Giuseppe Pontiggia (“Il Verri”, n. 5, 1977; ora presente, insieme ad altri testi critici, nell’Autoantologia di Giancarlo Majorino, Garzanti 1999)

 

Diceva Oscar Wilde che l’unico modo di resistere alla tentazione è cedere. E Majorino, scrivendo tra la fine del ’67 e l’inizio del ’68 queste "invenzioni d’amore", sembra confermarlo. La tentazione non era solo la donna-sirena cui il titolo allude, ma il linguaggio della passione, con la sua irresistibile vocazione al Kitsch. Majorino – o meglio la controfigura che nei suoi versi parla in prima persona – si difende egregiamente su entrambi i fronti, ma in un modo insolito: si arrende, almeno temporaneamente, accetta i tormenti e gli scacchi tipici di ogni passione, non elude l’insuccesso. Come quel maestro zen che, al discepolo che gli chiedeva perché aveva urlato nel bosco mentre i nemici lo colpivano, rispose: “Perché mi colpivano”. Anzi, per accelerare la guarigione, Majorino non esita ad assecondare il gioco, a simulare una passività ancora maggiore, nella speranza che, inoculandosi il male, si sviluppino gli anticorpi. Assume persino, nelle dosi infinitesimali della medicina omeopatica (“il simile si cura con il simile”), il linguaggio del nemico, con una cautela che tradisce, accanto all’avversione, la paura di crederci. Ma i calcoli, fortunatamente, non riescono che a metà e ne viene fuori un testo stranamente bifronte, un moderno canzoniere d’amore che lotta per negarsi, sapendo che è l’unico mezzo per sopravvivere, ma che sopravvive proprio perché non ci riesce fino in fondo e in queste oscillazioni tra programmi di poetica e sbandamenti emotivi, tra simulazioni stilistiche e ingorghi sentimentali trova un suo salutare squilibrio. L’ambivalenza si manifesta già nel titolo, Sirena, che ha connotazioni ironico-gioiose, ma che allude anche alla pericolosità: qui tanto maggiore perché, se Ulisse tura le orecchie ai compagni, Majorino si guarda bene dal rinunciare a qualche senso, anzi sembra acuirli, soprattutto quelli della vista e del tatto, con un goloso piacere che in lui non è nuovo: “Guance colorate”, “tantopiena”, “cosìfrutto”, “rotondissima, dolce favo”, “figura rosa”, “biondo invito”, “colorato/ volto intriso d’amore”, “il continuo, ridente spalancato/ volto intriso di luce”, “ricordo tondo”. E si capisce che, con queste premesse, addio possibilità di resistere. Eppure l’autore vorrebbe, per una serie di buone ragioni (ma nessuna che funzioni): l’intensità stessa dell’attrazione, che quando è così potente non si sa dove porti o meglio lo si sa (“temevamo pure la fine, quel suo ghiaccio/ o di saltare pazzi sulle mine”); il presentimento di trovarsi alla fine dalla parte perdente (“è che tu meno amandomi, io pago/ lo spossessamento,/ come un taglio o caduta di capelli/ miei miei, folti, belli./ E tu invece, staccandoti da me,/ in cui t’impersonavi e t’incarnavi,/ ricuperi completamente te.”); gli “Attacchi e contrattacchi” della passione – Hemingway la definiva “vita al fronte” – e l’odio implacabile che essa genera invariabilmente, come la controcorrente lungo le sponde di un fiume (“Che io mi chiuda qui, dopo mesate/ e mesate e mesate di rancore”); infine la paura atavica di tornare adolescente, intensa almeno quanto il desiderio contrario (“me/ quindicenne alla biada lucente/ che cinema che ancora tanto ami”) e il panico di vanificare quanto si è appreso o fatto ("-tanto lottato per?-" si chiede in Riassunto; e in La gomma nuova: “ho lavorato tanto –poco- per cascare/ un’avventura, bene/ e adesso?”). A queste ragioni universali di legittima difesa, altre se ne aggiungono, legate alla situazione particolare che il libro suggerisce: l’apparenza della sirena non a quel “ceto medio, cara, tra due fuochi”, che Majorino ha sempre vivisezionato con sarcasmo e immedesimazione, ma al ceto superiore, quello dei ricchi, qui rappresentato con attributi quasi tribali (“Mangiano carne le tue genti/ carne di uomo certificata bue;/ riflettono i tuoi occhi/ radiose indifferenze/ che immagino ricurve su torture”).

Quando la osserva “briosa tra le amiche” “nel soggiorno ventilato albergo/ d’incordate tinte cremose beige” si sente “come un vaso cinese” (“pensante però”). Allora contrattacca (“Ciao, cara, te e la Jaguar”), cercando di conservare la stima di se stesso (“Io con te non parlo di politica:/ conosco troppi ricchi di sinistra”), ma scopre suo malgrado inquietanti linee convergenti “di provenienza/ non proletaria, d’infanzia non avara, fantastica”: un “abile smistamento verso l’utilità, un accentramento/ cardinalizio, rapace, di panni che ci celano, squisitamente,/ la povertà, la morte di altra gente”. E da ultimo l’eterno marito della commedia borghese: “Pareva un paltò appeso a un chiodo al muro;/ quasi non si muoveva. Poi t’ha portato via”. Lei prepara “l’adulterio permanente”, ma “Ah, come siete come siete fratellini/ tu e tuo marito cioccolatini”, “Figlierete anemie consimili”, le dice nella poesia intitolata “Voi due!”, ma alla fine l’amara consolazione del sarcasmo toccherà proprio a lui: “allora mi rimorchierai, schifosa,/ presso tuo marito onde di mare/ nella notte lampade velate;/ rigiratevi, io sarò lì in mezzo”. Del resto è comprensibile che sia geloso, visto che lei è <’na prodiga/ fontana di tenerezze> e il marito è per definizione “il senzaletto, il davvero bisognoso di te...”

La passione ritorna sui propri passi: l’incontro fortuito (“riconosco il Caso”), i primi “movimenti lenti” (“una bella ragazza, un uomo/ tu: niente male, il giretto/nelle qualunque strade,/ qualunque inizio”), poi il precipitare, annunciato da segni funesti: i livres de chevet passano sugli scaffali (“Dante, Baudelaire, Kafka impolverati/ sono da settimane”) e viene a mancare anche l’ultima libertà, quella di pensare (“la calamita dei versi/ è stata/ lei pure/ calamitata”). Eppure in questo che “pare un conflitto d’altri tempi”, “senza che la mente aiuti”, in questa “privata fine del mondo” la parola non è solo liberatoria (l’aggettivo “privata” già ristabilisce il contatto con gli altri), ma costruisce a poco a poco un altro universo, fatto di ironia e di distacco, di finta complicità e di faticata, ma progressiva autonomia, ottenuta attraverso un uso paziente e preciso degli strumenti linguistici. Suggerire, ad esempio, attraverso i titoli delle sezioni (Settembre, Ottobre, novembre ecc.), i tempi dell’azione già prelude a circoscriverla, a disegnare i suoi limiti sulla pagina; mentre i luoghi, che rischierebbero di diventare comuni, vengono ogni volta reinventati (magari, come nel caso di “Al parco”, attraverso catene di associazioni naturalistiche, le formiche, il ragno, le farfalle). Fissando i ruoli nei tipi immutabili della commedia, che non conosce l’evoluzione degli eroi tragici (“Tu non devi mutare, / sei sirena”), l’autore si scontra con il suo corrispettivo simmetrico, il lessico convenzionale della passione (“Non sarà che io, scrivendo di te/ e di me, benché squassato,/ nuoti in un fiume già preparato?”). Majorino risolve questi due problemi con un lavoro caparbio, martellante, ininterrotto sul linguaggio: sia mescolando parodisticamente gli stili (da depliant turistico all’inizio di una poesia, “Senti, lussuosa azzurra/ velocità di mare”, e dialettale-grottesco sei versi dopo, “Ma se rispondo slissio rapido ovoidale/ al tuo invito”), sia intervenendo continuamente sul lessico e sulla sintassi. Dicendo ad esempio “potresti scomparire sei comparsa” non fa che rovesciare la frase più normale “sei comparsa potresti scomparire”, ma per questa via ottiene effetti molto più sottili e complessi (l’efficacia dell’inversione sintattica ricorda quella del protagonista di Svevo, nella Coscienza di Zeno, quando vorrebbe confessare alla moglie di averla tradita, ma, per non subirne le conseguenze, glielo racconta in modo alquanto evasivo; a questo punto, anziché scrivere “A me parve di averlo detto, ma essa non capì”, scrive: “Essa non capì, ma a me parve di averlo detto”, che non è solo il capovolgimento di una frase, ma di un mondo). La particolare sensibilità linguistica di Majorino, di cui a suo tempo ha parlato con precisione Raboni, si esercita anche sulle parole singole, ora scomponendole ora aggregandole. Molti avverbi, ad esempio, sono riportati alla loro origine romanza, quando “mente” non era ancora sentito come suffisso e “mitemente” suonava “con mente mite”. In Sirena il procedimento è frequente e produce effetti gustosi: “Pacata mente sgrano gli occhi”, “ti svuotano/ vuotano/ lenta mente”, “rifluire interna mente esterna/ mente corporale mente”, talora contrapposti: “E’ che poi si vola ininterrotta mente./ E’ che poi si vola ininterrottamente”. O, al contrario, Majorino crea nuovi composti, “nientetutto”, “snaturale”. A volte l’elaborazione del linguaggio è un po’ stentata e tortuosa (“te pure sillabante colle cieche/ cellule i nostri morsi, in alba requie”) oppure, nell’accettazione provvisoria del banale e della sua verità (“Amo più la nostra storia di te?”), Majorino si lascia prendere la mano e finisce con l’aderirvi più del necessario (“Così ti sembro lontano e sono struggente”). Il testo però nell’insieme è linguisticamente ed espressivamente compatto. Nell’opera precedente di Majorino il tema della coppia aveva funzionato come una specie di reagente, privato ed emotivo, all’ideologia e alla politica (mai astratte per altro, ma sempre vissute in prima persona), un microcosmo in cui si riflette la crudeltà del mondo che lo condiziona. Il tema si manifesta già nella Capitale del Nord, del 1959, una discesa agli inferi della vita impiegatizia, tra Carlo Porta e Courteline da una parte e un collage di riscritture parodistiche dall’altra (Dante, Leopardi, Eliot); e ricorre poi in Lotte secondarie, del 1967, un’ampia raccolta nella quale – lungo lo spaccato privato-pubblico di una Milano proletaria e piccolo-borghese – vita familiare e intima e vita politica producono frustrazioni convergenti, perché sentite con la stessa partecipazione e con una coscienza lucida dei loro nessi e contrasti. La stesura di Sirena si colloca a metà della composizione di Equilibrio in pezzi, del 1971: segue immediatamente la sezione intitolata Le trattative (tentate, tra il 1963 e il 1967, tra la sottovia d’ufficio e la società dei consumi) e precede le poesie della sezione Scuola pubblica, scritte tra il 1968 e il 1970, anni vissuti con una partecipazione ansiosa e una fede aggressiva e autoironica. Sirena nasce come risposta a una crisi che minaccia di coinvolgere anche il linguaggio. Ma alla fine il suo punto di forza è proprio nel linguaggio, nella sua ambivalenza “snaturale”. Dirà nella poesia omonima: “Sei tanto quieta, densa, un albero coi frutti;/ e come sei nervosa, foglie rami”. In un’altra poesia, sempre dallo stesso titolo, si proietterà in un critico di se stesso: “Continuano le immagini – dirà/ e con ragione il critico – della natura:/ la paragona a rami, a pomi, a pere;/ ne sottintende l’umido fogliame;/ le imputa di amare/ e somigliare a animali – dirà/ e con ragione il critico – le imputa di amare/ e somigliare”. Questo punto fermo, che mette fine al discorso del critico, è anche quello da cui comincia la sua poesia.

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SEZIONE: critica   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: 11/2002 - 4/2003

 

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