Prossimamente

 

Prossimamente di Giancarlo Majorino - Specchio Mondadori 2004

Dal remoto 1969, Giancarlo Majorino lavora a un'opera di grande respiro, un romanzo in versi, un poema capace di assorbire e di restituire nel racconto poetico vicende e sentimenti catturati nel reale e nel vissuto di decenni. Di questo progetto, ci perviene quello che è al tempo stesso un prologo e un'anticipazione, in quanto Prossimamente è un testo in cui Majorino coinvolge, in una composizione maturata in anni recenti e che già annuncia il poema, alcuni brani del poema stesso. In ogni caso, è questo un libro non solo perfettamente autonomo, ma di rarissima potenza, capace di condurci da una dimensione pubblica a quella privata in un impasto denso e di inesausta tensione etica e civile. Majorino non gurada certo il mondo dall'esterno, va vi è profondamente immerso, consumandosi nel cammino atroce della "bestia tempo" e nel controllo delle "nere cronache" di un'epoca che muta di violenza in violenza, in cui "la merce insegue l'oscuro suo fato" dentro una "realtà riprodotta" e appiattita. Eppure "l'eroe scrivente" non si placa né si dispera, continua invece a graffiare e ad aspettare ansioso il giorno, perché comunque "è bello tirarsi su la mattina per un soave appuntamento".

Prossimamente si presenta come un continuum, come un fluire debordante, in cui Majorino non trova quiete in alcuna definizione formale. Passa dal verso alla prosa, dal magma del recitativo a un canto pastoso o a violente percussioni. La superficie del testo è sempre in movimento, scossa da vibrazioni o intaccata da vere e proprie fenditure. Il lettore finisce col sentirsi parte di un gioco che lo avvince, come coinvolto in una corrente nella quale si immerge sicuro di trarne un beneficio.

(testo di Maurizio Cucchi, tratto dal risvolto di copertina)

 

 

il poeta Giancarlo Majorino copyright Barbara Pietroni

 

"Lavoro al poema -o mi lavora lui- dal 1969, una data che apre un così enorme abisso di tempo da spaventare quasi anche me! (ride) In realtà però è stata, oltre che una grande fatica, una grande gioia, perché quasi ogni mattina avevo, ed ho tuttora, questa specie di insieme che mi attendeva, attende. Di questo poema, che dovrebbe essere di nove libri e che mi sono impegnato a pubblicare tutto nel 2008, esce invece il 9 marzo 2004 il primo libro, che ho già consegnato e che si chiama Prossimamente.

Ecco, il titolo allude a una duplice veste di questo testo. Da una parte, come primo libro, è già partecipe del poema; dall'altra, come il linguaggio dice, è un "prossimamente": annuncia. Quindi, annuncia ed è partecipe. 

Questo libro è nato una decina di anni fa, molto successivamente alla data in cui ho iniziato a lavorare al poema. Perché ritenevo, ritengo -l'ho fatto anche per Poesie e realtà- che la prima cosa che si dovrebbe fare scrivendo qualsiasi tipo di opera è -sarebbe- quella di chiarire a se stessi e a chi leggerà dove siamo, che cosa stiamo facendo in questo istante; il presente, cioè, deve entrare con tutta la sua forza. A differenza appunto del poema nel suo transito normale -che è un insieme di storie, di trame che si muovono circa (circa) dai primi anni '50 con dei flashback al periodo della guerra, del fascismo e via via si svolge- a differenza del poema, dunque, questo primo libro  immette di colpo nell'adesso. Dico dieci anni fa, in realtà in gran parte è stato scritto negli ultimi tre, quattro anni con grande accelerazione.

E' diviso in due parti, ognuna delle quali ha un titolo abbastanza esplicativo, se vogliamo. Il titolo della prima parte è «premeva dire dove siamo», che tra l'altro è una frase che caratterizza, appunto, anche Poesie e realtà con quella sua accentuazione nel presente. Il titolo della seconda parte è «musica felice di parlare», che è un verso di Tetrallegro, che può voler dire tante cose... comunque, adesso sintetizzando un po', il primo cerca di dare una sorta di fenomenologia di quello che c'è davvero, tutto presente.

Non a caso, infatti, si risuddivide in tre zone: "la torcia", "la forbice", "elementi affabili". Dove «la torcia» sta per questa tremenda accelerazione catastrofica di cui siamo impregnati e che subiamo con poche difese. Io poi, volendo, dato che invecchio, raggiungendo età spaventose, posso anche inserire nell'accelerazione catastrofica questa specie di inevitabile invecchiare. O forse evitabile? (ride, ridiamo).

La seconda parte si chiama «la forbice» perché segnala come causa prima che permane -maledizione!- proprio la divisione netta -questa forbice che addirittura si sta espandendo anziché richiudersi- tra chi ha e quindi è e chi non ha e quindi non è, fino a quelli proprio che penzolano sulla lama ultima, la più bassa. Quindi è la traduzione in qualche modo di questa ingiustizia orrenda che mi opprime e che sembra insanabile.

Ecco, però, qui c'è un elemento, potremmo dire, esistenzialista,  che mi è sempre molto caro, che mi è sempre molto proprio: noi, io e la gran parte di quelli che scrivono e vivono in questo tipo di paese, usufruiamo però anche di una serie di vantaggi, privilegi, comodità, gioie anche. Gioia. Infatti i proclamatori della Rivoluzione devono assolutamente tener conto che una cosa è se tale dichiarazione viene rilasciata da coloro che sono soggetti a regimi di terrore o di miseria e una cosa ben diversa è se tali dichiarazioni vengono rilasciate da coloro che vivono in luoghi di pace e di ricchezza, delle quali magari usufruiscono. Questo è un punto decisivo. E questa terza zona si chiama «elementi affabili» e in qualche modo ha a che fare con una descrizione spietata, ma anche felice, di quello che c'è e della fortuna di essere qui, tutto sommato. Ecco, questo trio, diciamo, questo terzetto di sottoparti caratterizza il "dove siamo".

Dopo di che la seconda parte comincia invece a trattare di più il fatto che sto scrivendo un poema, che cosa sarà e perché devo addentrarmi sempre di più in esso. Allora, si divide a sua volta in tre zone. Naturalmente adesso la metto giù in questo modo molto chiarificatore, ma è anche un magma, un caos (ride) terrificante, comunque faccio finta che sia tutto di specchiata lucidità... 

La prima zona, «il sonno scritto», mi è venuta molto spontaneamente, dato che mi alzo presto la mattina e lavoro con la pila per non svegliare l'Enrica che è di là. "Il sonno scritto" è un po' quello che mi è successo e che in qualche modo dà il via ad alcune poesie e prose di quella parte, in cui sono forse, credo, spero, riuscito a valermi anche di elementi onirici, di elementi del sogno, magari registrati o prolungati poi successivamente ma comunque sùbito, nella scrittura. Quindi "il sonno scritto" sarebbe quasi una scia, dove, se vogliamo usare dei termini freudiani, l'inconscio e il conscio cercano di rimanere insieme, ma senza che l'inconscio perda le proprie creatività, le proprie energie libere, diciamo.

 

Quindi, le poesie e prose di questa parte nascono tutte da sogni, da sogni veri?

Sì, questa zona è per tre quarti così. Poi c'è un pezzo carino in cui entrano dei personaggi del poema, che sono un po' come i personaggi in cerca d'autore di Pirandello: "entra il prof. e mi tira per la giacca; telefona la ragazza che è il modello di Ida"; ecc. Cioè questi qui sembrano dirmi: "ma non stiamo facendo un poema?". Ecco quindi questa zona termina così.

Poi la seconda sottoparte si chiama «tempi si scrutano» e cerca, devo dire un po' indisciplinatamente, un po' alla "spera in dio" -perché qui naturalmente, essendo per un 70-80 per cento poesia e per il resto prosa, non sempre critica, anzi una prosa a volte poetica, non esistono interventi di costrizione o del rimanere entro regole, qui il gioco è completamente libero- cerca di mettere a nudo una paradossalità del poema.

Il fatto è che c'è una paradossalità in questo poema: io l'ho scritto dal '69 in avanti, tratta del periodo dal '50 e a volte anche prima -e fa due; due stranezze, diciamo così- e non è stato scritto solo in quel periodo, ma in continuazione, quindi negli anni '70, '80, '90, 2000, eccetera. Quindi non c'è una sola paradossalità, ma ce ne sono molte. E allora, l'idea che questi diversi tempi di scrittura, di riferimento, del mio diventare meno giovane, insomma tutti questi periodi con tutti gli incontri, incroci che ho avuto (dato che penso sempre alla concezione dei singoli di molti) in qualche modo comincino a scrutarsi tra loro.

E infine l'«addentrasi», che è ripreso proprio da un verso preciso del penultimo pezzo, un po' lungo e corale, in cui si dice: "unico scampo era è l'addentrarsi", che può essere "l'addentrarsi nel poema" per me -ma ci sono già dentro: infatti sono stato a lungo incerto se avessi dovuto usare "riaddentrarsi" o "addentrarsi"- oppure può essere un addentrarsi per altri inteso come sogno di approfondimento, di spostamento, di vita meno "vitetta", insomma, di libertà, libertà vera.

Ecco questa è la struttura non semplice di un libro assolutamente non semplice...

Ogni tanto, per non dire spesso, ti scappa qualche punto... ma io, che ormai sono abituata e come studentessa e come intervistatrice a questa tua unica debolezza, te lo rammento subito: che cosa è questa "musica felice di parlare"?

E' una bella domanda. C'è tutta una forte, forse la più forte, tendenza all'interno della letteratura e soprattutto della poesia -viene da Mallarmé questa concezione- che dice che il sogno della poesia dovrebbe essere il somigliare sempre più alla musica. Io mi ostino a pensare quasi il contrario: la poesia, se è vera poesia, ha già in sé la musica.

Però questa del Prossimamente è una musica che è felice di parlare. Il parlare e quindi anche i concetti, il ragionare, il discutere, tutto ciò di significato forte che ha il parlare, può addirittura diventare più invidiabile che la musica stessa. Tuttavia occorrono tutte e due. Ecco quindi c'è una sottile, leggera vena polemica però contro una tendenza dominante, perchè dal mio punto di vista poi che cosa succede? che la tendenza che predilige la musica è anche quella che spesso è più lontana e dalla realtà condivisibile e dagli altri. Il mio tipo di poesia è sempre stato, come diceva il titolo dell'antologia, Poesie e realtà o, se si vuole, vissuto e arte, senza rinunciare però a nessuno dei due fattori così decisivi.

Il poema, come ti dicevo, ha una maggioranza netta di versi, però ha anche delle righe. Poi ha anche dei rigaversi. Sono tre categorie, diciamo. I versi sono versi e sono di tipo molto diverso -un gioco di parole ma non l'ho fatto apposta- tra loro: ci sono versi molto brevi, ci sono versi epici molto lunghi. E sono diversi anche come stile, perché di volta in volta, dipende da come mi è venuta la cosa, da come si è espressa liberamente, io la trasferisco, mi affido a una spontaneità, come si fa con le poesie in genere. Poi ci sono le righe, che possono essere di vario tipo, righe con apporto critico, righe con prevalenza narrativa sulle trame, sui personaggi. E poi ci sono questi rigaversi, che sarebbero dei versi come più deboli: in sé sono più deboli, però sono comunicativi, sono narrativi, per cui sono versi cattivanti. Questo poema ha perlomeno tre scale diverse, e qui entra in gioco un altro fattore importante di metodo: vi sono situazioni, personaggi, vicende immaginarie segnalate "per esteso", ve ne sono altre segnalate "meno per esteso" e altre addirittura ellittiche, dove c'è solo un verso, una riga per indicare una cosa. Quindi c'è un movimento continuo all'interno di questo poema che appunto deve riuscire a... (e in questo momento Majorino, che ormai conosco molto bene, ha già la mente alle poesie che "gli scappa" di leggermi)... non so a far cosa, ci penseremo... (ridiamo)"

 

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per un discorso più completo sul poema vedi anche:

1. da intervista: il poema a cui lavoro dal 1969

 

 

 

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SEZIONE: bibliografia   STATUS: quasi completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: dal gennaio 2002 a...

 

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