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Articoli
Alberto Lampignano
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Alberto Lampignano

A proposito del rapporto tra maestro e allievo

Negli ultimi tempi persino sulla stampa a larga diffusione veniva denunciata, con rammarico, la quasi scomparsa della figura del maestro. Venivano indicati, tra le possibili cause, il declino dei sistemi forti e delle conoscenze oggettive, l’affievolirsi del principio d’autorità. Eppure mai come nel nostro tempo si è sentita l’esigenza di formazione. In un mondo che cambia velocemente è indispensabile l’apprendimento continuo di nuove competenze e di nuovi saperi. È probabile che la richiesta di formatori per l’apprendimento di conoscenze e di competenze nuove sia però diversa dall’esigenza di maestri. I segni a livello sociale non si prestano ad una lettura univoca. È difficile fare discorsi generali, perché ogni ambito è diverso dall’altro, per tradizione, leggi, contenuti. A me sembra che la psicoanalisi, a causa dei grossi mutamenti che l’hanno percorsa e ancora la percorrono, sia cambiata, non solo nelle teorie, ma anche nei modi con cui gli psicoanalisti stanno nella stanza di consultazione e nelle loro associazioni. Anche i modi di fare formazione, tra cui quello della supervisione, sono mutati, perché è mutato il rapporto tra maestro e allievo .
Queste poche, ma indispensabili osservazioni sull’attuale stagione culturale servono da premessa per inquadrare un discorso che toccherà diversi punti significativi, senza alcuna pretesa di esaustività.
Gargani (1995) inscrive il rapporto tra maestro e discepolo nel "tema più generale della condizione della vita autentica e della vita inautentica degli uomini". L'autenticità viene così definita: "l'autenticità è soltanto una modificazione dell'inautenticità, la quale è una condizione naturale degli uomini nel loro rapporto con il mondo e nel percorso della loro esistenza". Naturalmente il problema dell’autenticità e dell’inautenticità dell’esistenza non concerne solo il rapporto tra discepolo e maestro, ma ogni uomo, a cominciare dal bambino che si trova a nascere e a crescere in un ambiente emozionale, affettivo e culturale già formato da altri, che dovrà riattraversare per poterlo fare proprio in modo personale.
L'idea di autenticità è uno dei parametri assiologici con cui non solo in analisi, ma nelle vicende esistenziali si valutano i comportamenti delle persone. Questa idea non è una scoperta recente, ma una delle eredità che abbiamo ricevuto dal Romanticismo (Larmore, 1996). Con "autenticità" solitamente ci si riferisce alla dimensione soggettiva più vera dell'individuo, quella non "parlata" da voci altre, appartenenti al proprio ambiente affettivo e culturale.
Secondo Gargani, proprio il concetto di autenticità è alla base della trasformazione del rapporto tra maestro e discepolo rispetto al passato. Per il passato il maestro è colui che in una certa cultura definisce una certa normalità del sapere e lo trasmette attraverso la sua testimonianza agli allievi.

"Questa figura autorevole del maestro è coinvolta nel destino stesso della razionalità classica occidentale a partire dal magistero della dottrina platonica [...] La figura del maestro è fondata su una struttura di razionalità che legittimava il suo dire mentre era sottratta alle intemperie del tempo, della storia e dell'esistenza".

Gargani sostiene che tale modo di pensare comporta due importanti conseguenze: 1) l'automatismo della razionalità, che fa sì che "gli uomini mentre pensano, siano pensati da una cosa o da una istanza altra da loro"; 2) l'insegnamento viene inteso come una "tecnica di trasmissione di verità e di significati preesistenti e prestabiliti". Il maestro è quindi il “depositario di un sapere che lo oltrepassa e lo trascende e del quale egli sarebbe il semplice testimone e trasmettitore”.
Nell’età postmoderna la razionalità ha subìto una radicale trasformazione, perdendo i caratteri dell’oggettivismo, del causalismo, approdando a un pensiero, in cui ermeneutica, complessità, narratività e performatività sono i caratteri distintitivi. Il maestro in queste nuova temperie culturale si pone, secondo Gargani, come figura esemplare nella professione del suo pensiero. Nel porsi come norma di se stesso il maestro con il suo insegnamento va però oltre se stesso. E in questo suo andare oltre incontra il discepolo. Il quale a sua volta lo stava aspettando, mosso dal desiderio di sapere. Non c’è quindi una seduzione da parte del maestro, o peggio un indottrinamento, come potrebbe verificarsi in un orizzonte in cui vi è una verità oggettiva, oppure dei parametri metodologici obbligati. Anzi il tipo di incontro che avviene tra maestro e discepolo ha i caratteri quasi magici della perfezione, della ricerca della verità.

"È soltanto quando il discepolo è pronto, che sorge la figura del maestro. […] Il maestro diventa maestro, il maestro diventa la figura esemplare per il discepolo in quanto egli prende forma nell’orizzonte d’attesa del discepolo, in quanto egli diventa contro il discepolo la figura più prossima alla verità che il discepolo non sa riconoscere in se stesso; in quanto il maestro diviene più vicino al discepolo di quanto il discepolo sia vicino a se stesso”.

Le parole di Gargani richiamano la storia che Claudio Magris racconta in “Maestri e scolari” nel suo splendido Utopia e disincanto (1999).

In quel Midrash si parlava di Rabbi Meir, un caposcuola dell’ortodossia ebraica, il quale era allievo di un eretico, Elisha ben Abiyuh, detto Akher. Un sabato i due discutevano accanitamente di questioni religiose, Akher in groppa a un asino e Rabbi Meir a piedi, in ossequio al divieto di cavalcare nel giorno sacro; presi dalla loro controversia, erano giunti senza accorgersi al limite del cammino che, di sabato, un pio ebreo non può oltrepassare. Rabbi Meir, distratto, stava per varcarlo, quando il suo maestro eretico, che fino a quel momento aveva confutato le sue opinioni ortodosse, lo fermò dicendogli di tornare indietro, perché quello era il suo confine ed egli non doveva procedere oltre per seguirlo.

Magris sostiene che “questa storia è uno dei più intensi apologhi sul rapporto fra maestro e allievo”, perché mostra che

il maestro è tale perché, pur affermando le proprie convinzioni, non vuole imporle al suo discepolo; non cerca seguaci, non vuole formare copie di se stesso, bensì intelligenze indipendenti, capaci di andare per la loro strada. Anzi, egli è un maestro solo in quanto sa capire quale sia la strada giusta per il suo allievo e sa aiutarlo a trovarla e a percorrerla, a non tradire l’essenza della sua persona.

Farò due serie di considerazioni rispetto ai concetti espressi da Gargani e da Magris: 1) riguardo al rapporto maestro-allievo in generale; 2) riguardo all’ambito formativo psicoanalitico. Relativamente al primo punto, trovo che la descrizione della relazione tra maestro e discepolo così come viene attuata da Gargani e da Magris riguardi solo parte del loro rapporto. Se dovesse riguardare l’intero loro rapporto si creerebbe una situazione a rischio: di totale sottomissione da parte dell’allievo. Il ritenere che la propria verità possa essere conosciuta dal maestro e non da se stesso potrebbe indurre l’allievo ad atrofizzare la sua libertà di giudizio e le sue capacità critiche. La relazione con il maestro potrebbe trasformarsi per l’allievo in un appiattente indottrinamento, invece che in un percorso di ricerca di verità e d’identità.
Nel rapporto analitico è auspicabile che l'analista sappia indicare in certi momenti cruciali "la strada giusta", ma ritenere che egli sia tout court il depositario di un sapere di cui l'analizzando sia privo, ecco questo può condurre alle analisi “lavaggio del cervello”, che forse hanno contribuito alla definizione dell’analista come “strizzacervelli”, soprattutto in America. La riflessione analitica di questi ultimi anni, sulla scia del bioniano "il paziente è il nostro miglior collega", ha ridimensionato il supposto sapere dell'analista. Gli stessi concetti di circolo ermeneutico e di narratività hanno ridefinito il rapporto analitico in termini radicali, in cui lo schema relazionale di tipo asimmetrico ha lasciato spazio sempre maggiore a quello della reciprocità.
Vattimo (1995) addirittura, citando Kierkegaard, ritiene che il rapporto tra maestro e discepolo debba essere solamente simmetrico: "il discepolo è l'occasione perché il maestro comprenda se stesso, e viceversa il maestro è l'occasione perché il discepolo comprenda se stesso". Ma anche una simile concezione finisce per valorizzare un solo aspetto, seppur importante, della relazione, trascurandone altri, altrettanto importanti, come l'asimmetria rispetto alle esperienze, l'asimmmetria rispetto ai saperi, l'asimmetria rispetto all'autorità. E non va trascurata un’altra asimmmetria, quella inerente il potere, che il rapporto asimmetrico tende a innescare. Tutti i rapporti umani indistintamente, anche quelli più improntati all'autenticità, al rispetto, all'amore, partecipano per qualche grado e in qualche modo e tempo all'universo immaginario (Napolitani, 1987), e non possono quindi esseri esenti dalle varie espressioni del potere. Soltanto considerando l’insieme degli universi relazionali in cui un rapporto si struttura, e anche si lacera, è possibile fornire una descrizione che non sia parziale.
Il punto (2) riguarda la situazione formativa. Va tenuto presente che la formazione avviene solitamente all’interno di un istituzione, pubblica o privata, e che l’istituzione come peculiarità ad essa intrinseca ha l’esigenza disorganizzare la sua identità attraverso una teoria e un metodo. Teoria e metodo che vanno tenuti per lo più stabili per permetterne la trasmissione. L’istituzione ha bisogno di stabilità per la propria sopravvivenza, E la richiedono anche quelle istituzioni la cui organizzazione è lassa, aperta e i propri obiettivi cambiano spesso. L’istituzione è organizzata in modo tale che la sua identità sia riconosciuta e confermata, per assicurare la sopravvivenza. Pertanto nella formazione istituzionale sono inevitabili irrigidimenti di ruoli, ripetitività di contenuti. E l’asimmetria tende ad essere vissuta come sicura posizione di potere invece che come responsabilità.
Quando Gargani fa riferimento al rapporto tra maestro e discepolo in termini winnicottiani: “la madre pone il seno reale proprio là dove il bambino è pronto a creare, e al momento giusto”( Gioco e realtà, 1971 ), viene descritta una condizione "occasionale", che può anche darsi ripetutamente, ma non è una condizione di stabilità. Sappiamo per personale esperienza analitica e di vita che tale rapporto non si dà né sempre, né spesso, anche se da una parte c’è una madre sufficientemente buona e dall’altra un figlio sufficientemente buono. In un’istituzione formativa, non meno che in un’istituzione familiare, bisogna essere ben motivati, perché una tale relazione possa verificarsi.
Questa relazione a cui fanno riferimento Gargani da una parte, e Winnicott dall'altra a me pare si riferisca a quella condizione "straordinaria" e puntuale che viene descritta da Diego Napolitani (1986) nell'universo protomentale. In esso soggetto e oggetto s'incontrano in un miracoloso incontro di pienezza e di dilatazione in cui un nuovo mondo sembra d'improvviso autogenerarsi.
Potremmo pensare allora che sia in analisi che nel rapporto formativo analista e maestro possano essere promotori di stati protomentali, che creino nell'analizzando e nell’allievo nuove generazioni di mondo, attraverso cui essi costruiscono la loro identità. L’analista e il maestro rappresentano le figure tramite le quali analizzando e allievo si spogliano delle loro componenti estranee, inautentiche e possano creare in se stessi nuove componenti autentiche. Ma sono d’accordo anche con Vattimo che reciprocamente analizzando e allievo possano essere l’occasione per analista e il maestro per fare lo stesso percorso.

“il maestro, quale che sia e quando che sia, se è un maestro, è colui che restituisce al discepolo a se stesso e alla sua condizione di autenticità attraverso trasformazioni e elaborazioni di pensiero, perché si sa che – per quanto possa risultare incredibile – per diventare se stessi occorre inventarsi” (Gargani,1995).

Anche il discepolo può essere colui che restituisce al maestro alla sua condizione di autenticità, perché possa diventare se stesso inventandosi. Anche se è opportuno fare distinzioni rispetto alla portata delle trasformazioni che interessano il maestro e l’allievo e rispetto all’evenienza “occasionale” della condizione di autenticità.
La frase di Gargani colpisce per la sua parte finale: “per diventare se stessi occorre inventarsi”, che è anche la frase finale del suo saggio. L’identità non è qualcosa di stabile, ma è qualcosa che si costruisce continuamente secondo un processo inventivo.
In questa nostra società, senza Dio, senza padre – nonostante la sterminata folla dei Papa-boys del Giubileo 2000 – il richiamo all'autocreazione sono ormai molto frequenti. Se sia giusto che sia così, non so. Certo che la procreazione assistita, l'ingegneria genetica, oltre al capovolgimento di molti valori per tanti secoli dati per acquisiti, mettono in discussione proprio la necessità e la bontà della tradizione, addirittura quella delle origini. Anche la cinematografia, che nei nostri tempi è più sensibile della letteratura ai nuovi fermenti culturali e sociali, ci offre un prodotto artistico in cui il capovolgimento dei valori trova un'alta espressione. Mi riferisco al film di Pedro Almodòvar Tutto su mia madre. Ed è in questo film che viene pronunciata la ormai celebre frase di Agrado : “la vera autenticità non sta nell’essere come si è, ma nel riuscire a somigliare il più possibile al sogno che si ha di se stesso”.
Che sensazione di libertà, di creatività e anche un po’ di onnipotenza! Ma è possibile inventarsi, senza fare riferimento che a se stessi? L'altro è solo un compagno di viaggio e strumento di cui dobbiamo sbarazzarci per scoprire la nostra essenza?
Beppe Sebaste nel suo agile, divulgativo Porte senza porta. Incontri con maestri contemporanei (1997) propone una posizione un po' diversa da quella di Gargani. Egli pur citando a più riprese il filosofo e riportando anche il passo finale del suo saggio – quello in cui si dice che "per diventare se stessi occorre inventarsi" – nell'introduzione del suo libro fa riferimento a una metafora che contraddice il concetto dell’invenzione di sé:

Per dirlo subito in una frase, maestro è colui che indica il cammino del ritorno a sé. Colui che aiuta a ritornare a casa.
Tornare a casa significa diventare ciò che si è. L’educazione di un maestro consiste quindi nel restituire qualcun altro, che possiamo chiamare discepolo, da un’esistenza inautentica a un’esistenza autentica.

Come si vede, Sebaste riprende la tesi di Gargani dell'autenticità, ma la immette in un movimento di sviluppo esattamente contrario rispetto a quello prospettato dal filosofo. Per Gargani il maestro aiuta l’allievo ad essere autentico e a diventare se stesso, secondo un movimento in avanti, un allenamento della mente che implica un continuo inventarsi. Per Sebaste il movimento è all’indietro, un ritorno. La vicenda umana assomiglia quindi a quella di Odisseo, che dopo perigliosi e a volte anche allettanti perdimenti ritrova se stesso, approdando finalmente alla sua isola natia. La metafora potrebbe significare che dentro di noi abbiamo un nucleo di autentica soggettività che il nostro incontro con il mondo ci fa perdere. Anzi il nostro incontro con il mondo ci carica di parti inautentiche, ossia altrui, che solo un difficile, pericoloso percorso di vita e di conoscenza ci può permettere di ritrovare in noi stessi, riandando appunto alle origini.
Le posizioni di Gargani e di Sebaste portano a formulare domande diametralmente opposte. Bisogna emanciparsi dalle origini che ci appesantiscono delle colpe degli altri, oppure bisogna ritornare ad esse per bere il nettare della nostra vera natura? Evidentemente la diversità delle posizioni dipende da come si considerano le origini, che immagine si ha di esse: se fonte pura o mare contaminato.
Una posizione che prescinda dal problema delle origini, o meglio lo immette nel flusso continuo della vita è quella del poeta John Keats (1819). L’assertore della negative capability, ripresa poi da Bion, coglie nodi importanti nel processo del conseguimento dell’identità. Sono parole ispirate, consequenziali e rigorose come quelle di un filosofo:

Ci possono essere intelligenze o scintille della divinità a milioni, ma non ci sono Anime finché quelle scintille non acquistano identità, finché ognuna non è personalmente se stessa. […] Ho cominciato a riflettere in che modo le circostanze esterne influiscono sull’uomo – e che cosa sono le circostanze? se non le pietre di paragone del cuore? E che cosa sono queste pietre di paragone? Se non le prove che il cuore affronta? E che cosa sono le prove del cuore se non ciò che tempra e modifica la natura dell’uomo? E che cos’è questa natura modificata se non la sua Anima? E che cos’era la sua Anima prima che venisse al mondo e subisse queste prove e alterazioni e perfezionamenti? Una intelligenza, senza Identità; e come può formarsi l’Identità? Attraverso il Cuore. E come può il cuore diventare il mezzo di questa trasformazione se non in un mondo di circostanze?

L’identità viene a formarsi a contatto con il mondo, soprattutto con figure, come quelle dei genitori e dei maestri, in cui non solo l’intelligenza, ma il cuore è sottoposto a prove, a cambiamenti, a perfezionamenti. È nella frizione con il mondo che l’anima scopre se stessa. L’anima è “natura modificata”. Il che potrebbe significare che l’identità dell’individuo non raggiunge mai una sua conchiusa definizione, ma è soggetta a continue trasformazioni nel suo ininterrotto dialogo con le “circostanze”. Keats permette di capire meglio Gargani, quella frase molto bella, ad effetto, ma sibillina e non sufficientemente argomentata: “per diventare se stessi bisogna inventarsi”. La posizione di Keats mi sembra molto simile a quella espressa dal pensiero gruppoanalitico di Napolitani(1987), quando si dice che l’identità è un processo in divenire, in cui la componente soggettiva e creativa riattraversa continuamente la componente ereditata, matriciale.
Nonostante Sebaste proponga un discorso che non ha un carattere di organicità e non è tenuto insieme da un stringente argomentare, tuttavia il suo libro, fatto di interviste a vari maestri nelle diverse discipline (anche orientali) e arti, offre al lettore un ottimo aperitivo, che stimola ad assaporare cibi più prelibati e insieme più robusti.
Tra i gustosi salatini trascelgo quello del maestro vasaio Frère Daniel, che consente di fare qualche altro passo avanti nel nostro percorso. Dirò, per inciso, che tra tutte le interviste riportate quella al maestro vasaio mi è sembrata la più interessante. Forse perché ci sono molte analogie tra l’azione educativa e quella della foggiatura del vasaio. Infatti: “sono molte le società che utilizzano l’immagine della foggiatura ceramica per indicare le operazioni del dare forma all’umanità”(Remotti, 2000). Ecco che cosa dice Frère Daniel:

Il primo obiettivo dell’educatore è quello di formare degli autodidatti. Bisogna prima far disapprendere, o diseducare, per educare. Ma l'autodidatta ha bisogno delle scoperte degli altri; è per questo che non si può essere soli nel proprio lavoro.

In questa breve frase vengono accennati almeno tre aspetti fondamentali inerenti il rapporto tra maestro e discepolo: 1) l'obiettivo del maestro è quello di formare autodidatti; 2) la formazione deve passare attraverso un processo di disapprendimento; 3) il discepolo che diventa autodidatta ha bisogno nel suo percorso delle "scoperte degli altri".
Per quanto riguarda il primo punto, credo che sia scontato che l’opera dei maestri abbia lo scopo di rendere gli allievi maestri di se stessi. È l’obiettivo di ogni educazione. Obiettivo che anche Morin indica nel suo ultimo lavoro La testa ben fatta (1999): "la missione della didattica è di incoraggiare l'autodidattica, destando, suscitando, favorendo l'autonomia dello spirito".
Il secondo e il terzo punto riguardano i modi per diventare autodidatti. Un modo consiste nel "processo di disapprendimento", un altro modo contempla il "bisogno delle scoperte degli altri".
Il “processo di diseducazione” potrebbe rientrare nel "processo di disidentificazione". I due processi non sono sovrapponibili. Possono però coprire una vasta area semantica comune, almeno in questo contesto. Infatti chi parla di "disapprendere" è un maestro vasaio e non uno psicoanalista. Inoltre bisogna considerare che il rapporto fra maestro e discepolo non coinvolge solo le funzioni cognitive, ma un più vasto ventaglio di modalità relazionali.
Avanzo delle perplessità rispetto alla sequenza temporale immaginata dal maestro vasaio. Non ritengo che, come per l'apprendere nuove competenze, così per l'acquisizione di nuovi modi d'essere, si verifichi prima una fase di disapprendimento e di disidentificazione, in cui si demolisce il vecchio, e successivamente una fase di apprendimento di altre competenze e di altre identificazioni, in cui, come per i palazzi, vengono erette le nuove strutture. I due processi avvengono per lo più contemporaneamente, secondo un percorso erratico e sotterraneo, di cui noi vediamo solo qualche segno. La "crisi", ossia il momento del mutamento, si verifica quando i due elementi, o le due configurazioni ideo-affettive non possono più convivere tra loro ed è necessario operare una scelta. E' allora necessario perdere, lasciare ciò che si era, separarsene forse definitivamente.
Nella formulazione “l’autodidatta ha bisogno delle scoperte degli altri” ravviso un accenno al processo d'identificazione. Pertanto le strade per raggiungere la condizione di autodidatti sarebbero la disidentificazione di modalità apprese precedentemente, e le nuove identificazioni, che si verificano a contatto di chi “scopre” qualcosa, ossia di chi fa delle esperienze significative di nuovi significati e modi d’essere.
Ma come avviene concretamente la disattivazione di un processo e l’attivazione dell’altro? Sempre Frère Daniel ci aiuta a capire meglio:

“Si è costretti all’inizio a far ripetere degli esercizi, ma c’è un momento in cui l’allievo, ripetendoli, scopre se stesso; e scopre che forse i gesti che gli vengono imposti dal maestro devono essere modificati, perché lui fisicamente e psichicamente, è diverso dal maestro. Dunque parte dagli esercizi del maestro, e nella misura in cui li rispetta scoprirà come modificare quei gesti, affinché i suoi gesti gli diventino più personali.

Per operare una disidentificazione bisogna insomma spezzare il cerchio della ripetizione, dell’automatismo, che ci fa essere come siamo mediante i modi acquisiti nel corso della nostra esistenza. Ma un buon analista, come un buon maestro, sa che non è possibile accedere ad una nuova espressività, se non attraverso la ripetizione.
Ecco un altro elemento importante che intride il rapporto del discepolo con il maestro e che attraversa la sua strada verso l'emancipazione.
Anche in analisi la questione della ripetizione è una materia difficile da trattare. Il paziente soffre per via di certi automatismi che non riesce a disattivare e a cambiare. La sua è una ripetizione coatta. Nelle nostre sofferenze ripetute e automatiche siamo un po' tutti degli ossessivi. Noi sappiamo che un buon analista è colui che nei modi e nei tempi giusti per il paziente sa accompagnarlo nelle sue ripetizioni, assistendolo. La dinamica che viene riprodotta in analisi, pur essendo la medesima che da sempre viene ripetuta dal paziente nella sua vita e che è la fonte della sua sofferenza, assume una qualità diversa, perché diviene "ripetizione assistita". Questa qualità è la differenza che fa la differenza, come sulle orme di Bateson oggi si ama spesso dire. La ripetizione è alla base sia del processo di apprendimento che del processo di apprendimento. Si apprende per accogliere il nuovo e si ripete per liberarsi del vecchio.
Nelle parole di Frère Daniel si riscontra un’altra grande verità, concernente la dinamica tra soggetto e modello, tra soggetto e legge: che la trasgressione, che non sia preceduta da una fase di adesione rispettosa, e anche amorosa aggiungerei, al modello non può portare ad una maggior scoperta di se stesso. Spiegherò meglio il concetto avvalendomi della limpidezza espressiva di Claudio Magris (1999):

"(i maestri) non sono necessariamente le figure che trasmettono la Legge; possono essere anche anarchici che la trasgrediscono, ma sempre in nome della necessità di trovare la propria via alla Legge".

L’autodidatta, il discepolo, l’allievo per diventare maestro di se stesso deve scoprire dentro di sé delle regole, sue proprie, deve scoprire appunto l’auto-nomia, che gli consenta di gestire la sua persona e i rapporti della sua persona con il mondo.

Abbiamo toccato finora vari aspetti del rapporto tra maestro e allievo: il tema dell'autenticità; il tema della verità, conosciuta almeno inizialmente più dal maestro che dall'allievo; il tema del loro legame peculiare, consistente in un'intesa "magica", per cui l'uno realizza il desiderio dell'altro nell'essere proprio lì dove l'altro l'aspetta; il tema della disidentificazione; il tema della dialettica tra soggettività e legge. Sono temi che compongono anche il processo analitico e riguardano la formazione della personalità.
Ora voglio affrontare un altro aspetto inerente i rapporti “formativi”, che in qualche modo attraversa tutti gli altri richiamati più sopra. È un aspetto che ci rende consapevoli della contraddizione che permea ogni rapporto veramente formativo e che lo rende spesso conflittuale. Mi riferisco alla sua qualità intrinseca e imprescindibile, ossia alla sua profondità.
Morin (1999), citando Durkheim, sostiene che la finalità dell'educazione è quella di "costituire in lui [discepolo] uno stato profondo [sottolineatura mia], una sorta di polarità dell'anima che l'orienti in un senso definito, non solamente durante l'infanzia, ma per tutta la vita". Educare significa quindi formare per sempre, per la vita: imprimere una forma duratura. Questa concezione è diversa, se non opposta a quella che prevede l’allievo in un’attitudine continuamente inventiva di se stesso. Ma a ben considerare il passo durkheimiano, il filosofo francese non fa riferimento a una forma, ma a uno stato. Ciò che sembra essere per lui importante è creare nell’educando, nell’allievo la profondità, del sentire e del pensare. Quindi non si tratta di trasferire dei contenuti, affettivi, cognitivi o culturali, ma si tratta di creare un’attitudine alla profondità. Essa è sicuramente un aspetto fondamentale dell’anima, come era già riconosciuto fin dall’antichità e a cui “accenna” Eraclito: “i confini dell’anima , nel tuo andare non potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade: così profonda l’espressione [logos] che le appartiene” (Colli 14 [A 55]).
Se è vero che la profondità è l’elemento fondamentale, l’anima deve comunque avere un logos, perciò un forma. Il paradosso della educazione, della formazione e del rapporto originario madre-figlio consiste in questo: deve essere profondo, deve mettere radici, deve essere "formativo", deve dare forma, deve “segnare in” profondità, tuttavia deve anche consentire al figlio, all’allievo di spogliarsi dell’educazione ricevuta e di scoprire continuamente se stesso, inventandosi nell’incontro con le “circostanze”. Sembrano operazioni inconciliabili, e comunque veramente molto problematiche. Sono comunque operazioni assai faticose, come quelle che segnano i passaggi della vita. Sono operazioni che rieditano l’originario “processo di umanizzazione”, che Remotti (2000) definisce “antropo-poiesi”. È un’opera di foggiatura molto profonda, che scava nel profondo, all’interno dell’intimità del corpo, come i rituali di molte società “primitive” testimoniano a volte con durezza (infibulazione, circoncisione ecc.), e che dà forma di uomo all’individuo.
Che cosa spinge prima il bambino, poi il ragazzo, poi l’adulto a rifare tale grandiosa costruzione? Perché è così forte la tensione ad esperire nuove possibilità dell’essere, cercando nuovi maestri?
Una risposta potrebbe essere: l’eros. Napolitani (1987) definisce l’eros per la sua attitudine a un “doppio congiungimento”:

quello che unisce l’autòs con il già stato, l’uomo con gli dei, il cittadino con la pòlis, nella dimensione esperienziale della verità etica, e quello che unisce l’autòs con il non ancora, con ciò che egli stesso va fondando (la bellezza) e con i frutti dei suoi concepimenti nella bellezza, nella dimensione della verità estetica.

Eros è attitudine all’unione, per ristrutturare realtà già date, per creare nuove realtà. Ed è a causa di quest’attitudine che chi è percorso dalla tensione erotica può sopportare l’onere, le fatiche, ma anche la pienezza, l’esaltazione che accompagna la creazione di connessioni, di legami, di mondi. Fuori di sé, ma soprattutto dentro di sé.
La poiesis sostanziata dall’eros è il motore che spinge il bambino, l’allievo, ma anche il genitore, il maestro, quando non cadono nell’istituzionalizzazione del loro ruolo. Dice Morin (2000):

Il carattere professionale dell'insegnamento porta a ridurre l'insegnante all'esperto [ Keats direbbe: a Intelligenza].L'insegnamento deve ridiventare non più solamente una funzione, una specializzazione, una professione, ma un compito di salute pubblica: una missione. Una missione di trasmissione. La trasmissione richiede certamente competenza, ma richiede anche, oltre a una tecnica, un'arte. Essa richiede ciò che nessun manuale spiega, ma che Platone aveva già indicato come condizione indispensabile di ogni insegnamento: l'eros, che è allo stesso tempo desiderio, piacere e amore, desiderio e piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi. L'eros permette di tenere a bada il piacere legato al potere, a vantaggio del piacere legato al dono. E' ciò che in primo luogo può suscitare il desiderio, il piacere e l'amore dell'allievo e dello studente. Là dove non c'è amore, non ci sono che problemi di carriera, di retribuzione, di noia per l'insegnamento. La missione suppone evidentemente la fede, in questo caso nella cultura e nelle possibilità della mente umana" (Morin,1999).

Il termine “missione” pur nelle sue connotazioni positive rimanda anche all’indottrinamento coatto e violento che in passato venne operato ai danni di popolazioni che dovevano essere rigenerate dal messaggio cristiano. Anche linguisticamente non ci sono scorciatoie. Ogni termine contiene spesso realtà in opposizione. Ma non si tratta evidentemente di una questione linguistica.
Sappiamo che creare nuove realtà, nuovi saperi significa operare delle scelte. Significa fare certe opzioni, che però cancellano altre possibilità, altre realtà.
Anche il sapere ci costringe a definire, a parcellizzare, a segmentare, a perdere. In questo inesausto e infinito prodigarci nel recupero di parti di noi e del mondo, ristrutturiamo, riorganizziamo perennemente il nostro pensiero. L’introduzione dell'ecodisciplinarietà e della metadisciplinarietà sembra tentare una sorta di quadratura del cerchio, per cui è possibile contemporaneamente essere chiusi in determinati saperi e aperti alla loro messa in discussione:

Dobbiamo "ecologizzare" le discipline, cioè tener conto di tutto ciò che vi è di contestuale, ivi comprese le condizioni culturali e sociali, cioè dobbiamo vedere in quale ambiente nascono, pongono problemi, si sclerotizzano, si metamoforsano. Occorre anche un punto di vista metadisciplinare, dove il termine "meta" significa superare e conservare. Non si può distruggere ciò che è stato creato dalle discipline; non si può distruggere ogni chiusura, ne va del problema della disciplina, del problema della scienza come del problema della vita: bisogna che una disciplina sia nello stesso tempo aperta e chiusa.

Anche il “fare umanità” implica operare delle scelte. Scegliere significa scartare, eliminare. Il risultato sarà sempre all’insegna dell’incompletezza: non è possibile il conseguimento ultimo della forma dell’essere. Non esiste la forma definitiva del buon analista. Nel formare si sono fatte determinate scelte. E scegliere vuol dire anche spegnere possibilità, fare violenza. Il “fare umanità” o anche più modestamente “fare formazione” ci condanna ad accettare l’inestirpabilità del male e dell’errore. Come sostiene Remotti (2000),

fare umanità è sempre, anche, fare dis-umanità. [Costruire se stessi] comporta in primo luogo un’operazione di selezione a cui è impossibile sottrarsi, e quindi un eliminare, distruggere, far fuori una serie di possibilità. […] C’è violenza – per quanto camuffata –nella soppressione delle possibilità; c’è anche “crudeltà” nel modo con cui si induce o si costringe ad abbandonare l’infanzia (che è appunto l’insieme delle possibilità non ancora realizzate); c’è o ci può essere “errore” nel prendere una strada, anziché un’altra; c’è o ci può essere “inganno” nel far credere che si diventa uomini in tal modo e non in altri, che quella, e non altre, è la forma autentica di umanità.

Come si vede, in queste parole c’è tutta la drammaticità sottesa all’azione educativa e anche formativa. Il maestro sa meglio dell’allievo qual è il suo bene, ma proprio grazie a questo suo sapere può perpetrare un “delitto”. La relazione fra maestro e allievo è soggetta a pervertirsi, quando non si svolge in modo autentico. La possibilità di abitare diversi universi relazionali, la molteplicità quindi dei Sé (Mitchell, 1993) induce a credere che l’“esemplarità” del maestro è una condizione fluttuante e non copre l’intera relazione con l’allievo. Napolitani (1997) ha mostrato come ogni atto della mente sia un “mentire”, poiché è impossibile raggiungere una verità assoluta. Il pensiero si struttura secondo un andamento ellittico, lungo una traiettoria che s’avvicina ora più al polo dell’oggettività scientifica, ora al polo dell’ermeneutica.
I buoni maestri e i buoni allievi sanno che sia l’uno che l’altro oscillano tra autenticità e inautenticità, tra creatività e ripetitività, tra dialogicità e potere, tra seduzione e scoperta di sé, tra fare umanità e fare disumanità. Tutte queste oscillazioni possono far venire mal di testa… ma forse questa è una ginnastica che, contrariamente alle molte in voga oggi, può assicurare una discreta salute.


BIBLIOGRAFIA

Colli G. (1980), La sapienza greca, III, Eraclito, Adelphi, Milano
Gargani A. G. (1995), “La figura del maestro. Esemplarità, autenticità e inautenticità, in G. Vattimo (a cura di), Filosofia ’94, Laterza, Roma-Bari.
Keats J. (1984), Lettere sulla poesia (a cura di N. Fusini), Feltrinelli, Milano
Larmore C. (1996), L’eredità romantica, Feltrinelli, Milano 2000.
Magris C. (1999), Utopia e disincanto, Garzanti, Milano
Mitchell S. A. (1993), Speranza e timore in psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 1995
Morin E. (1999), La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina, Milano 2000.
Napolitani D. (1987), Individualità e gruppalità, Boringhieri, Torino.
Napolitani D. (1997), “La narrazione analitica tra semiotica ed ermeneutica. Il mentire come unica verità del ‘fare mente’”, Rivista italiana di gruppoanalisi, XII, 2.
Remotti F. (2000), Prima lezione di antropologia, Laterza, Roma-Bari.
Sebaste B. (1997), Porte senza porta. Incontri con maestri contemporanei. Feltrinelli, Milano.
Vattimo G. (1995) “Introduzione”, in Filosofia ’94 (a cura di), Laterza, Roma-Bari.

 

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