E'
sempre esistito un sottile filo rosso che ha unito le
diverse generazioni dei musicisti americani con i fantasmi
delle folk songs del passato, che sono poi le ombre
di una nazione intera, una delle testimonianze più
sincere e vive di un paese ancora giovane eppure smemorato.
La corsa a perdifiato verso un futuro fatto di prosperità
e "nuove frontiere" da violare è un
motore che ha alimentato il sogno americano, ma ha lasciato
sul campo molte vittime: la "wilderness" degli
States, il lato selvaggio di questa terra e la vita
spietata per la conquista di angolo di quel sogno ha
prodotto sradicamento, svendita di valori, confusione
e allucinazioni collettive che hanno coinvolto un popolo
e la sua fragile storia. Sarà per questo che
oggi più che mai alcuni dei migliori talenti
della canzone d'autore e non solo (tanti rockers convertiti
all'acustico o in vena particolarmente malinconica)
si sono guardati alle spalle in cerca di un solido appiglio,
certezze in cui rispecchiarsi. Tante voci dalle zone
più sperdute del continente, hanno ripreso per
mano la tradizione, l'hanno riletta fornendole un senso
che trascende il semplice revival. Qualcuno obietterà
che siamo in preda ad una moda un po' furbesca, l'onda
lunga di un rinnovato interesse verso le radici sorta
all'indomani del successo della colonna sonora di O
Brother Where Art Thou? Rimostranze che hanno un fondamento,
ma esulano certamente dalla sincerità con cui
alcuni personaggi si sono avvicinati al genere.
Quando Natalie Merchant recrimina la sua collection
of traditional & contemporary folk music coglie
esattamente il senso di una operazione che supera la
mera nostalgia. Nello spledido suono "out of time"
di The House of Carpenter's Daughter Natalie
sembra lanciare un messaggio preciso: il tempo in una
canzone folk si annulla, perchè questa diventa
patrimonio di tutti, non ha confini e le serve solo
una voce che la traduca al mondo. C'è chi, come
la Merchant, se ne appropria con una vena poetica e
romantica; chi compie una catarsi personale alla riscoperta
della propria crescita artistica come il Greg Brown
del recente Honey in The Lion's Head,
cantore immenso di una desolazione che appartiene solo
ai grandi spazi americani; chi come Tom Russell
in Indians Cowboys Horses Dogs, ne suggerisce
una visuale più epica e forse un po' stereotipata,
nel tentativo di recuperare l'immagine quasi sacra del
vecchio west e di una frontiera ormai più immaginaria
che reale; chi infine ne sfrutta i significati più
sociali, politici, sanguigni. Così ha fatto ad
esempio John Mellenvcamp, il cui Trouble
No More non solo è servito a ricongiungerlo
con quel suono provinciale che aveva segnato il suo
apice artistico alla metà degli anni ottanta,
ma lo ha anche naturalmente portato ad alzare nuovamente
la voce contro un'America gretta e biecamente nazionalista
che deve fare i conti con la sua atuale classe politica.
Anche lui ha scelto di mischiare antico e presente,
di concedersi al blues più ancestrale del Delta
e di mischiarlo con Woodie Guthrie e Lucinda Williams,
sempre seguendo l'intento di una folk music senza barriere.
Più o meno forti che siano, queste sono le voci
che non vorremmo mai perdere di vista, quelle che mantengono
in vita una memoria troppo importante per la vita stessa
del rock'n'roll da essere accantonata: è dentro
una folk song in fondo che anche un buon rocker può
trovare gli stimoli per andare avanti, nonostante l'indifferenza
generale
(Fabio Cerbone)
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