suo matrimonio kitch o i suoi pianti in favore di telecamera?). Un’opera per gli amanti di Diego assolutamente imprescindibile per capire il personaggio tramite la sua versione dei fatti (e quindi con le dovute omissioni), dopo che per anni giornalisti, scrittori o semplici imbrattatori di carta hanno vivisezionato e giudicato la sua vita fuori dal campo (dentro il campo non c’erano dubbi per nessuno, assolutamente divino).

Piero


Ho visto un re di Carlo D’Amicis, Ed. Limina, 1999, £ 25.000

 "L’importante è migliorarsi, non arrivare!" che sarebbe come e dire di sapersi accontentare, e nello stesso tempo di non fermarsi mai".Era la metà degli anni settanta. Le risate ci seppellivano sempre di meno, l’immaginazione lasciava il potere a qualcosa e qualcuno di molto peggiore, e per essere realisti si cominciava a non chiedere più l’impossibile, ma il peggio del possibile. Erano gli ultimi campionati in bianco e nero, poteva ancora capitare che una neopromossa rischiasse di vincere il campionato, e che un calciatore ricco, famoso ed in odore di nazionale, non volendo né potendo dimenticarsi della miseria e della fame patite in gioventù, desse l’anima in tutte le partite, correndo come un pazzo dall’inizio alla fine, in una sorta di risarcimento verso il destino che lo aveva favorito in quel modo. La squadra era la Lazio, quella che nel 1974 riuscì a vincere il primo e finora unico scudetto della sua storia, il calciatore era Luciano Re Cecconi, che di quella squadra era la mezzala destra, ed era anche i suoi polmoni, i due polmoni più potenti del dopoguerra."Gli eroi son tutti giovani e belli" cantava all’epoca Francesco Guccini in una sua famosa canzone. Forse Luciano Re Cecconi non era bellissimo, anzi; ma era giovane, e divenne di sicuro un eroe quando il destino, in una delle sue beffe più atroci, se lo portò via, nel gennaio del 1977, a ventinove anni, ucciso per errore da un gioielliere che lo aveva scambiato per un rapinatore. Luciano Re Cecconi aveva rappresentato in maniera perfetta l’Italia di quegli anni; nato povero, in una famiglia in cui dignità e povertà andavano indissolubilmente legate, aveva cominciato a lavorare a quattordici anni, e la sera giocava a pallone, e correva, correva, correva... Correndo riuscì a bruciare le tappe della carriera, la Pro Patria in serie C, il Foggia in serie B, la Lazio in serie A, lo scudetto, la nazionale, fino a quella terribile ed assurda serata di gennaio del 1977."Ho visto un re" è un romanzo, ma è anche un biografia, una doppia biografia, da una parte l’autore, che cresce con il mito del suo eroe (e sfida le battute degli amici che scoprono che ha dipinto di biondo, come i capelli di Re Cecconi, la testa di un omino del Subbuteo), si immedesima in lui, e cresce attraverso le partite giocate da solo nel salotto di casa, le prime partite ‘vere’ viste allo stadio, l’incontro ravvicinato con la sua squadra del cuore in ritiro nell’albergo in cui si trova; e dall’altra Re Cecconi, in un racconto scritto in prima persona, in cui si scandagliano i particolari più intimi e nascosti della sua personalità, in una specie di crescendo che arriva fino allo stupore e all’incredulità per una morte assurda.E a interrompere questa doppia narrazione, articoli e testimonianze, dal contratto firmato nel 1965 per la cessione alla Pro Patria del diciassettenne Re Cecconi, fino alla testimonianza drammatica resa dal gioielliere che lo aveva ucciso."Ho visto un re" è un libro appassionato e appassionante, caldo, che rende una testimonianza mirabile e a tratti commovente di un periodo, di un calciatore che fu prima di tutto un uomo, di una squadra di calcio che stupì ed infiammò, di uno sport che riesce sempre a tirare fuori dal cilindro un qualcuno o un qualcosa che terrà sempre vivo il fuoco della nostra passione.

A cura di Piero


Febbre a 90° di Nick Hornby, Guanda Ed., 1998, L. 26.000

 Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: questo non è un libro di calcio, e non è nemmeno un libro sul calcio. E’ invece una delle espressioni più alte e coinvolgenti sulla passione e sulla febbre che prende tante persone in ogni angolo del pianeta quando salta fuori un pallone. Il protagonista è una persona ‘normale’, insegnante, sposato, con figli, tanti amici, ma con una malattia, anzi, con una ‘febbre’: nel suo caso la febbre è l’Arsenal, ma è uguale a tutte le febbri, come la nostra per il Bologna, o come quelle che qualsiasi tifoso ha per la sua squadra del cuore."Mi innamorai del calcio come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente, senza pensare al dolore o allo sconvolgimento che avrebbe portato con sé": così l’autore ci spiega come è nata la sua febbre, e alzi la mano il tifoso che non può sottoscrivere ogni parola. Il libro si sviluppa in una storia, la storia del rapporto tra l’autore e l’Arsenal, e i tanti capitoli del libro sono scanditi dalle partite che sono rimaste vive, con dovizia di particolari e di ricordi, nella mente di chi scrive. Il tutto avviene in una specie di crescendo rossiniano, partendo da un insignificante Arsenal-Stoke City del 14 settembre 1968 (partita in cui il ragazzino di undici anni si innamora della sua squadra con le modalità descritte poco sopra), per arrivare a Liverpool-Arsenal del 25 maggio 1989, partita che vale la pena di raccontare. Dopo un campionato sempre condotto in testa, l’Arsenal crolla nelle ultime partite, e prima dell’ultima di campionato si trova scavalcata dal Liverpool. Resta soltanto una partita, che, guarda caso, è Liverpool-Arsenal. L’Arsenal deve vincere con due gol di scarto, ne segna subito uno, ma l’atro non arriva. E a tempo scaduto, quando ormai le speranze stanno morendo, arriva il secondo gol, e con lui la vittoria in campionato. Nemmeno Hitchcock sarebbe riuscito a fare una sceneggiatura con tanta suspence.Il viaggio che l’autore ci fa fare dal 1968 al 1989 e anche oltre, si sviluppa attraverso grandi e memorabili eventi sportivi, e piccole ed insignificanti partite, gioie immense e dolori devastanti (non solo sportivi: sono bellissime le pagine sulle tragedie dell’Heysel del 1985 e di Hillsborough del 1989), con lo sfondo dei rapporti familiari, le peripezie sentimentali (solo il vero tifoso conosce la difficoltà di far convivere passione sportiva e rapporti di coppia!), il lavoro, gli amici, la musica (tanta musica, e in certi momenti ti sembra quasi di sentirla), e di una bellissima e vivissima Londra metropolitana. ‘Febbre a 90°’ è un libro che dovrebbe essere letto da tutti. Da noi appassionati di calcio innanzitutto, perché nello scorrere delle pagine ci possiamo specchiare, più e più volte, e rivedere i nostri dolori, le nostre gioie, le abitudini, i tic, i sogni, le depressioni e i momenti di estasi; e poi perché terminato il libro ci accorgeremo che la nostra grande passione per il calcio, che magari fino ad ora abbiamo vissuto con qualche senso di colpa, o come qualcosa di poco elegante, da nascondere, è invece qualcosa di alto e nobile, e comunque qualcosa di cui andare fieri. Ma ‘Febbre a 90°’ deve essere letto anche da chi odia o snobba il calcio, perché di sicuro, terminato il libro, guarderà a noi e alla nostra passione con occhi più benevoli, e, forse, il giorno in cui torneremo allo stadio, ci chiederà di venire con noi.

 A cura di Piero


Il Centravanti è stato assassinato verso sera di M.V.Montalban. U.E.Feltrinelli 6,5 Euro

Barcellona, 1988. Un’ ex grande promessa del calcio spagnolo, devastato da infortuni e da s confitte non solo calcistiche, torna a Barcellona per giocare in una squadretta di bassa categoria e per riannodare i fili di un passato fallimentare; un grande centravanti inglese viene ingaggiato dal FC Barcellona, tra i clamori e gli osanna della stampa e degli appassionati e le lettere minatorie di uno strano e sconosciuto personaggio che minaccia di ucciderlo; un detective privato, all’apparenza cinico, ma in effetti solo disincantato e deluso, su incarico dei dirigenti del FC Barcellona (questi, sì, cinici) si mette alle costole del centravanti e della sua famiglia per difenderlo e per cercare di venire a capo della faccenda. Il tutto in una Barcellona sventrata dai lavori per le imminenti Olimpiadi, una città che ha già perso la propria identità e che non ne ha ancora trovata una nuova, una città in cui tutto cambia alla velocità della luce, le squadre di calcio, i palazzi, gli speculatori, le strade, gli uomini, i malviventi. Pepe Carvalho, il detective, si muove sempre più a disagio in questo ambiente che sente sempre più estraneo, e con lui anche le persone a lui vicine, Biscuter, il cuoco collaboratore, Bromuro, il lustrascarpe informatore, Charo, la fidanzata prostituta. Al termine Pepe Carvalho risolverà la faccenda, ma non aspettiamoci il classico colpo di scena finale, deflagrante e clamoroso; riuscirà a farlo, invece, dipanando, lentamente e stancamente, un filo neanche troppo ingarbugliato."Il Centravanti è stato assassinato verso sera" è forse uno dei romanzi più belli dedicati da Montalbàn al famoso personaggio di Pepe Carvalho. E’ un romanzo in cui la vicenda gialla diventa un pretesto per raccontare le storie, ora dolenti, ora tragiche, di uomini e donne, e soprattutto per raccontare l’essenza di una città, Barcellona, e di una cultura, quella catalana. Anche il calcio diventa un mezzo per raggiungere questi fini, e capiamo ad esempio come il FC Barcellona sia sempre stato e sia ancora l’essenza della catalanità e della voglia di autonomia, in un fenomeno che va ben oltre il calcio, in contrapposizione al Real Madrid o all’Espanyol (fortissime, ad esempio, sono state in questi mesi le polemiche fatte da molti catalani, Montalbàn in testa, alla progressiva ‘olandesizzazione’ della squadra); ma il calcio in questo romanzo serve anche per delineare personaggi stupendi, come Palacìn, calciatore su un tristissimo viale del tramonto, che cerca, invano, di riannodare i fili di un passato intriso di fallimenti."Il Centravanti è stato assassinato verso sera" è un romanzo triste, struggente e bellissimo; la sua lettura non ci renderà di certo più allegri, ma è fuor di dubbio che ci renderà partecipi di una straordinaria esperienza.

 A cura di Piero 


San Isidro Futbol di Pino Cacucci, U.E.Feltrinelli 4,50 euro

Innanzitutto un’avvertenza: nell’avvicinarvi a questo romanzo, dimenticate i grandi nomi, i campioni immortali, le vicende indimenticabili. San Isidro è un paesino del Messico, talmente dimenticato da Dio e dagli uomini, da non sapere nemmeno di quale stato della confederazione fa parte. E’ abitato da poveri contadini, rozzi, ignoranti ma molto dignitosi, ed ha un solo vanto: la squadra di calcio. Nella squadra di calcio brilla la stella di Quintino, che gioca nel ruolo di matador, un ruolo ‘non-ruolo’, riservato a chi, per capacità tecnica, fantasia, bravura ed imprevedibilità, non può soggiacere a regole e schemi.Succede però che prima della partita più importante della stagione, Quintino passi l’intera notte in strapazzi erotici con la sua Antonia (figlia dell’allenatore), che il giorno dopo si presenti in campo con le gambe molli e gli occhi appannati, e che la sua squadra, dopo il primo tempo, le prenda di santa ragione. Ma succede anche che ad un certo punto Quintino cada, sbattendo il naso sulla riga bianca che delimita l’area, che la riga bianca sia fatta non con la polvere di gesso, ma con un polvere bianca sconosciuta, trovata in sacchi presenti su un aereo misterioso caduto qualche giorno prima nella sierra, e che dopo quella caduta Quintino ritrovi tanta forza ed energia da ribaltare il risultato e far vincere il San Isidro. Da quel momento si dipana un’intricata e divertente vicenda, in cui gli abitanti del paese, prima sorpresi e poi arrabbiati, vedono passare davanti a sè, trafficanti tanto cattivi quanto imbelli, poliziotti corrotti ed incompetenti, fino a quando uno strano prete, Padre Pedro, che suole portare il vangelo in una mano e il revolver nell’altra, arriva e come un moderno cow-boy mette le cose a posto.In ‘San Isidro Futbol’ il calcio non è un fine nella narrazione, ma il mezzo per costruire una vicenda spassosa e a volte esilarante. Pino Cacucci (di cui si ricorda il più famoso ‘Puerto Escondido’), in pochissime pagine riesce a fare molte cose: quella più importante, in questa sede, è che ci fa tornare alla mente l’aspetto più antico e mitico della nostra passione per il calcio, le nostre partite sconclusionate giocate nei cortili e nei campetti, alla presenza di un pubblico fatto di amici e di parenti, l’emozione ad indossare le prime divise, l’ansia, la rabbia, la gioia per la vittoria e la delusione per la sconfitta. Ma non c’è solo calcio, anzi, come dicevamo poco sopra, in questo romanzo il calcio è un mezzo narrativo, e non un fine: e allora ci sono anche, e soprattutto, le vicende di un gruppo di poveracci, testardi e cocciuti, alle prese con qualcosa e qualcuno più grande di loro, e, in un sottofondo sempre vivo e pulsante, la descrizione intima sofferta e divertente di un paese, il Messico, che troppi di noi conoscono solo attraverso i depliant turistici o i luoghi comuni.

P.S. Dal romanzo è stato tratto un film di Alessandro Cappelletti, "Viva San Isidro!", con Diego Abatantuono nella parte di Padre Pedro. Ebbene, noi sappiamo che guardare una videocassetta è più comodo che leggere un libro, però fidatevi del vostro redattore: il libro è diecimila volte più bello del film.

A cura di Piero 


Le partite non finiscono mai di Darwin Pastorin, Ed. Feltrinelli, 1999, 6,20 euro

 "Trent’anni fa c’era un altro mondo, c’erano altri ideali e, come potete immaginare, c’era un altro calcio. Il calcio dei giocatori-bandiera, delle maglie senza sponsor, degli ingaggi contenuti, dei numeri che connotavano il ruolo, degli stadi che erano stadi e non faraoniche cattedrali."

Questo è l’incipit di uno dei quattordici racconti che compongono il libro, e può essere considerato il suo riassunto e il suo filo conduttore."Le partite non finiscono mai" è un viaggio delizioso nei ricordi, antichi e recenti, legati al calcio, dalle cose più piccole e intime agli eventi più noti e fragorosi, dai personaggi sconosciuti ai campioni esaltati in tutto il mondo.Darwin Pastorin, giornalista cresciuto in Brasile, attuale direttore dei programmi sportivi di Stream, tifoso dichiarato e fazioso del Palmeiras e della Juventus, riesce in appena 133 pagine a fare una splendida dichiarazione d’amore al calcio e nello stesso tempo a lanciare un grido, arrabbiato ed angosciato, per quello che esso sta diventando.Esilarante la figura della madre dell’autore, grandissima esperta di calcio, che telefona al figlio durante una riunione di redazione per segnalargli lo stopper del Bochum, e che fa biechi ricatti morali ai nipotini per convincerli a tifare per la sua squadra del cuore; emozionanti e toccanti, senza mai cadere nel patetico, le pagine dedicate a Superga, a Meroni e all’Heysel.Strano giornalista sportivo, Darwin Pastorin, lontano anni luce dalle urla, dai biscardismi, dalle polemiche fini a se stesse, dagli odi e dalle pacchianate di cui il calcio attuale è pieno.Ed è per farvi capire che cosa troverete in questo libro, che vogliamo chiudere, così come abbiamo cominciato, con una citazione:"Quando il calcio diventa ricettacolo di odi e di veleni, scusate, ma mi metto in disparte. Non ci sto. non ci sto ad accendere la miccia di una polemica, a diventare fautore di processi del lunedì. Per me il pallone continua ad essere un ‘sogno fanciullo’, la magia del prato verde, l’euforia del bel gol, la folla che pare trabocchi nel campo."

A cura di Piero


La farfalla Granata  di Nando dalla Chiesa, Ed. Limina, anno 1995, 12,51 Euro

In una della scene più belle del bellissimo film di Gabriele Salvatores ‘Marrakech Express’, all’interno di un gruppo di amici si sente uno che dice: "Oh, ragazzi, ma vi rendete conto che noi siamo gli ultimi ad avere i ricordi in bianco e nero, La nonna del Corsaro Nero, Belfagor...". Ecco, questo libro è dedicato soprattutto a quelli di noi che hanno i ricordi in bianco e nero, che collezionavano le figurine Panini ancora non autoadesive, e che sicuramente avranno avuto tra i propri eroi Gigi Meroni. Per i più giovani, Gigi Meroni fu un grande protagonista del calcio italiano nella prima metà degli anni sessanta, prima nel Genoa e poi nel Torino, e oltre ad essere un ottimo calciatore, fu uno dei personaggi più straordinari emersi nella storia del calcio italiano. Fu anticonformista quando il calcio era l’essenza del conformismo, fu ribelle quando il rispetto delle regole era vangelo; e fu tutto questo in un’epoca in cui esserlo poteva costare e costare caro (ad esempio, Edmondo Fabbri lo cacciò dalla nazionale perché lui si rifiutò di tagliarsi i capelli, e, si dice, non finì in grandi squadre perché conviveva con una donna sposata). Fu un grande artista in campo: amava il dribbling, la giocata strana e imprevedibile, e odiava tirare i rigori, perché invece era qualcosa di ‘normale’; e fu un artista fuori dal campo, dilettandosi di pittura, e divertendosi a disegnare i modelli dei vestiti, stile Beatles, che poi indossava. Fu odiato come nessun altro, e fu amato a livelli increbili. La sua fama crebbe e divenne leggenda, poi, quando in una nebbiosa sera dell’autunno del 1967, all’uscita da un ristorante, venne travolto e ucciso da un’automobile. Nando dalla Chiesa riesce in questo libro a tirare fuori un romanzo appassionante da una biografia, condotta rispettando i rigorosi criteri dello storico (consultazione attenta delle fonti, intervista dei protagonisti); e se ci riesce in maniera così alta, il merito è sì suo, ma è anche e soprattutto del protagonista della sua biografia, quel Gigi Meroni la cui vita fu ricca e appassionante come un bellissimo romanzo.

A cura di Piero 


 La partita del secolo  di Nando dalla Chiesa, Rizzoli Editore, 2001, £ 27.000

C’è una cosa che non ho mai perdonato né perdonerò mai ai miei genitori. Notte tra il 17 e il 18 giugno 1970. Io di lì a pochi giorni avrei compiuto dieci anni, e la mia vita si sviluppava tra lo studio, il sonno e lunghissime, interminabili partite di calcio in cortile. Grazie all’internet di allora (le figurine Panini) conoscevo a menadito tutte le caratteristiche e la storia di tutti i calciatori di serie A e B. In quel periodo stavo anche ‘vivendo’ i miei primi mondiali (quelli precedenti si svolsero quando ero troppo piccolo), e li vivevo con la passione e il trasporto che potete immaginare. Quella notte si doveva disputare Italia-Germania Ovest, e l’attesa, non solo da parte mia, era spasmodica. Dovete sapere però che in casa mia c’era una regola: quella, perversa e crudele, dell’ “A letto dopo Carosello”. Io e mia sorella (ma lei aveva tre anni, all’epoca, e di calcio non gliene è mai fregato niente) dovevamo andare a letto, senza eccezioni, dopo la programmazione di Carosello, verso le nove di sera (se siete così giovani da esservi persi ‘Carosello’, mi dispiace per voi, chiedete informazioni ai vostri genitori). Insomma, non ci fu verso, non valsero le lacrime, non valsero le promesse, le minacce, i ricatti… Quella sera, furente e minacciando le conseguenze più terribili per i miei genitori, me ne andai a letto, perdendomi quella che sarebbe diventata ‘La partita del secolo’. Per fortuna di Franca e Viscardo (i miei genitori) non diedi seguito alle minacce, che andavano dalla fuga da casa all’avvelenamento di tutta la famiglia (i bambini sanno essere molto crudeli, soprattutto quando fai perdere loro una semifinale mondiale), ma da allora Italia-Germania Ovest del 17 giugno 1970 è rimasto il mio buco nero, il Grande Rimpianto che tento di alleviare con video, articoli, libri racconti. Ben venga quindi questo libro di Nando dalla Chiesa, che si rivela un grande scrittore di calcio (cfr, in questa rubrica, “La farfalla granata”, splendida e romantica storia su Gigi Meroni).  Il libro in questione è una carrellata non solo sportiva, ma anche storica, politica e sociologica (tranquilli, non c’è niente di pesante o difficile) sugli anni che vanno dal 1968 al ’72, ’73. I calciatori che quella notte tennero sveglia tutta la nazione (tranne, ahimè, il sottoscritto) sono identificati in questo libro come i rappresentanti di un popolo che nasce povero, esce dalle rovine della guerra, ma riesce con tenacia a raggiungere un certo benessere; quella partita è vista come un apice, il punto più alto prima dell’inizio di un’inevitabile parabola discendente.C’è un po’ di tutto, in questo libro. C’è l’analisi, attenta e appassionante, dell’ambito storico, che va dalle olimpiadi del 1968, con la strage di piazza delle Tre Culture a Città del Messico, a quella rivoluzione dei costumi e della mentalità che furono i movimenti del ’68; c’è la descrizione di una generazione (i giovani di sinistra che ‘fanno’ il ’68) che partono dal considerare il calcio come “l’oppio dei popoli”, ma che alla fine si fanno rapire senza opporre resistenza da quella partita e dalle passioni che quella partita suscita; ma c’è, soprattutto la partita. Quella partita che sconvolse i cuori e le menti, che rivoluzionò i canoni e le regole scritte e non scritte del calcio di allora (ad esempio, due gol furono segnati da due difensori come Schnellinger e Burgnich, in un’epoca in cui il ‘terzino roccioso’ non varcava la propria metà campo nemmeno sotto tortura), che portò per la prima volta migliaia di persone di ogni ceto e credo a riversarsi per le strade per festeggiare la vittoria. “La partita del secolo” è un libro che va assolutamente letto. Chi c’era avrà modo di farsi un bagno di ricordi bellissimi; chi non c’era avrà l’occasione di conoscere meglio un pezzo di noi e della nostra storia; e chi c’era, ma era stato mandato a letto a dormire, potrà rinfocolare il suo rimpianto, avendo l’occasione di scroccare una cena a due vecchi genitori pentiti.

A cura di Piero


Lettera a mio figlio sul calcio di Darwin Pastorin, Ed. Mondadori, 2002, € 12,00

 Forse ‘noi’ non abbiamo bisogno di leggere questo libro (se non per un piacevolissimo appagamento personale), intendendo per ‘noi’ coloro i quali intendono il calcio come bellezza, come racconto, come gesto, come forma d’arte applicata al movimento. Questo è un libro utile agli altri. Non solo ai bambini che si avvicinano al mondo del calcio, non solo a chi non ama o non conosce il calcio, ma anche gli ‘esperti’, agli snocciolatori di tattiche, ai rissaioli verbali e non, a chi concepisce il calcio come battaglia, sugli spalti, in uno studio televisivo o su un forum di tifosi. E’ poesia in prosa, questo libro, in cui un padre ripercorre le tappe della sua infanzia, della sua giovinezza, della sua maturità, tappe che sono sempre inevitabilmente contrassegnate da un calciatore, da una squadra, da una partita. E così l’infanzia in Brasile (Pastorin è molto orgoglioso di essere nato lo stesso giorno in cui esordiva in nazionale Garrincha), la giovinezza a Torino, la maturità in giro per i campi di tutto il mondo, sempre dietro al pallone, ma al racconto del pallone, della sua bellezza e delle sue brutture. Dei suoi protagonisti. Non poteva mancare Garrincha, naturalmente, ma spazio anche a Varela, a Maradona, a Scirea, a Gigi Riva, a Michel Platini. Un percorso struggente e bellissimo, in cui le gioie si sovrappongono e si mischiano ai dolori, e in cui tutte e due, le gioie e i dolori sono grandi, immensi, solenni, proprio come solo una cosa grande e solenne come il calcio può dare.Non parleremo qui di Pastorin, visto che abbiamo già parlato di diversi suoi libri. Ripeteremo solo che siamo di fronte a quello che è forse il miglior giornalista sportivo italiano (vedere le trasmissioni che conduce su Stream, per favore), e che di fronte a lui non riusciamo ad accettare soltanto una cosa: che sia, purtroppo, tifoso della Juventus…

Piero Cavallotti


Se mi mandi in tribuna, godo di Ezio Vendrame, Ed. Biblioteca dell’Immagine, 2002, € 11,00

Pochi dei nostri lettori ricorderanno Ezio Vendrame, giocatore degli anni 70 e 80. Non divenne particolarmente famoso, anche se giocò in serie A, nel Vicenza e nel Napoli. Ma Ezio Vendrame è un personaggio, prima ancora che un calciatore, che va assolutamente conosciuto. Spirito libero ed anarchico (ci confessa, nel suo libro, di non avere mai votato, "Uscivo di casa per andare a votare, ma non trovavo mai la strada!"), giocatore ribelle ed irrequieto, Ezio Vendrame è passato come una meteora, una stranissima meteora nella storia del calcio nostrano. Definito il Kempes italiano da Giampiero Boniperti (che peraltro si prende del suo: "Allora Boniperti, oggi Bettega, l’immagine dell’arroganza truccata da perbenismo"), Vendrame non fa nulla, assolutamente nulla per compiacere il lettore, per farselo amico, così come quando era sul campo di calcio non faceva nulla per ingraziarsi allenatori, presidenti, pubblico, giornalisti. Ma il risultato, in queste decine di piccoli pezzi che compongono il libro, è affascinante. A volte divertente, a volte volgare, a volte amaro, a volte dolce e triste (bellissimi i pezzi che parlano, con pudore e quasi paura, della sua strana amicizia con il poeta e cantautore livornese Piero Ciampi), il libro di Vendrame va via veloce e rapido. Ezio Vendrame, oltre a passare serate in osteria, oltre a scrivere bellissime poesie radunate in tre raccolte (sarà un caso, ma è nato nello stesso paese in cui nacque Pierpaolo Pisolini), oggi allena i ragazzini e non poteva essere altrimenti, perché, come dice lui stesso, "soltanto i giovani potevano ancora tenermi legato a quello che resta di questo scoppiato mondo del calcio perché, a differenza dei grandi, se tu non li freghi, loro non ti fregano mai!".

Un libro strano, ma bellissimo, che vi consigliamo.

Piero Cavallotti