Rispetto
all'uscita che lo ha preceduto (Singles
1963-1965), nonché rispetto a quella
- presumo, visti dischi e periodo, ghiottissima
- che lo seguirà, questo nuovo Singles
1965-1967 rischia di fare la classica
figura del manufatto di coccio in mezzo ai
vasi artigiani di ferro. Non per demerito
o per scarsa bontà del materiale presente,
ci mancherebbe, trattasi però dell'istantanea
di una fase interlocutoria, di un bellissimo
raccordo tra una sequenza e l'altra, di un
transitorio seppur avvincente frame tra un
prodromo irripetibile e una conseguenza eccitante
quant'altre mai. Mi spiego meglio.
I Rolling Stones della prima, memorabile
sequela di 45 giri sono una band acerba, tutta
da rodare, ancora provvista di scarsa coordinazione,
eppure (o forse proprio in virtù di tutti
questi fattori) capace di sprigionare un volume
di fuoco impressionante, che alla calligrafia
bluesy da nerds innamorati dell'America unisce
un beat ruvido e primordiale, verve scintillante
e condotta teppista, fissando così alcuni
dei basilari dettami di ciò che con una punta
di orgoglio ci ostiniamo tuttora a chiamare
rock'n'roll.
Singles 1965-1967, invece, fotografa una band
compresa nel tentativo di scrollarsi di dosso
le residue ingenuità caratterizzanti il biennio
antecedente, tentativo peraltro più che legittimo,
per non dire comprensibile, che spesso li
porta ad entrare negli studi di registrazione
con le idee poco chiare, con l'urgenza incontenibile
di affermare qualcosa dando ben scarsa rilevanza
ai toni e alla modulazione delle rispettive
voci. Questo non significa che i brani ivi
contenuti non siano buoni, molto buoni, persino
magnifici: può essere men che monumentale
una raccolta che allinea uno via l'altro il
sempiterno riff di (I Can't Get No) Satisfaction,
il ritornello assurdamente catchy di Get
Off Of My Cloud, il pentagramma melodrammatico
di As Tears Go By, una sciabolata del
calibro di 19th Nervous Breakdown,
il baccanale ritmico di Paint It Black
o l'allusiva lascivia di Let's Spend The
Night Together? Certo che no, tanto più
se ogni singolo dell'epoca viene riprodotto
con confezione, grafica e accoppiamento tra
le b-sides inglesi e quelle americane assolutamente
rispettoso dei più rigidi criteri filologici.
Tuttavia, rispetto alla prima uscita (che
constava di undici singoletti laddove questa
ne sciorina uno in meno), Singles 1965-1967
pecca di un briciolo d'irruenza in meno, non
sempre rimpiazzata da soluzioni all'altezza.
Il peccatuccio, ché di robetta veniale trattasi,
risalta con evidenza soprattutto ascoltando
i famigerati lati b (tra i quali una rara
Sad Day, con Jack Nitzsche al pianoforte),
senz'altro meno supini al concetto di cover
in pratica dominante nella prima antologia
ma al tempo stesso anche meno frizzanti e
inventivi. Tracce quali - per dire - The
Under Assistant West Coast Promotion Man
(acidula presa per i fondelli del discografico
George Sherlock, dipendente di secondo piano
della divisione americana della Abkco e incaricato
di pedinare ogni mossa del gruppo oltreoceano),
Long Long While (sin troppo scolastica
imitazione dei coevi giganti del soul) o Lady
Jane (melensa ballata la cui efficace
linea melodica è strozzata da un eccesso di
orpelli e ampollosità), nulla tolgono e nulla
aggiungono, oggi come allora, alla ben nota
grandezza del gruppo, incapaci come sono di
trascendere il rango di pura curiosità per
esegeti incalliti. Spezzerei al contrario
una o più lance in favore della magnifica
performance vocale di Dandelion (stupenda),
del blues cartavetroso di una Who's Driving
Your Plane troppo a lungo sottovalutata
e dei brani - She's A Rainbow, 2'000
Light Years From Home, The Lantern
e la In Another Land accreditata
al solo Bill Wyman - desunti dal bistrattato
Their Satanic Majesties Request (1967), album
che se rapportato al contesto dell'epoca invecchia
come il buon vino.
Singles 1965-1967 resta un'opera a dir poco
essenziale, cui nuoce solo il confronto tra
predecessore e successore: ascoltatela per
quello che è, e godetevi per l'ennesima volta
le canzoni strepitose della più grande rock'n'roll
band che palchi, solchi vinilici e record-studios
abbiano mai conosciuto.
(Gianfranco Callieri)
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