Storia dei mondiali

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Il dopoguerra

SVIZZERA – 1954

Per festeggiare i suoi cinquant’anni, la F.I.F.A. decise di assegnare l’organizzazione dei quinti campionati del mondo di calcio alla Svizzera, nel cuore del vecchio continente, e la differenza tra questi campionati e quelli disputati quattro anni prima in Brasile, fu stridente. Solo in una cosa le due organizzazioni si assomigliarono: nello scovare formule assurde. A dire la verità gli svizzeri, nel tentativo di riuscire a garantirsi il maggior numero di partite, e quindi d’incassi, riuscirono a superare i più fantasiosi brasiliani, e la formula che venne creata fu la più ingiusta, assurda e allucinante mai partorita in 72 anni di campionati del mondo. Vediamo di spiegarla: quattro gironi di quattro squadre ciascuno, e all’interno di ogni girone due squadre teste di serie e due squadre materasso. Le due teste di serie non si sarebbero incontrate tra loro, così come non avrebbero fatto le due squadre materasso. Quindi quattro partite per ogni girone ed eventuali spareggi in caso di classifica a pari merito. Ogni partita poi, in caso di parità, sarebbe andata ai supplementari, e in caso di ulteriore parità ogni squadra avrebbe incassato un punto. Le due qualificate di ogni girone, poi, avrebbero disputato i quarti di finale, ma anche qui con una variante rispetto alla norma. Le quattro prime si sarebbero incontrate tra loro nei quarti e in semifinale, e lo stesso avrebbero fatto le quattro seconde. Una formula del genere (che, come vedremo contribuì non poco a penalizzare l’Ungheria in finale) non riuscì in ogni modo ad abbassare il livello tecnico di una manifestazione che passò alla storia come una delle più interessanti ed appassionanti della storia. Squadre di livello eccelso (Ungheria in primis, ma anche Uruguay e Brasile, anche se nessuna di loro vinse), e campioni grandissimi (Puskas, Schiaffino, Didì, Djalma e Nilton Santos, Mortensen, Matthews, Fritz Walter), diedero vita ai campionati forse più ricchi di gol e di bel gioco. Fra l’altro un ‘intruso’ aveva fatto capolino nella scena calcistica, in occasione di quei campionati: la televisione. Per la prima volta, infatti, le gesta dei campioni protagonisti furono seguite in diretta e in registrata nelle case e nei bar di tutto il mondo. I quinti campionati si aprirono il 16 giugno 1954. I quattro gironi erano così composti (e scriveremo prima le due teste di serie e poi le due squadre materasso): girone 1, Brasile, Francia, Jugoslavia e Messico; girone 2 Ungheria, Turchia, Germania Ovest e Corea del Sud; girone 3 Uruguay, Austria, Cecoslovacchia e Scozia; girone 4 Inghilterra, Italia, Svizzera e Belgio. Per quanto riguarda il girone 2 non avete letto male, né il vostro storico si è sbagliato. Gli organizzatori svizzeri, per dare un po’ di sale ad un girone che sembrava scontato, decisero di affiancare all’Ungheria, come testa di serie, la Turchia (che pure aveva eliminato la Spagna in qualificazione), garantendosi così un cospicuo incasso con Ungheria-Germania Ovest! L’unico girone dove la ‘veggenza’ degli organizzatori ebbe la conferma, con la qualificazione delle teste di serie, fu il terzo: Uruguay ed Austria disposero senza troppi problemi di Cecoslovacchia e Scozia. Nel primo girone, con il Brasile si qualificò la Jugoslavia (che tra le sue file annoverava un portiere, Beara, che nella vita di tutti i giorni faceva il ballerino, oltre alle vecchia conoscenze Boskov e Milutinovic), che batté la Francia; nel secondo, la Germania schierò le riserve nell’incontro con l’Ungheria, perdendo 8-3, ma si qualificò insieme ai magiari battendo la ‘testa di serie’ Turchia prima per 4-1 e poi per 7-2 nello spareggio. E veniamo al gruppo 4, quello dell’Italia. Dopo la fulminea eliminazione subita quattro anni prima in Brasile, il calcio italiano aveva subito un’involuzione, anche a livello dirigenziale. Si pensi che la prima partita giocata da una nazionale dopo i mondiali brasiliani, fu disputata ben dieci mesi dopo la platonica vittoria sul Paraguay. Ci si accorse però che la strada da percorrere era lunga e tortuosa, allorché la squadra azzurra incontrò per due volte l’Ungheria, la prima alle Olimpiadi di Helsinki nel 1952, e la seconda per l’inaugurazione dello stadio olimpico a Roma nel 1953: furono due dolorosi 0-3, che portarono ad un nuovo cambio della guardia ai vertici della squadra con la nomina dell’ungherese Lajos Czeizler (coadiuvato da Schiavio e Piola) quale commissario tecnico della nazionale. C’erano ottimi giocatori in Italia in quegli anni (Boniperti su tutti, ma anche il portiere Grezzi e l’ala Lorenzi), tuttavia il commissario tecnico (che pure aveva vinto il titolo di campione d’Italia con il Milan di Gren, Nordhal e Liedholm) subì in maniera eccessiva le pressioni dei grandi club e della stampa, e si presentò in Svizzera con una squadra senza un gioco preciso, senza idee, e con giocatori spesso schierati fuori ruolo. L’Italia, inserita nel quarto girone, avrebbe dovuto incontrare i padroni di casa svizzeri e il Belgio, due squadra ampiamente alla sua portata. Ma i problemi sorsero fin dal primo incontro. Gli svizzeri, abili esecutori del ‘verrou’ o catenaccio (quattro anni prima erano stati capaci di imporre il pareggio al grande Brasile), imbrigliarono il gioco degli azzurri, con una difesa attenta e a tratti violenta, riuscendo a ripartire per rapidi e pericolosi contropiede. Complice anche l’arbitro brasiliano Viana (le cronache dell’epoca sono concordi nel censurare il suo arbitraggio) la squadra di casa riuscì a superare l’Italia per 2-1. Nella partita successiva gli azzurri riuscirono però a recuperare, e di fronte ad un Belgio esausto, che tre giorni prima aveva imposto un inusuale 4-4 all’Inghilterra ai supplementari, riuscirono a vincere per 4-1. Si dovette pertanto giocare uno spareggio con la Svizzera, che nel frattempo era stata battuta per 2-0 dagli inglesi. Ma qui non ci fu partita. L’Italia venne sconfitta con un inequivocabile 4-1, e per la seconda volta venne eliminata al primo turno, mentre ai quarti furono promosse Inghilterra e Svizzera.

I quarti di finale si aprirono il 26 di giugno, e furono quattro partite appassionanti. L’incontro tra Svizzera ed Austria passò alla storia. 3-0 per gli svizzeri al 23° del primo tempo, 5-3 per gli austriaci al 34°, sempre del primo tempo, 5-4 per l’Austria alla fine dei primi 45 minuti, 7-5 per l’Austria il risultato finale, in una partita che nemmeno Agatha Christie avrebbe potuto rendere tanto appassionante. Intanto a Basilea i campioni del mondo uruguayani battevano l’Inghilterra con il punteggio di 4-2. Il giorno dopo, mentre la Germania Ovest batteva la Jugoslavia senza troppi patemi per 2-0, si svolse un’appassionante partita tra l’Ungheria e il Brasile. I campioni olimpici magiari erano la squadra da battere, in quel periodo. Composta quasi esclusivamente dai campioni della Honved di Budapest, la squadra ungherese contava tra le sue fila autentici campioni: Puskas, Hidegkuti, il portiere Grosics, la punta Kocsis, abilissimo nel gioco di testa, nonostante il suo 1,77 di altezza, il capitano (e deputato al parlamento ungherese) Bozsik, Czibor, Budai. La prima metà degli anni 50 fu caratterizzata dalle gesta di questa nazionale, che tra il 1950 e la finale di quei campionati riuscì a portare a termine 34 partite senza sconfitte, con le perle dei due incontri contro l’Inghilterra, finiti 7-1 a Budapest e 6-3 a Wembley (e quella ungherese fu la prima squadra a violare, e con quel punteggio, il mitico stadio londinese). Destino tragico, quello di quella mitica squadra, che venne travolta dalla rivoluzione del 1956, e che disperse i suoi campioni in giro per l’Europa. Ma anche il Brasile che si era presentato in Svizzera non era male. Ancora sotto choc per la sconfitta di quattro anni prima, i verde-oro schieravano alcuni dei campioni che avrebbero fatto grande la squadra negli anni successivi: i due terzini Djalma e Nilton Santos, Didì, e quello Julinho destinato ad una grande carriera in Italia. Ma la partita che si giocò il 27 giugno a Berna, non fu una partita, fu una battaglia. Colpi proibiti dall’una e dall’altra parte, la furia e l’aggressività dei brasiliani si spense contro l’abilità e la forza dei magiari. 4-2 per l’Ungheria, Brasile ancora una volta eliminato, con violenta rissa finale e sudamericani inviperiti contro l’arbitro inglese Ellis, che venne accusato di avere diretto la partita “al servizio del comunismo internazionale contro la Civiltà Occidentale e Cristiana” (in Brasile era agli sgoccioli la dittatura di Getulio Vargas…).

Si arrivò così alle semifinali. Il tabellone come abbiamo visto, aveva colpito duramente le squadre migliori, costringendole ad affrontarsi tra loro, e la cosa si ripeté nelle semifinali. Mentre infatti la Germania Ovest poteva disporre facilmente dell’Austria, battuta per 6-1 (ma corsero voci di corruzione di alcuni giocatori austriaci), Ungheria ed Uruguay si affrontarono in quella che fu definita la vera finale del torneo. Secondo Gianni Brera, quella che si giocò il 30 giugno allo stadio La Pontaise di Losanna fu la più bella partita mai disputata nella storia del calcio. In un’atmosfera molto più rilassata e cavalleresca di quella della partita contro il Brasile, sotto una pioggia battente, i campioni che militavano nelle due squadre si affrontarono senza esclusioni di colpi. Sotto di due gol a inizio ripresa, i campioni del mondo seppero ‘difendere la sconfitta’, vale a dire mantenere la lucidità e il sangue freddo per recuperare (cosa che era riuscita loro tanto bene al Maracanà quattro anni prima), e prima accorciarono le distanze, poi pareggiarono con una doppietta di Hohberg. E a due minuti dalla fine, un pallone calciato da Schiaffino, destinato ad entrare nella porta ungherese, fu fermato da una pozzanghera. Si andò ai supplementari, e qui l’Ungheria seppe dare la spallata decisiva, con una doppietta di Kocsis, per il 4-2 finale.

Si arrivò così alla finale del 4 luglio. Il giorno prima, a Zurigo, la vittoria di un’Austria tecnicamente inferiore sull’Uruguay per 3-1 aveva dimostrato quanto dura fosse stata la partita tra uruguayani ed ungheresi. Ma in quel pomeriggio nessuno allo stadio Wankdorf di Berna avrebbe scommesso un solo franco su un risultato diverso dalla vittoria ungherese. E invece, come era avvenuto quattro anni prima al Maracanà di Rio, i pronostici furono clamorosamente sovvertiti, e di fronte ad un’Ungheria molto superiore tecnicamente e tatticamente, ma letteralmente esausta, i tedeschi seppero far valere la loro maggiore freschezza atletica e la loro forza (e non solo, visto che pochi giorni dopo quella partita, tutti i componenti della squadra teutonica furono ricoverati in ospedale per epatite virale, dando la stura a voci di doping, peraltro mai confermate, visto che all’epoca l’antidoping non esisteva).

A dire la verità l’inizio dell’incontro sembrava confermare i valori in campo. Puskas al 6° e Czibor all’8° diedero l’illusione che si potesse ripetere l’incontro farsa di qualche giorno prima (quello dell’8-3 per gli ungheresi), ma fu un’illusione brevissima. Morlock al 10° e Rahn al 18° riportarono la sfida in parità. Si andò avanti con azioni da una parte e dall’altra fin quasi alla fine della partita, ma a sei minuti dal termine Rahn portò i tedeschi in vantaggio. Inutili furono gli sforzi degli ungheresi, che segnarono anche con Kocsis un gol annullato per fuorigioco: la Germania Ovest vinse per 3-2, e, contro ogni logica ed ogni pronostico, si laureò campione del mondo.

Le squadre che giocarono quella finale erano destinate però a sparire, anche se per motivi diversi. I tedeschi, dopo essere guariti dall’epatite virale, non seppero più confermarsi ad alti livelli e dei loro nomi ci si dimenticò in fretta. Gli ungheresi, travolti dalla controrivoluzione del 1956, si dispersero per l’Europa (alcuni di loro giocarono anche in altre nazionali, come Puskas, protagonista con la Spagna ai mondiali del 1962 in Cile), e quella meravigliosa squadra, sconfitta prima dalla Germania, fu definitivamente sconfitta dalla crudeltà della storia. 

Il personaggio :

Sandor Kocsis

Speriamo che quel sedativo faccia effetto in fretta, perché non ne posso più. Ho un dolore terribile, mi sembra di avere inghiottito dei chiodi, o del vetro. Non pensavo che si potesse provare un dolore così. Non riesco a muovermi, ma anche stando fermo sento questa specie di trapano che mi ferisce lo stomaco. Vorrei abbandonarmi un po’, lasciarmi andare ai ricordi, ai rimpianti della mia vita, vorrei appoggiare la testa al cuscino, e non fare niente, nemmeno pensare. Sono stanco, sono stanco di tutto, anche della mia stessa vita. Com’è tutto ingiusto… io non ero così, io ero una persona allegra, mi piacevano le ragazze, mi piaceva il vino, magari in compagnia dei miei amici. E soprattutto mi piaceva la vita! Era cominciata bene la mia vita, era stata una bella vita, fino a quel maledetto giorno di luglio. Ecco, la mia vita è stata come una montagna altissima, prima sempre più su, sempre più su, sempre più su. Poi, appena un attimo prima di toccare la vetta, quando ho appena sentito la sensazione inebriante di toccarla, è cominciata la discesa, sempre più rapida, sempre più spaventosa, fino ad arrivare ad ora, in questa calda serata di luglio, in questo ospedale, con questa bestia schifosa che mi sta mangiando lo stomaco. Ecco, per fortuna il sedativo sta facendo effetto. Che bello, posso appoggiarmi al cuscino, chiudo gli occhi, e respiro, lentamente.

La montagna della mia vita. Credo che pochi abbiano avuto la fortuna di vivere i momenti esaltanti che ho vissuto io, ma sono pochi anche quelli che hanno vissuto i miei grandi, devastanti dolori. Io sono stato un grande calciatore. Io sono Sandor Kocsis, sono stato un grande goleador negli anni 50, ed una delle stelle di quella che è stata definita ‘La Squadra d’Oro’ in patria, e ‘La Grande Ungheria’ all’estero. Mi chiamavano ‘Testina d’Oro’, perché nonostante non fossi particolarmente alto, ero fortissimo nel gioco di testa. Dio, che meraviglia quella squadra! Dal 1950 al 1954 non perdemmo neanche una partita. E che incontri memorabili, giocammo! Fummo i primi a vincere a Wembley contro l’Inghilterra, ma più che una vittoria fu un trionfo, 6-3 per noi, con il pubblico inglese che prima ci accolse con gli insulti, e poi ci salutò tra gli applausi. Quei poveri inglesi li maltrattammo anche nell’amichevole che giocammo a Budapest, 7-1 per noi. Vincemmo a Roma contro l’Italia, 3-0, inaugurando lo stadio Olimpico, e vincemmo le Olimpiadi di Helsinki, nel 1952. Quattro anni di trionfi, di splendido gioco, di divertimento. Eh sì, perché noi ci divertivamo, scendendo in campo. A volte, quando giocavo, avevo l’impressione di dipingere una tela, o di suonare uno strumento musicale. E quando tutti e undici scendevamo in campo e cominciavamo a disegnare azioni, avevo l’impressione che più che una squadra di calcio fossimo un’orchestra perfettamente amalgamata, e che più che su un campo di calcio, fossimo in un teatro, con il pubblico che ci ascoltava estasiato. Andavamo d’accordo, tra di noi. In quella squadra c’erano fior di campioni. C’era il colonnello Ferenc Puskas, c’era il deputato Bozsik (solo i regimi comunisti dell’epoca potevano non sentire quanto ridicolo fosse nominare colonnello la mezzala e deputato il capitano della nazionale!), c’era Hidegkuti, Czibor, il portiere Grosics, e c’ero io, Sandor Kocsis, testina d’oro. L’allenatore era Gustav Szebes, una brava persona, oltre che un ottimo allenatore. Un giorno che restammo senza un centravanti di ruolo, ebbe l’intuizione di far giocare con il 9 Hidegkuti, che era un regista, inventando così il centravanti arretrato, e mandando in crisi il centrocampo e le difese avversarie per anni. Erano belli quegli anni. Sì, il regime rompeva non poco i coglioni, ma a noi, i componenti della Grande Ungheria ci portava in palmo di mano. E poi a me la politica non è mai interessata, mi piacevano le ragazze, possibilmente se diverse ogni volta, mi piaceva bere con gli amici, mi piaceva divertirmi con un pallone tra i piedi, mi piaceva saltare ogni volta più in alto, arrivare a colpire il pallone là dove difensori altissimi non sapevano arrivare.

Nel giugno del 1954 si aprirono in Svizzera i campionati del mondo di calcio, i ‘nostri’ campionati. Eravamo noi i più forti, e qualunque risultato diverso dal nostro trionfo sarebbe stato clamoroso. Cominciammo secondo pronostico, rifilando nove gol alla Corea del Sud, poi battemmo per 8 a 3 la Germania Ovest. Sì, è vero, i tedeschi avrebbero passato ugualmente il turno e schierarono le riserve, ma furono sempre otto gol contro tre! Naturalmente ci qualificammo per i quarti di finale, dove affrontammo il Brasile. E qui la cosa diventò meno agevole. I brasiliani erano ancora sotto choc per la sconfitta di quattro anni prima, e ci misero l’anima, e anche qualcosa di più. Insomma, non fu una partita, fu una corrida, una battaglia, una caccia all’uomo. Li battemmo i brasiliani, quattro a due, con due gol miei, ma che fatica! A fine gara scoppiò una rissa gigantesca, con bottigliate, cazzotti, insulti per tutti, ma intanto avevamo vinto. Poi arrivò la semifinale, con i campioni del mondo dell’Uruguay. Qualcuno definì quella partita come la più bella partita mai disputata nella storia, e forse ebbe ragione. Pioveva forte quel giorno a Losanna, ma dagli spalti nessuno se ne accorse, tanto fummo bravi, noi e gli uruguayani. Fu l’esatto contrario della partita giocata col Brasile, fu un incontro corretto, cavalleresco, dal quale, noi e loro, uscimmo abbracciati. All’inizio del secondo tempo eravamo sul due a zero per noi, e sembrava fatta, ma loro riuscirono a pareggiare, e, a due minuti dalla fine, un tiro di Schiaffino che stava entrando in rete, fu fermato da una pozzanghera. Arrivammo ai supplementari, e nel secondo tempo segnai io i due gol che valevano la finale. Eravamo distrutti, le due partite contro Brasile e Uruguay ci avevano letteralmente demolito i muscoli e la mente, ma bastava solo uno sforzo, un piccolissimo sforzo. In finale avremmo incontrato di nuovo la Germania Ovest, via, l’avevamo già umiliata qualche giorno prima, era una squadra priva di campioni, priva di fantasia, che fastidio avrebbe potuto darci! E’ vero, mentre noi spendevamo tutte le nostre energie contro due squadre di altissimo livello come Brasile e Uruguay, loro avevano scherzato contro Jugoslavia e Austria, ma noi eravamo l’Ungheria, la Grande Ungheria, la squadra che non perdeva da più di quattro anni!

Entrammo in campo a Berna, quel maledetto quattro luglio 1954, che eravamo già esausti, aggrappati con i denti ad un briciolo di volontà. E cominciò bene, la nostra partita: dopo otto minuti eravamo già sul 2 a 0 per noi. Ma eravamo stanchi, dio come ricordo ancora perfettamente quella totale, assoluta stanchezza che ci aveva preso. Dopo dieci minuti loro avevano già pareggiato, e fu con il loro pareggio che mi venne da pensare che forse, non ce l’avremmo fatta. Ecco, fu lì che intravidi la vetta della mia montagna, ma fu lì che capii che non l’avrei mai raggiunta, quella vetta. Rahn segnò il 3-2 per loro a sei minuti dalla fine, e non ce la facemmo a pareggiare. Rientrammo negli spogliatoi increduli, ma eravamo talmente stanchi che non riuscimmo nemmeno a piangere. Che atmosfera, in quello spogliatoio. Solo dopo ho capito che tipo di atmosfera fosse: un’atmosfera di morte.

E poi? Poi continuò la discesa sempre più inesorabile dalla mia montagna. Nel 1956 il mio popolo fu violentato dall’invasore. Io non mi ero mai occupato di politica, ma mi piaceva la nuova classe dirigente, meno ingessata, meno stupida dell’altra. Ma è destino che sia la stupidità, ad essere premiata. I sovietici invasero il nostro paese, rimettendo al potere i vecchi dirigenti e distruggendo un popolo, la sua volontà, la sua voglia di riscatto. Noi dell’Honved (la squadra di Budapest che dava quasi tutti i titolari alla nazionale) fummo mandati in tournée in Europa per far vedere che tutto era come prima, che niente era successo. Ma capimmo che era finito tutto, che la bella favola che avevamo cominciato, che era stata interrotta quel 4 luglio 1954, non sarebbe mai arrivata alla fine. Quando ci richiamarono in Ungheria, quasi nessuno rientrò, me compreso. Rimasi in Svizzera, a Berna. Avevo conosciuto il presidente della squadra locale, lo Young Boys, che mi propose di giocare con loro, ma la federazione ungherese non diede il nulla osta. Così mi venne offerto un impiego di rappresentante di elettrodomestici, ma i soldi erano pochi. Riuscii, facendo corrompere le guardie di frontiera, a farmi raggiungere da mia moglie Alice e dalla mia bimba, Agnese. Che anni terribili, quelli. Cominciai a bere di brutto, e una sera toccai il fondo facendomi arrestare a Zurigo per ubriachezza. Non avevo nemmeno i soldi per l’avvocato, e fu un mio amico a prestarmeli. In una sera particolarmente nera, diedi un bacio alla mia bimba, a mia moglie, e inghiottii un intero tubetto di barbiturici. Mi presero per i capelli, e mi salvai. Dopo qualche anno la federazione ungherese diede finalmente il nulla osta, e potei giocare nello Young Boys. Lo feci portando il lutto al braccio per tutto il campionato, in onore del mio popolo offeso. Ma non fui più quello di prima. Se prima il calcio era per me desiderio di divertirmi, voglia di vivere, adesso era solo la possibilità di dare a me e alla mia famiglia un’esistenza almeno degna. Non esultai mai più, né per i gol, né per le vittorie. Mi trasferii a Barcellona, ma la strada che mi allontanava dalla vetta della mia montagna era sempre più ripida, sempre più veloce. Ormai il destino mi aveva battuto e umiliato, più di quanto non fosse mai riuscito a fare alcun difensore. Se sono arrivato fino qui, lo devo soltanto all’amore delle mie donne, di Agnese e di Alice, l’unica, vera grande vittoria della mia vita.

Da qualche settimana ho cominciato a sentire dolori allo stomaco, sempre più forti, sempre più insopportabili. Mi hanno ricoverato in questa clinica, a Barcellona, e hanno cominciato a farmi esami su esami, visite, controlli. Ma non ho bisogno di aspettare gli esiti. So che ho una bestia dentro. Ho sempre avuto una bestia dentro, fin da quel maledetto 4 luglio 1954. Una bestia che prima ha mangiato il mio animo, la mia allegria, la mia voglia di vivere. E che adesso ha cominciato a mangiare la mia carne.

Ecco, l’effetto del sedativo sta scomparendo. Dio, che dolore insopportabile. Mi piacerebbe abbandonarmi, sentirmi stanco, nel corpo e nella mente, come quando rientrai negli spogliatoi di Berna, dopo aver perso con la Germania. Ma non ci riesco.

Mi alzo. Ogni passo che faccio è una pugnalata nello stomaco. Arrivo alla finestra e la apro. Mi investe un vento caldo e umido, si sente anche l’odore del mare. Guardo giù. Non so a che piano sono, ma spero proprio di essere in alto abbastanza.


BRASILE – 1950

I cannoni avevano smesso di tuonare da cinque anni, quando i campionati del mondo di calcio ripresero il loro splendido romanzo, ma l’atmosfera nel mondo era ancora pesante. Non solo per gli strascichi concreti che la guerra aveva lasciato (guerra civile in Grecia e in diversi paesi africani e asiatici dove cominciava la decolonizzazione, la guerra di Corea che cominciò esattamente il giorno dopo l’inizio dei mondiali), ma anche perché le ferite erano ancora aperte, sia quelle visibili, fatte di povertà e distruzioni, sia quelle invisibili, fatte di odi non ancora sopiti. Due anni prima il mondo dello sport aveva ripreso faticosamente a vivere organizzando delle povere Olimpiadi a Londra, Olimpiadi in cui gli atleti erano stati alloggiati in caserme senza riscaldamento, nutriti con ranci militari, in cui le potenze sconfitte, Germania e Giappone non erano state invitate. Per i mondiali del 1950 invece, si scelse un paese che non era stato toccato direttamente dal conflitto bellico, il Brasile, un paese che, arricchitosi velocemente ed artificialmente a seguito della guerra che aveva colpito gli altri, stava scontando questo innaturale arricchimento con una crisi economica pesantissima che aveva da poco riportato al potere il dittatore Getulio Vargas, ma che poi avrebbe determinato il suo nuovo rovesciamento e il suo suicidio. Ma a tutto si pensava, quel 24 giugno 1950, quando la nazionale di casa aprì i mondiali affrontando e demolendo il Messico per 4-0, tranne che alla crisi economica. I brasiliani si organizzarono al meglio, sistemando gli stadi esistenti a Sao Paulo, Recife, Curitiba, Porto Alegre e Belo Horizonte, e costruendo a Rio de Janeiro il più grande stadio del mondo, quello che ufficialmente si chiama ‘Estadio Mario Filho’, ma che tutti conoscono come ‘Maracanà’ (dal nome di un piccolo, coloratissimo pappagallo presente in gran numero nella zona dello stadio). Si inventò una formula (che non fu più replicata in seguito) che evitava le eliminazioni dirette, per garantire il maggior numero di partite (e quindi di incassi): quattro gironi di quattro squadre ciascuno, e le quattro vincenti avrebbero giocato un altro girone all’italiana da cui sarebbe uscita la squadra campione del mondo. Ma soprattutto in una cosa i brasiliani si superarono: nel creare aspettativa, ansia, nel celebrare la loro nazionale, i loro campioni, nel creare un clima di euforia mai visto prima. Purtroppo, però, l’euforia e l’entusiasmo dei padroni di casa, si scontrò contro altri fattori: politici, in primis, che tennero oltre oceano la Germania e tutte le squadre dell’est (con l’eccezione della Jugoslavia, che nel frattempo si era già sganciata dall’influenza sovietica), e che portò alla rinuncia dell’Argentina (in quel periodo si sfiorò la guerra, tra i due giganti del sud america); ma anche e soprattutto fattori economici, che sconsigliarono a paesi ancora provati dallo sforzo bellico di sprecare risorse in quella spedizione. Fu per questo che la Francia, ad esempio, rimase a casa. Le rinunce continuarono anche dopo la definizione dei gironi. Scozia e Turchia, regolarmente qualificatesi, ed inserite nel girone con Uruguay e Bolivia, decisero all’ultimo di dare forfait, così come fece l’India, che era stata inserita nel girone dell’Italia. Buffe le motivazioni: i giocatori indiani, abituati a giocare a piedi nudi, non si sottomisero al diktat della F.I.F.A. che impose loro di giocare con le scarpe. Fatto sta che ai nastri di partenza si presentarono tredici squadre: sei europee, cinque sud americane, e due nord americane. Tante rinunce, è vero, ma anche un gradito ritorno, quello dell’Uruguay, e una novità clamorosa: l’Inghilterra, dopo avere snobbato la manifestazione per tanti anni, si degnava a confrontarsi con le altre squadre (e mal gliene incolse, come vedremo in seguito). I gironi furono i seguenti: nel gruppo 1 i padroni di casa brasiliani, con Messico, Svizzera e Jugoslavia; nel gruppo 2 l’Inghilterra con Spagna, Cile e U.S.A.; nel gruppo 3 l’Italia, dopo il forfait dell’India, si trovò ad affrontare solo Svezia e Paraguay; mentre il gruppo 4, falcidiato dalla rinuncia di Scozia e Turchia, si ritrovò con due sole squadre, Uruguay e Bolivia.  Senza storia l’andamento dei gruppi 1 e 4. Nel primo gruppo il Brasile, a parte un piccolo incidente di percorso rappresentato dal 2-2 contro la Svizzera (all’epoca gli elvetici giocavano un catenaccio e un contropiede a volte micidiali, come si sarebbe accorta l’Italia quattro anni dopo), dispose agevolmente delle altre squadre (4-0 al Messico e 2-0 alla Jugoslavia); ancor più essenziale l’andamento del gruppo 4, ridotto a due sole squadre, dove agli uruguayani fu sufficiente un rotondo 8-0 contro i malcapitati boliviani per accedere al girone finale.  Molto più interessanti invece gli altri due gironi.L’Italia si era presentata a quei campionati del mondo come campione in carica, ma la squadra azzurra era molto diversa da quella di dodici anni prima. Nel dopoguerra Pozzo aveva ripreso la guida della nazionale, ma dopo la sfortunata partecipazione alle Olimpiadi di Londra (sconfitta 5-3 contro la Danimarca al secondo turno) e dopo un’umiliante sconfitta a Torino per 0-4 contro l’Inghilterra, il commissario tecnico più vincente della storia del calcio italiano venne messo da parte (e ricompensato con un piccolo appartamento, come sono cambiati i tempi…). Nuovo commissario della nazionale venne curiosamente nominato il presidente del Torino, Ferruccio Novo. Gli anni del dopoguerra erano stati dominati proprio dalla sua squadra, che vinse uno scudetto dopo l’altro e infilò una strabiliante serie di record, non ultimo quello di arrivare a dare ben dieci giocatori su undici alla nazionale. La favola del grande Torino si interruppe tragicamente il 4 maggio 1949, quando l’aereo che riportava a casa la squadra da una trasferta a Lisbona si schiantò contro la collina di Superga, gettando nello sconforto tutto il paese. Mancava poco più di un anno alla disputa dei mondiali brasiliani, ma quella tragedia segnò la squadra azzurra, sia da un punto di vista pratico, sottraendo una decina di giocatori di livello mondiale, sia psicologico. La squadra che affrontò un lungo viaggio in nave da Napoli a Santos (si preferì un viaggio in nave di quindici giorni al caldo equatoriale, piuttosto che imporre ai giocatori ancora scioccati da Superga un più comodo viaggio aereo) era un insieme di otto squadre diverse, che, anche a causa di una poco accurata preparazione, non era riuscita a raggiungere il sufficiente amalgama. Inoltre la squadra che avrebbe affrontato gli azzurri nella prima e già decisiva partita, la Svezia, era un delle squadre più in forma del momento, già peraltro abbondantemente saccheggiata dai club italiani. Fatto sta che il 26 giugno una Svezia veloce ed essenziale ebbe la meglio sulla squadra italiana per tre a due. E dopo che gli svedesi ebbero pareggiato con il Paraguay per 2-2, quel risultato sancì l’eliminazione immediata degli azzurri, rendendo vana la bella vittoria conseguita, per 2-0, sui paraguayani. Cominciò così, in un fresco pomeriggio dell’inverno brasiliano, quella crisi del calcio italiano che avrebbe caratterizzato tutti gli anni 50 e 60, e che si chiuse solo con la vittoria ai campionati europei del 68 ed il secondo posto a Mexico 70. Ma l’Italia non fu l’unica vittima illustre di quei campionati. Nel gruppo 2 l’Inghilterra sembrava destinata a fare un solo boccone delle tre avversarie, Spagna, Cile ed U.S.A. Ma il 29 giugno arrivò una notizia clamorosa: a Belo Horizonte gli Stati Uniti, un gruppo pieno di italiani, portoghesi, irlandesi, con una punta di origine haitiana, avevano battuto gli inglesi per 1-0. E la partita successiva, in cui la Spagna sconfisse l’Inghilterra sempre per 1-0, sancì la clamorosa eliminazione di quelli che fino ad allora erano ritenuti i maestri del calcio, qualificando gli spagnoli.  Il girone finale da cui sarebbe uscita la vincente dei quarti campionati del mondo di calcio fu così composto dai padroni di casa brasiliani, dall’Uruguay, e da due europee, la Svezia e la Spagna. Fu subito chiaro che la favorita era soltanto una, il Brasile, e i primi turni lo testimoniarono. Mentre la Spagna imponeva il pareggio, per 2-2, all’Uruguay, il Brasile demoliva la Svezia per 7-1; al turno successivo, l’Uruguay faticava a battere gli svedesi per 3-2, dopo essere stato per due volte in svantaggio, mentre il Brasile replicava la goleada del primo turno, battendo 6-1 la Spagna. Insomma, sembrava tutto predestinato. Il 16 luglio 1950 si giocò quello che doveva essere l’ultimo turno del girone finale, ma che di fatto diventò una finalissima. Anomala finché si vuole (visto che il pareggio imposto dalla Spagna all’Uruguay obbligava quest’ultimo a vincere, avendo il pareggio premiato il Brasile), ma sempre finalissima fu. E mentre a San Paolo la Svezia si aggiudicava il terzo posto battendo per 3-1 la Spagna in una delle partite più inutili e meno seguite della storia, un intero paese si preparava a celebrare se stesso e i suoi undici eroi. Il governatore dello stato di Rio inneggiò pubblicamente ai nuovi campioni del mondo, un disco che celebrava il ‘Brasil, campeao do mundo’ venne venduto in migliaia di copie, insomma, mancava soltanto quel piccolo dettaglio rappresentato dall’ultima partita per cominciare i festeggiamenti.  Di fronte ad un Maracanà gremito di 200.000 persone la partita ebbe inizio, e con la partita ebbe luogo forse il più famoso psicodramma collettivo della storia del calcio. Le cronache ci parlano di una partita giocata in maniera furente dai brasiliani, che dimentichi del fatto che anche un pareggio li avrebbe laureati campioni del mondo, aggredirono gli avversari fin dal primo minuto. Nonostante la furia, però, il primo tempo si chiuse sullo 0-0, ed anzi, fu proprio l’Uruguay a sfiorare il gol con una traversa colpita da Mìguez. Ma al primo minuto del secondo tempo ci fu l’apoteosi: gol del Brasile, marcatore Friaça. Il Maracanà, e con lui tutto il Brasile, esplose. Si trattava a quel punto di controllare il risultato, di aspettare la fine per le feste finali. Ma non fu così. In una sorta di delirio collettivo gli undici giocatori in campo e i 200.000 sugli spalti continuarono quella guerra, aggredendo gli avversari, con lo scopo di annientarli completamente. Ma fu qui che si vide che quell’Uruguay nulla aveva da invidiare alla squadra che vent’anni prima aveva vinto i primi mondiali della storia. Un grande portiere, Maspoli, un vero leader in campo e fuori, il leggendario Obdulio Varela, un’ala destra di talento, Ghiggia, e una stella di centrocampo, Juan Alberto Schiaffino, destinato ad una luminosa carriera in Italia (addirittura Ghiggia e Schiaffino giocarono anche nella nazionale italiana dopo qualche anno, in virtù del loro status di oriundi). Fatto sta che gli uomini della Celeste non si scomposero, e prima pareggiarono con Schiaffino, e quindi, a dieci minuti dal termine, passarono in vantaggio con Ghiggia.

La partita finì 2-1 per l’Uruguay, che si laureò campione del mondo per la seconda volta, mentre il Brasile precipitava nel dramma. Nessuno ebbe la forza di andarsene dal Maracanà per parecchio tempo, e se ne restarono lì, in un surreale silenzio, in 200.000. Nel resto del paese ci furono più di 120 morti, a causa di incidenti, liti o suicidi, migliaia di feriti, e anche un componente della squadra brasiliana, il difensore Danilo, fu salvato all’ultimo momento da un tentativo di suicidio. Un’altra vittima fu la divisa della squadra, fino ad allora bianca, che venne scaramanticamente messa da parte per essere sostituita da quella verde-oro che conosciamo. E da allora i brasiliani, quando dovettero cambiare la loro divisa per non confondersi con gli avversari, non utilizzarono mai più la divisa bianca.

Il personaggio :

Obdulio Varela

 

Io ho sempre preteso il rispetto da parte dei miei avversari, perché sono stato sempre il primo a rispettare loro. E la prima forma di rispetto, la più importante, è non avere paura di loro. Sì, ne sono fermamente convinto: se hai paura del tuo avversario gli manchi di rispetto. Ecco perché io, Obdulio Varela, capitano della nazionale dell’Uruguay che sta disputando la finale dei mondiali contro il Brasile, qui al Maracanà, sto facendo quello che sto facendo. E’ cominciato da poco il secondo tempo, e il Brasile ha appena segnato. Più che in uno stadio mi sembra di stare in una bolgia. E allora con la massima calma vado in fondo alla nostra porta, urlo a Maspoli, il nostro portiere, di alzarsi, prendo il pallone, e con la massima lentezza vado a centro campo. Per la prima volta da quando è cominciata la partita guardo il pubblico. Ai miei compagni avevo detto di non guardare sugli spalti, che la partita si giocava qui, sul prato, ma adesso è giunto il momento. Mentre avanzo lentissimo guardo il pubblico, potrei dire che li sfido, spettatore per spettatore; forse non guardo tutte le 200.000 facce che mi insultano, che mi urlano di muovermi, ma poco ci manca. Io non ho paura di voi. Anche perché adesso ho la certezza assoluta che nonostante il gol preso, nonostante l’entusiasmo, be’, sono sicuro che questa partita la vinceremo noi. Arrivo a metà campo, l’arbitro non sa con che faccia guardarmi, crede che sia pronto a riprendere, ma si sbaglia.

“Signor Reader, il gol era in fuorigioco!”

Lo urlo nello spagnolo più incomprensibile, nel caso in cui lui lo mastichi un po’. Non lo mastica. Mi porta a bordo campo per parlare con l’interprete. Non vi dico il pubblico, potrei scrivere un’enciclopedia degli insulti portoghesi, con quello che mi dicono, prendo anche uno sputo da un avversario, ma non me ne frega niente. Mi rivolgo all’interprete:

“Digli che il gol è irregolare, che era in fuorigioco di un metro!”

L’interprete invece che all’arbitro risponde a me:

“Obdulio, è forse impazzito?!”

“No, sono sano. Digli che il gol era irregolare, che il guardalinee ha anche alzato la bandierina! Avanti, diglielo!”

Reader sta perdendo un po’ della sua flemma inglese, e quando l’interprete gli traduce le mie parole si inalbera del tutto. Comincia ad urlare cose incomprensibili che l’interprete prova a tradurre:

“Sta dicendo che…” ma lo interrompo perché ho deciso che la farsa è finita:

“Sì, sì, lo so che cosa sta dicendo. Torniamo a giocare, che abbiamo perso anche troppo tempo!” e torno a centrocampo, lasciando ad arbitro ed interprete la convinzione di avere a che fare con un pazzo. Appoggio delicatamente la palla per terra e mi tiro su: li guardo di nuovo tutti, pubblico e avversari, guardo le loro facce e la loro rabbia. Non vi temo, anche perché noi vinceremo questa partita. Perché siete voi, adesso, ad avere paura della nostra sicurezza, della nostra voglia di vincere, del nostro cervello. Ecco perché ho fatto questa commedia. Siete voi adesso ad avere paura. Io non ho mai avuto paura degli avversari. Rispetto sì, paura mai. Ho 33 anni, gioco da 15, ho giocato su campi infuocati, senza recinzione, senza polizia, ho subito di tutto, ma non ho mai avuto paura. E’ quello che ho urlato a quello stronzo di dirigente prima della partita. Eravamo ancora nello spogliatoio e sento un dirigente che prende da parte Mìguez, il nostro centravanti, e gli dice di stare tranquillo, che anche se avessimo perso con quattro gol di scarto non sarebbe successo niente. Non ci ho più visto:

“Che cazzo sta dicendo, eh? Lei sarebbe contento se perdessimo con quattro gol di scarto?! Ma non si vergogna?! Statemi bene a sentire” ho detto rivolto ai compagni “io se vado in campo ci vado per vincere, è chiaro? Io quando sono in campo per vincere picchierei anche mia madre, se me lo impedisse! E oggi questa partita la vinciamo, perché loro giocano solo con i piedi, noi invece abbiamo il cervello, il cervello! Se giocassimo in spiaggia, forse, qualche probabilità di vittoria l’avrebbero, ma qui, in campo, no! E adesso andiamo a fargli rimangiare la loro sicurezza!”

E’ stato bellissimo, mentre parlavo, vedere i miei compagni, specie i più giovani, che cambiavano espressione, vedere sui loro volti aumentare la sicurezza, la consapevolezza di potercela fare. E mentre stavamo uscendo, ho messo la ciliegina sulla torta:

”Ah, a proposito, se oggi qualcuno non sputa sangue, l’attacco al muro!”

E mi sono preso anche la soddisfazione di guardare in faccia quel dirigente, con tutto il disprezzo e l’odio che potevo mettere nello sguardo. Li ho sempre odiati i dirigenti, ne avessi trovato uno, in tutta la mia carriera, che non si meritasse uno sputo in faccia. Sono delle sanguisughe, gentaglia che si approfitta di noi, del nostro sudore, delle nostre gambe spezzate, e non danno niente in cambio. Così come i giornalisti, che sono i loro servi. Due anni fa organizzai uno sciopero di calciatori, e apriti cielo! Mi scrissero contro di tutto: per fortuna avevo già una certa fama, e godevo del rispetto e della stima dei compagni, avversari e tifosi, se no non sarei qui, ora, con la fascia di capitano della nazionale. E’ da allora che non compaio più in nessuna foto ufficiale. Avete presente quelle foto prepartita, in cui ci sono cinque giocatori inginocchiati e sei in piedi dietro di loro? Io non ci sono mai e se per caso ci sono guardo da un’altra parte, mi giro a destra e a sinistra, osservo il cielo… Al ‘loro’ gioco, io non gioco.

Non sono certo io il più bravo in questa squadra, ma di certo sono il più rispettato, forse anche più dell’allenatore. Quando ad inizio partita Zizinho ha saltato Gambetta, facendogli fare la figura del coglione, mi sono avvicinato a Gambetta, e gli ho sibilato che se avesse subito un’altra umiliazione del genere non avrebbe più dovuto passarmi davanti. Azione successiva: Zizinho arriva in velocità, tenta di superare Gambetta in maniera uguale a prima, ma questi gli fa un’entrata da codice penale, scaraventandolo oltre i cartelloni pubblicitari. L’arbitro ammonisce Gambetta tra le urla assordanti del pubblico, Gambetta si scusa con lui e va ad aiutare Zizinho ad alzarsi. La faccia, contrita e preoccupata, è di chi chiede scusa, ma le parole sono:

“Questo è solo l’inizio, bastardo: alla prossima ti ammazzo”

Quando ha visto che avevo assistito a tutta la scena, Gambetta mi ha sorriso, e anch’io ho sorriso a lui. Sarà un caso, ma Zizinho non ha più toccato un pallone.

Ecco, il momento arriva. Vedo Schiaffino che ruba un pallone sulla loro trequarti, supera un uomo, entra in area e segna. Lo sapevo, come so che questo è solo l’inizio. Bravo ragazzo, Juan Alberto, gran calciatore. Sono certo che diventerà un grande campione. E’ un po’ pauroso, ma è un grande. Ha fatto un primo tempo indecoroso, giochicchiando senza senso, senza prendersi una responsabilità. Quando siamo rientrati negli spogliatoi l’ho preso per la maglietta, l’ho sbattuto contro il muro e gli ho urlato che se voleva fare il modello aveva sbagliato mestiere, che per essere un grande calciatore bisogna avere i coglioni, non essere un coniglio pavido e codardo. Mi ha guardato con gli occhi spaventati e mi ha sussurrato un

“Hai ragione, Obdulio, scusami”

“No, non è con me che ti devi scusare!”

“Hai ragione, Obdulio: scusatemi, ragazzi”.

Rientrato in campo, il buon Schiaffino ha commesso tre falli da espulsione, ha provocato una rissa , ha fatto due o tre passaggi da favola, costruito un’azione da gol e realizzato la rete del pareggio. E’ così che mi piace.

E alla nostra rete del pareggio loro hanno reagito come mi aspettavo, nella maniera meno intelligente possibile. ‘Loro’ sono il pubblico e i calciatori brasiliani. E’ come se con il nostro gol li avessimo offesi. Si sono dimenticati che con il pareggio vincerebbero lo stesso la coppa: no, vogliono umiliarci, metterci sotto i loro piedi. Poveretti, poveri calciatori senza cervello. Litigano tra loro ad ogni passaggio sbagliato, urlano, corrono e sprecano energie senza costrutto. Si stanno mettendo in trappola da soli. E infatti riesco a lanciare sulla destra Ghiggia, che supera un uomo ed entra in area; va quasi sul fondo e fa partire un tiro improvviso che si infila tra Barbosa, il portiere brasiliano, e il palo. Due a uno per noi. Mancano dieci minuti, ma ormai la vittoria è nostra. Loro sembrano impazziti, e sono preda di quella pazzia che solo la paura può dare. E quando l’arbitro fischia la fine, gli undici brasiliani in campo e i 200.000 in tribuna si svuotano come sacchi. Dio, che silenzio! Voi avete mai sentito un silenzio di 200.000 persone? E’ una delle cose più impressionanti che abbia mai visto. Nessuno esce dal campo, nessuno se ne va dagli spalti. Restano tutti impietriti, l’unico movimento lo fanno le lacrime che rigano le guance di tanti.

Mi sento battere sulla spalla. E’ Jules Rimet che deve consegnarmi la coppa. E’ quasi imbarazzato, così come sono imbarazzato io.

“Monsieur Varela, ho l’onore di consegnarle la coppa. Complimenti”

Mi dà la coppa, mi stringe la mano e ci sorridiamo. I ragazzi sono intorno a me. Non esultano, non ridono. Sembrano quasi increduli. Li guardo uno ad uno.

“Be’, ragazzi, sembra che siamo campioni del mondo!”

E solo adesso si sciolgono, parte qualche pacca sulle spalle, qualche battuta di gioia a mezza voce. Ma tutto con pudore, senza disturbare. Sono bravi questi ragazzi, hanno imparato il rispetto. Hanno rispettato i brasiliani perché non hanno avuto paura di loro, e li rispettano ora non sbattendo loro in faccia la nostra gioia e la nostra soddisfazione. Ho insegnato qualcosa a questi ragazzi e anche questa è un’altra grande vittoria.


Gli inizi

Uruguay 1930

Si deve alla tenacia e alla testardaggine di un piccolo francese, se ogni quattro anni miliardi di persone in tutto il mondo abbandonano qualsiasi cosa per dedicare la propria attenzione a delle partite di calcio. Durante gli anni venti l’allora presidente della F.I.F.A. (Fédération International Football Amateur, all’epoca era il francese la lingua internazionale), Jules Rimet, dedicò i propri sforzi e le proprie energie per creare un campionato mondiale di calcio per nazioni. Dovette però scontrarsi con molte resistenze, in primis quella del Comitato Olimpico internazionale, che non voleva sottrarre interesse alla manifestazione calcistica delle Olimpiadi. Altre resistenze vennero offerte dal sostanziale disinteresse con cui tale iniziativa fu accolta, soprattutto in Europa. Quando poi l’organizzazione del mondiale venne affidata all’Uruguay, sorsero altri problemi: all’epoca il calcio era praticato quasi esclusivamente da dilettanti, e per i calciatori di qualsiasi nazionale europea, lasciare il proprio lavoro per più di un mese avrebbe rappresentato un problema insormontabile.  Solo di fronte alla minaccia fatta dalle nazioni sudamericane di abbandonare la F.I.F.A. quattro nazionali europee accettarono di partecipare: la Francia, grazie ai buoni uffici di Rimet, il Belgio e la Jugoslavia. La quarta fu la Romania, solo perché l’allora re rumeno Carol, grande appassionato di calcio, intervenne personalmente presso i datori di lavoro, con lusinghe e minacce, per ‘liberare’ i singoli calciatori. L’Uruguay nel 1930 festeggiava il centenario della propria indipendenza, e volle fare le cose in grande, innanzi tutto costruendo un grande stadio, denominato, appunto, El Centenario. Strano paese, l’Uruguay, a più riprese nella storia denominato la Svizzera del sudamerica. Da qualche anno, con l’avvento delle celle frigorifere che consentivano di esportare la carne in tutto il mondo, il paese era andato incontro ad un vero boom economico che però si stava traducendo in un indebitamento in puro stile sudamericano. Il calcio era diventato religione nazionale già da diversi anni, dopo che i marinai e i macellai inglesi avevano diffuso il verbo all’inizio del secolo. Gli anni venti a livello mondiale erano stati dominati dalla ‘Celeste’ (la nazionale uruguayana) che aveva stupito il mondo vincendo sia alle Olimpiadi di Parigi del 1924, sia a quelle di Amsterdam del 1928. A seguito di questi trionfi gli Uruguayani avevano coniato uno slogan assai indicativo: Si Inglaterra es la madre del futbol, Uruguay es el padre! Tredici nazioni parteciparono ai primi campionati del mondo di calcio, sette sudamericane, quattro europee, e una nordamericana. Le squadre vennero divise in un gruppo di quattro e tre gruppi di tre; le vincenti di ogni gruppo avrebbero disputato le semifinali. Le gare si svolsero tutte nei tre stadi di Montevideo, l’unica vera città del paese. Per la cronaca, la prima partita dei campionati del mondo di calcio si svolse il 13 luglio del 1930, nello stadio Pocitos, e vide di fronte Francia e Messico. Vinsero i francesi, 4-1, di fronte a circa 500 spettatori… In tutti i campionati non ci fu un solo pareggio. Il gruppo 1 fu vinto dall’Argentina, su Cile, Francia e Messico; il gruppo 2 dalla Jugoslavia, su Brasile e Bolivia; il gruppo 3 dai padroni di casa, che regolarono Perù e Romania; infine il gruppo 4 dagli U.S.A., che s’imposero su Paraguay e Belgio. Senza storia le semifinali, in cui Argentina e Uruguay seppellirono con l’identico punteggio di 6-1 rispettivamente U.S.A. e Jugoslavia. La finale, che venne disputata il 30 luglio 1930 nello stadio Centenario di Montevideo, fu uno dei primi grandi eventi sportivi del ventesimo secolo. Fortissime rivalità extra sportive si sovrapposero a quelle calcistiche. Per rendere un’idea della situazione, basti sapere che l’arbitro designato per dirigere la finale, il belga John Langenus, accettò l’incarico solo dopo aver stipulato un’assicurazione sulla vita. Entrando allo stadio anche l’arbitro venne perquisito. Di fronte alle sue rimostranze, il poliziotto gli disse che era la ventesima persona che si era presentata con valigetta e divisa, sostenendo di essere l’arbitro. Al cospetto di 90.000 spettatori, i giocatori delle due squadre cominciarono a litigare prima ancora di dare il calcio d’inizio. Le due squadre volevano giocare con il loro pallone (più leggero quello argentino, quindi più adatto alle finezze tecniche, più pesante quello uruguayano, più adatto ad un gioco atletico). Decise salomonicamente Langenus, facendo giocare il primo tempo con il pallone argentino, ed il secondo tempo con quello uruguayano. Fu una finale equilibrata e, almeno a giudicare dall’alternanza dei gol, appassionante. Passarono in vantaggio gli uruguagi con Dorado, ribaltarono il risultato gli argentini con Peucelle e Stabile. Nel secondo tempo, però, gli uruguayani dilagarono. Prima pareggiarono con Cea, poi segnarono con Iriarte e Castro (detto El Monco, perché privo di una mano), regalando così alla ‘Celeste’ il primo titolo di campioni del mondo. Montevideo e tutto l’Uruguay impazzirono di gioia, mentre dall’altra parte del Rio della Plata non la presero molto bene: l’ambasciata uruguayana di Buenos Aires fu assaltata, due persone morirono negli scontri e le relazioni diplomatiche tra i due paesi furono interrotte. In Europa l’avvenimento venne snobbato. In Italia i giornali sportivi relegarono la notizia della finale in poche righe tra una gara di ginnastica e una corsa di cavalli. Ma è questione di tempo; presto anche da noi i campionati del mondo avrebbero catturato l’attenzione di tutti.


Italia 1934

Se i campionati del 1930 avevano avuto una caratteristica soprattutto sudamericana, a causa del poco interesse suscitato in Europa dall’evento, così i campionati del 1934 furono invece dei campionati ‘europei’. L’Uruguay, campione in carica decise di non partecipare in segno di protesta per il disinteresse di quattro anni prima (e questa fu l’unica volta in cui una squadra campione in carica non difese il titolo), Argentina e Brasile mandarono due squadre assolutamente non competitive che furono eliminate al primo turno, gli U.S.A. dopo l’exploit del 1930 (3° posto) rientrarono subito nell’anonimato calcistico da cui non sono mai usciti. Ci fu anche la prima partecipazione africana, l’Egitto, ma durò lo spazio di una partita, quella persa contro l’Ungheria. L’organizzazione dei mondiali fu affidata, dopo la rinuncia della Svezia, all’Italia di Mussolini, e, forse per la prima volta nella storia dello sport moderno, un evento sportivo di portata mondiale fu massicciamente utilizzato dal potere politico per creare e utilizzare consenso, sia in patria, sia all’estero.  Non lasciò nulla d’intentato, il regime. Defenestrato un anno prima il ras bolognese Leandro Arpinati dalla presidenza della Federcalcio, affidata l’organizzazione al generale Vaccaro e al dirigente industriale ing. Barassi (involontaria sintesi di quello che era diventato il regime fascista a livello sociale), non si lesinarono sforzi e risorse per fare le cose in grande. Approntati e perfettamente preparati otto stadi in otto diverse città, l’organizzazione fu suddivisa in sei uffici che si occuparono di tutti gli aspetti, da quello tecnico a quello amministrativo, dalla stampa alla propaganda, ai ricevimenti ufficiali, ai viaggi e agli alloggi. Il comitato organizzatore s’installò in un lussuoso albergo di via Veneto, mentre furono impartiti precisi e severi ordini agli organi di stampa su quello che si poteva e non si poteva scrivere e dire. Eh sì, perché quelli del 1934 furono anche i primi mondiali raccontati per radio in diretta, dalla mitica voce di Niccolò Carosio. Fatto sta che la grancassa del regime cominciò a battere a pieno ritmo, in un’orgia di fasci, palloni e retorica, in cui gli azzurri erano sempre ‘valorosi e legati all’amor di bandiera’, ‘animati dalla presenza del duce’, gli avversari sempre ‘pugnaci, irriducibili e cavallereschi’ finché perdevano senza problemi, salvo poi diventare emuli di King Kong (il film era uscito da poco) se assumevano le sembianze del mitico Zamora. Questo a livello ufficiale, ma sembra certo che il regime abbia lavorato bene anche a livello ‘ufficioso’. Già, perché a leggere le cronache dei giornali stranieri viene il sospetto che la vittoria italiana a questi mondiali sia stata uno dei primi e tantissimi grandi furti commessi nello sport. Arbitri accusati di corruzione, altri sospesi dalle proprie federazioni (lo svizzero Mercet, direttore della ripetizione tra Italia e Spagna), insomma fuori dei confini nazionali si diffuse qualcosa di più di un sospetto, circa autorevoli interventi a livello politico affinché quei mondiali avessero un vincitore ben preciso. Sedici squadre alla partenza, il 27 maggio 1934, in una formula ad eliminazione diretta fin dalla prima fase, con ottavi, quarti, semifinale e finale. Due le assenze pesanti: il già citato Uruguay, e l’Inghilterra. Curioso atteggiamento quello degli inglesi: ritenendosi, oltre che gli inventori, anche i depositari dell’arte calcistica, non si abbassavano a partecipare ai campionati, limitandosi ad affrontare i vincitori dopo qualche mese in casa propria. Uruguay ed Inghilterra a parte, all’epoca la culla del calcio era nell’Europa centrale: Austria, Ungheria, Cecoslovacchia e Italia. La Mitropa Cup, competizione per squadre di club riservata appunto a squadre di queste nazioni, era una vera e propria coppa dei campioni dell’epoca (e fu vinta anche da un Bologna ai vertici europei, in quegli anni). Fatto sta che la classifica finale vide ai primi quattro posti tre di queste squadre. La squadra italiana era costruita sull’ossatura della Juventus, che in quegli anni vinse cinque scudetti consecutivi, e diretta da un alpino piemontese, Vittorio Pozzo, classico esempio di guida ‘severa ma giusta’ (in un ritiro che assomigliava di più ad una caserma non esitò a portare tutta la squadra in una casa di tolleranza). Classica tattica difensiva, all’italiana, con una difesa a cinque imperniata intorno al mitico libero Luisito Monti, oriundo argentino sconfitto quattro anni prima a Montevideo nella nazionale biancoceleste, due ali veloci abilissime nel contropiede e un artista del centrocampo, Peppino Meazza, forse il primo grande campione prodotto dal calcio italiano. Era anche una squadra piena di oriundi argentini e brasiliani, cosa che all’epoca suscitò polemiche, anche perché molti di quegli oriundi avevano militato in altre squadre nazionali. Gli ottavi servirono ad eliminare le quattro squadre extraeuropee presenti (Brasile, eliminato 3-1 dalla Spagna, Argentina, 3-2 dalla Svezia, Egitto, 4-2 dall’Ungheria, e U.S.A., 7-1 dall’Italia). Passarono il turno anche l’Austria (3-2 alla Francia), la Svizzera (3-2 all’Olanda), la Germania (5-2 al Belgio) e la Cecoslovacchia (2-1 alla Romania). Fu con i quarti di finale, che cominciarono i fuochi d’artificio. Dopo una lotta tremenda, a Bologna l’Austria eliminò 2-1 l’Ungheria; la Germania ebbe ragione della Svezia, 2-1, e la Cecoslovacchia eliminò per 3-2 la Svizzera.  Ma alla storia del calcio passò il confronto tra Italia e Spagna. Gli spagnoli (che all’epoca cominciarono ad auto definirsi ‘Las Furias Rojas’), erano un’ottima squadra, capitanata da un’autentica leggenda dell’epoca, il portiere Zamora. Pioveva forte, quel 31 maggio a Firenze, e le cronache parlano di una partita durissima. Passarono in vantaggio gli iberici a metà del primo tempo con Regueiro, e gli attacchi azzurri si spensero contro la diga eretta da Zamora, un portiere considerato imbattibile, con due mani enormi, forti come tenaglie. Fu solo alla fine del primo tempo che l’italiano Ferrari, approfittando di un fallo di Meazza su Zamora (almeno questo raccontano le cronache), riuscì a pareggiare. Nel secondo tempo e nei supplementari ci fu solo una grande, lunga rissa, che trasformò gli spogliatoi in infermerie. Non erano contemplati i calci di rigore, all’epoca. Si ripeté pertanto la partita, il giorno dopo. La Spagna non schierò Zamora, e su questo si accesero sospetti ed illazioni: chi parlò d’infortunio, chi d’interventi politici, chi, e questa sembra l’ipotesi più plausibile, di una protesta dello stesso Zamora. Fu ancora una battaglia: le due squadre, imbottite di riserve, continuarono la lotta del giorno prima, e fu decisivo un gol di Meazza ad inizio partita.  Le semifinali si giocarono il 3 giugno. Mentre la Cecoslovacchia regolò senza problemi la Germania per 3-1, l’Italia affrontò un’altra dura battaglia contro l’Austria, il ‘Wuderteam’ che solo pochi mesi prima aveva vinto 4-2 a Torino. Gli austriaci, guidati da un famoso ed autorevole allenatore, Hugo Meisl, schieravano due grandi campioni, il portiere Platzer e il centravanti Sindelar, detto ‘Cartavelina’ per l’agilità, e anche il ‘Mozart del Pallone’, destinato ad una fine atroce quando, di lì a cinque anni, preferì togliersi la vita, lui ebreo, di fronte all’inizio delle persecuzioni antiebraiche (è sepolto al Prater di Vienna, in una tomba di marmo in cui è incisa la sua firma e scolpita la figura di un calciatore con la maglia della nazionale austriaca). Ci fu il record d’incasso, quel giorno allo stadio di Milano, con ben 812.000 lire, che all’epoca fece scalpore, e 50.000 spettatori. In un’azione confusa (e, a giudizio di qualcuno, con fallo sul portiere) Guaita portò in vantaggio l’Italia dopo una ventina di minuti, e da quel momento l’Italia giocò “all’italiana”: solida difesa in cui Monti utilizzò il lecito e l’illecito per annullare Sindelar, rapidi contropiede, grandi parate del portiere azzurro Combi. Il gol di Guaita fu l’unico, quel giorno, e portò l’Italia in finale. Roma, stadio nazionale del partito fascista, 10 giugno 1934, si giocò la finale dei secondi campionati mondiali di calcio, di fronte i padroni di casa dell’Italia e la Cecoslovacchia. Mussolini, dopo aver regolarmente pagato il biglietto alla presenza di un buon numero di giornalisti, in mezzo a tutti i suoi gerarchi, si accomodò in tribuna d’onore al fianco di Jules Rimet, dando prova di scarse conoscenze calcistiche (“Come politico non lo giudico” affermò Rimet, “ma come esperto di calcio non vale niente”). Agli ordini dell’arbitro svedese Eklind gli azzurri affrontarono i cecoslovacchi, tipici esponenti del calcio danubiano allora sugli allori. Un portiere famoso, Plànicka, due ottimi centrocampisti, Svoboda e Nejedly, e un’ala di valore, Puc, costituivano l’ossatura di una formazione che alla vigilia era data per favorita. La partita fu dura ed equilibrata, tanto che per tre quarti si trascinò sullo zero a zero. Si sbloccò al 70°, quando Puc con un tiro da fuori beffò un incerto Combi. L’Italia sotto choc rischiò di capitolare sei minuti dopo, quando Sobotka colpì il palo con un tiro da fuori. Dal potenziale 0-2 si passò al pareggio: Orsi con un gran tiro al volo a dieci minuti dal termine fissò il punteggio sull’1-1. Nei supplementari le due squadre esauste tentarono il tutto per tutto, e fu il giocatore più stanco in assoluto, Angiolino Schiavo, un lecchese da tempo trapiantato a Bologna, e che diventò una delle bandiere della squadra rossoblu, a segnare il gol della vittoria, con un tiro che colpì l’interno del palo e superò Plànicka. Fu la vittoria della squadra azzurra. I giocatori furono premiati con una foto autografa del duce, ventimila lire a testa, un appartamento e una Balilla, il tutto niente male per quei tempi.


Francia 1938

C’era aria di guerra, quel 5 giugno 1938, quando Svizzera e Germania diedero il calcio d’inizio ai terzi campionati mondiali di calcio, al Parco dei Principi di Parigi. Jules Rimet era riuscito a far organizzare al suo paese quei campionati (suscitando le ire della federazione argentina, che si rifiutò di partecipare), e fu un’organizzazione, come quella di quattro anni prima in Italia, davvero perfetta, che permise un guadagno netto di oltre un milione di franchi dell’epoca, un’enormità. Campionati sempre più europei: dodici squadre del vecchio continente, una sudamericana, il Brasile, una centro americana, Cuba, ed una asiatica, quelle che allora si chiamavano Indie Olandesi e che divennero Indonesia con la decolonizzazione. Tuttavia le assenze erano quasi più pesanti delle presenze. L’Uruguay continuava la protesta contro l’Europa che aveva snobbato i mondiali di otto anni prima (ma il paese, già in preda ad una grave crisi economica, difficilmente avrebbe potuto sobbarcarsi l’onere di una spedizione oltre oceano), l’Argentina come abbiamo visto volle protestare contro la mancata attribuzione dell’organizzazione di quei mondiali, mentre l’Inghilterra continuò il suo splendido isolamento. Ma c’erano assenze ben più laceranti, in primis quella della Spagna, splendida protagonista quattro anni prima in Italia, ma da quasi due anni lacerata da una tremenda guerra civile che avrebbe causato la morte di circa un milione di persone. Infine, quando il tabellone era già stato compilato, l’Austria, altra grande protagonista dei mondiali italiani, comunicò di non esistere più come federazione autonoma, visto che poche settimane prima si era verificato l’Anschluss, l’annessione della repubblica austriaca al terzo Reich tedesco.

L’Italia affrontò quei campionati con i favori del pronostico, insieme al Brasile, che presentava una squadra finalmente competitiva, ed ai padroni di casa della Francia. Anche la Germania, che aveva incorporato nelle sue fila numerosi campioni del Wunderteam austriaco, sembrava in grado di poter recitare un ruolo di protagonista, ma, come vedremo, si rivelò un fuoco di paglia. Gli azzurri si erano ampiamente rinnovati rispetto a quattro anni prima (solo Meazza, Monzeglio e Ferrari erano stati riconvocati da Pozzo), e nel 1936, con una squadra sperimentale avevano vinto le Olimpiadi di Berlino. Ma c’era un’incognita: mentre in Italia quattro anni prima avevano potuto godere del fattore ambientale, questa volta era proprio l’ambiente a creare i maggiori problemi. L’Italia godeva di pessima stampa a livello politico in Francia, ed inoltre tutte le partite degli azzurri vennero seguite da diverse migliaia di fuoriusciti antifascisti che non lesinarono mai insulti ed urla (solo a Marsiglia, nella gara inaugurale contro la Norvegia se ne contarono circa diecimila). Anche le dichiarazioni che avevano accompagnato il viaggio in treno da Torino a Marsiglia degli azzurri, fatte da Mussolini (“In Spagna, Italia e Francia stanno su due opposte barricate”, insieme allo slogan non proprio diplomatico: “E se la Francia fa la troia, Nizza e Savoia!”), non contribuirono a rasserenare il clima.

Sedici squadre alla partenza, si diceva, poi ridottesi a quindici per il forfait dell’Austria. Formula uguale a quella di quattro anni prima, con ottavi, quarti, semifinale e finale. Il primo turno vide la Svizzera superare la Germania (con sorpresa di molti: i tedeschi, dicevamo, avevano diversi giocatori provenienti dalla nazionale austriaca allora ai vertici) al termine di due accese partite (1-1 la prima, e 4-2 per gli elvetici la ripetizione); un’altra sorpresa si verificò nel confronto tra Cuba e Romania: dopo avere pareggiato il primo incontro per 3-3, i cubani superarono i romeni per 2-1 nella ripetizione. Più regolari gli altri incontri: l’Ungheria dispose agevolmente delle Indie olandesi per 6-0, la Cecoslovacchia batté 3-0 l’Olanda (ma solo con tre gol nei tempi supplementari), la Francia superò il Belgio 3-1, e il Brasile ebbe la meglio sulla Polonia al termine di un incontro che si può eufemisticamente definire rocambolesco: 6-5 per i sudamericani al termine dei tempi supplementari. La Svezia venne promossa direttamente ai quarti per il forfait dell’Austria, mentre l’Italia ebbe la meglio solo per 2-1, e solo ai supplementari, di una Norvegia sulla carta considerata di gran lunga inferiore. I quarti di finale videro la Svezia superare senza problemi Cuba per 8-0, e l’Ungheria battere la Svizzera per 2-0. Più duro il compito dei brasiliani che ebbero la meglio sui vice campioni del mondo cecoslovacchi solo al termine di due partite: 1-1 la prima, 2-1 per i verde-oro la seconda. Ma l’attenzione di tutti si riversò sulla partita che si disputò allo stadio parigino di Colombes il 12 giugno. Di fronte i padroni di casa francesi e i campioni del mondo in carica italiani, in un incontro i cui risvolti andavano ben oltre il semplice ambito calcistico. Le cronache ci raccontano che praticamente, però, non ci fu partita. Dopo un primo tempo equilibrato, in cui al gol italiano di Colaussi (un istriano cui il regime aveva italianizzato il nome), aveva risposto il francese Heisserer, nel secondo tempo gli azzurri (per l’occasione con una ‘simbolica’ divisa nera) dilagarono, e il risultato finale di 3-1, sancito da una doppietta di Silvio Piola, fu anche troppo stretto.

Si arrivò così alle semifinali. Mentre l’Ungheria poteva disporre senza problemi di una Svezia fino a quel momento clamorosamente favorita dal sorteggio (5-1 per i magiari il risultato finale), la seconda semifinale tra Italia e Brasile passò alla storia, con un susseguirsi di racconti e leggende, in cui non si sa dove arrivi la realtà e dove invece subentri la fantasia. Come si è detto, i brasiliani per la prima volta avevano allestito una formazione decisamente competitiva. Due erano le stelle: il terzino Domingos da Guia e il centravanti Leonidas. In un’epoca in cui i difensori in generale e i terzini in particolare avevano il compito di calciare con forza qualsiasi cosa si muovesse (e se era il pallone, tanto di guadagnato) gli storici del calcio ci parlano di Domingos come di un giocatore di classe sopraffina, capace di avventurarsi in dribbling mozzafiato nella propria area, di servire assist memorabili ai centrocampisti e agli attaccanti, imbattibile nel gioco di testa. Classico esempio di genio e sregolatezza, si dice che gli argentini del Boca, per fargli firmare un contratto, lo fecero sedurre da una famosa attrice di varietà, che lo portò a Buenos Aires, lo drogò e sotto l’effetto di stupefacenti gli fece firmare un contratto principesco. Ma la vera stella di quella nazionale era il centravanti, Leonidas, detto il ‘Diamante nero’. Su di lui sono state scritte pagine di alta letteratura da Eduardo Galeano (‘Splendori e miserie del gioco del calcio’, Sperling & Kupfer Editori), in cui ci descrive Leonidas con la stazza, la velocità e la malizia di una zanzara, ci parla della sua capacità di fare gol bellissimi, sospeso per aria, a testa in giù e i piedi in alto, in quella che in tutto il mondo si chiama ‘La Cilena’ e che per i brasiliani è il tiro ‘em bicicleta’.  

Ma torniamo a quella semifinale. Sono tante le leggende fiorite intorno a quella partita, quasi nessuna reale. Si dice, ad esempio, che i brasiliani non avessero fatto giocare Leonidas e Tim (un altro forte giocatore, temibile ala sinistra, che gli italiani conobbero come allenatore della nazionale peruviana ai mondiali del 1982), per preservarli per la finale, ma forse è più probabile che fossero infortunati. Si dice che i brasiliani (la partita si giocava a Marsiglia) avessero già prenotato tutti i biglietti dell’unico aereo diretto a Parigi (sede della finale) e che avessero consigliato agli italiani di prenotare i biglietti del treno per Bordeaux (sede della finale per il terzo e quarto posto), ma è più probabile che questa storia fosse stata inventata da quell’abile psicologo che era Vittorio Pozzo per caricare al meglio i suoi ragazzi. Si dice che, dovendo tirare il rigore decisivo, Giuseppe Meazza si accorse che l’elastico dei pantaloncini si era rotto, ma che preferì ugualmente tirare, e segnare, tenendo su i pantaloncini con una mano per non perdere la concentrazione, e forse questa è l’unica leggenda che risponde alla realtà dei fatti.

Le cronache dell’epoca ci dicono che quel 16 giugno a Marsiglia si giocò una grandissima partita. I brasiliani cominciarono subito a deliziare il pubblico con una serie di palleggi, dribbling, azioni ficcanti che però s’infrangevano inesorabilmente contro una difesa azzurra spietata. Ma spietata era anche la difesa brasiliana, dove Domingos era una barriera invalicabile. Fatto sta che il primo tempo si chiuse sullo 0-0. Fu all’inizio del secondo tempo che per la prima volta il centravanti azzurro Piola riuscì ad anticipare Domingos, e a servire Colaussi che, libero, insaccò. A quel punto i brasiliani si riversarono in attacco, lasciando il fianco al contropiede italiano che, puntuale, diede i suoi frutti. Piola, lanciato in area, venne atterrato da Domingos. Il rigore successivo venne trasformato da Meazza nei modi che abbiamo visto. Solo a tre minuti dalla fine il Brasile riuscì ad accorciare le distanze con Romeu, ma finì 2-1 per l’Italia.

Italia-Brasile era stata considerata la vera finale del torneo, e così fu. Non che l’Ungheria non fosse una grande squadra, ma le qualità messe in mostra fino a quel momento dalla squadra azzurra sia contro la Francia, sia contro il Brasile non lasciavano troppe speranze ai magiari. Agli ordini dell’arbitro francese Capdeville, alla presenza del presidente della repubblica francese Lebrun (che dimostrò una conoscenza calcistica inferiore a quella di Mussolini quattro anni prima, allorché chiese a Jules Rimet “Dove sono i francesi?” all’ingresso in campo delle squadre; “I francesi sono l’arbitro” fu la risposta di Rimet), le squadre scesero in campo per la finalissima il 19 giugno 1938. 

E, come da pronostico, non ci fu partita. L’equilibrio durò sedici minuti, poi gli azzurri dilagarono. Gol iniziale di Colaussi, pareggio di Titkos, Piola due volte e di nuovo Colaussi segnarono per l’Italia. Il gol ungherese di Sarosi servì solo a rendere meno amara la sconfitta per i magiari, e a fissare sul 4-2 il risultato finale.

L’Italia replicava così la conquista del titolo mondiale, e questa volta lo faceva in maniera netta, che non lasciava spazio a repliche, né recriminazioni.

Ma quella partita fu forse l’ultima vicenda gioiosa in Europa e nel mondo. Mentre simbolicamente Picasso dipingeva il suo ‘Guernica’ a pochi chilometri da dove si giocava la finale, di lì a pochi mesi il pallone avrebbe lasciato il posto all’odio e alla morte. Nel settembre di quello stesso anno, la Germania poté cancellare dalla carta geografica la Cecoslovacchia, così come aveva fatto con l’Austria; le leggi razziali, già da tempo in vigore in Germania, entrarono in vigore anche in Italia e in gran parte dei paesi dell’est sottoposti a dittature naziste e fasciste; infine, quindici mesi dopo Italia-Ungheria, con l’invasione della Polonia aveva inizio la seconda guerra mondiale, e di campionati mondiali di calcio non si parlò più per un pezzo. L’episodio simbolo di come il calcio e la sua bellezza furono spazzate via dalla furia degli eventi, avvenne nel 1939. Mathias Sindelar, il Mozart del pallone, meraviglioso interprete del calcio danubiano, punta di diamante del Wunderteam austriaco che aveva dominato il calcio degli anni trenta, ebreo, preferì togliersi la vita di fronte all’impossibilità di vivere e giocare a calcio da uomo libero. E’ sepolto al Prater di Vienna, e sul marmo della sua tomba è incisa la sua firma, e scolpita la figura di un calciatore con la maglia della nazionale austriaca.