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Diego
Napolitani
Formazione
e trasformazioni negli sviluppi gruppoanalitici.
l'aura
era soave,
e 'l ciel qual è se nulla nube il vela
Petrarca
Dalle
torbide acque degli affari dell’anima emergono pensieri, emozioni,
sogni, null’altro che vapori, ora densi e stabili, ora appena percettibili
ed evanescenti, che si levano verso il vuoto componendo figure le più
diverse. Nuvole. Sono queste che riparano lo sguardo dall’abisso
(dal lat. abyssus, gr. Çbussoq “senza fondo”, comp.
di Ã- priv. e bussáq “fondo”), da quel vuoto
che chiamiamo cielo, di cui diciamo che è la volta emisferica che
sembra limitare verso l'alto la nostra visione e la cui base circolare
sembra posare sull'orizzonte. Lo stesso cielo è cioè una
figura che fa apparentemente da fondo ad ogni altra figura/nube che esala
dall’anima dell’uomo. Eppure dalle nuvole che l’anima
disegna sullo s-fondo del cielo cade la pioggia che ingrossa le acque
dell’anima, e rende fertile le terre ferme, tra le quali l’anima
ondeggia.
Come un arbitrio estetico stabilisce connessioni tra stelle, inventa co-stellazioni
che poi connette col destino degli uomini (l’astrologia), così
arbitrî etici creano con gli infiniti disegni dell’anima (che
l’anima produce o che ritraggono l’anima) co-struzioni che
riguardano i comportamenti umani, le loro relazioni, le loro istituzioni
(le psicologie). Nel nostro tempo le psicologie sono così tante,
così tutte persuasive (basta assumerne di ciascuna la sua propria
indimostrabile verità di fondo), così tutte dotate di genealogie
aristocratiche e di folle di adepti, che se non fossimo ormai consueti
a tale spettacolo saremmo pervasi da quel sottile senso di nausea di chi
entra in un supermercato avendo nel cuore le piccole e calde botteghe
del proprio villaggio, ciascuna con i suoi specifici prodotti, pronti
per specifici usi.
Il mercato d’oggetti d’uso offre manufatti destinati a colmare
vuoti che incessantemente si aprono nella sopravvivenza quotidiana, destinati,
cioè, a saturare bisogni avvertiti come mancanze (non ha alcun
rilievo se considerati come primari o se emergenti secondariamente dai
costumi sociali e dalla stessa sovrabbondanza dell’offerta). Ma
a quale ordine di vuoti, di mancanze si offre il “mercato delle
psicologie”? Quel che nominiamo come apparato cognitivo, affettivo,
emozionale nell’uomo è un abisso tra due infiniti, come un
punto assolutamente virtuale da cui dipartono due semirette, quella del
passato e quella del futuro, ma nella sua virtualità esso non è
una “cosa” poiché qualsiasi “cosa” è
comunque pre-(s)-ente, “un ente che sta davanti al nostro sguardo”.
Tra il suo passato e il suo futuro non c’è per la mente uno
spazio/tempo fermo, tra memorie e desideri non c’è altro
che una vocazione linguistica, un presente che può significare
l’attimo fuggente, una stagione, una vita, un’era geologica,
o l’intero cosmo nel quale abitiamo. L’insolubile aporia che
compare nel titolo dell’ultima opera di Bion, “La memoria
del futuro”1, viene chiosata da Furio di Paola con uno straordinario
lavoro intitolato “Il tempo della mente”2. A questa indeterminabilità
della “cosa”-mente l’uomo non regge, ed è da
sempre stato indotto ad ancorare questo impensabile vuoto alle “cose”,
concrete o astratte, che trovano la loro sostanza nel loro essere “cause”
(la parola cosa deriva dal latino causa): si tratti di cause inerenti
alla natura del mondo fisico (e quindi somatico) o inerenti alla natura
metafisica del divino, la rappresentazione della cosa/causa colma il vuoto
della irrapresentabilità di quella stessa mente che si rappresenta
il mondo. Ma la mente continua a interrogare se stessa come un ente che
sta fuori – abs-ente – dal suo sguardo e allora parla di essa
come di un cielo che sembra una cupola che sembra poggiare sulla tonda
linea dell’orizzonte.
Le psicologie ereditano dalle filosofie, dalle teologie, dalle cosmologie
il compito di definire questo cielo, in quanto componente della vita specificamente
umana, e chiamando tale componente psiche (dal gr. yuxò, connesso
con yòxw «respirare, soffiare») intendono agganciarsi
alla fisicità dell’atto mentale e quindi alla sua osservabilità
sperimentale. Se la psiche diventa oggetto, essa smarrisce il suo carattere
metaforico, e come il cielo supposto esserci qual è se nulla nube
il vela, nella costruzione poetica di Petrarca, essa viene coperta dalle
mille figure della scienza psicologica, che finisce così col vedere
solo ciò che essa ha prodotto e non l’abisso che presume
di osservare attraverso i suoi paradigmi.
Non si tratta ovviamente di restituire alle metafisiche spiritualiste
la competenza esclusiva a trattare gli affari dell’anima. Si tratta
piuttosto di includere nei modi della cognizione umana anche quanto sfugge
alle misure della razionalità o, per meglio dire, a quel tipo di
razionalità che fa dell’anteriorità il fondamento
di ogni fenomeno e di ogni processo di conoscenza. Nell’uso della
parola genesi [gr. cÉnesiq, dalla radice cen- di cécnomai
“nascere”] si fa riferimento, nel linguaggio comune come in
quello scientifico, alla provenienza del nascente e non al suo divenire,
al suo “già-stato” e non al suo “non-ancora”,
al suo essere conclusione di trasformazioni e non apertura di nuove possibilità.
Nel linguaggio scientifico il fenomeno nascente è il cardine intorno
al quale il passato viene ribaltato nel futuro, in modo che questi possa
rientrare, approssimativamente, nel dominio del già-noto nei termini
della sua prevedibilità. Se del nascente dovessimo prendere in
considerazione oltre alla sua condizione di generato anche, e in ugual
misura, quella di generante, oltre alla sua originarietà nella
sua deriva replicativa, anche la sua originalità nei suoi impensabili
sviluppi, ci imbatteremmo con il concetto di creatività. Dice a
tal proposito Garroni3
Ciò che ostacola la messa a punto del problema della creatività
è uno schema epistemico assai più antico [rispetto a quelli
della metafisica vitalistica o del meccanicismo deterministico], tale
per cui l’unica strada praticabile per giustificare, fondare, spiegare
l’osservabile sembrava essere quella di risalire dall’osservato
a “qualcosa di anteriore” che ne fornisse per somiglianza
il modello (...) Si ha a che fare con qualcosa che caratterizza un orientamento
complessivo nei confronti del mondo e dell’esperienza, di una specificazione
arcaica dell’idea di necessità e legalità, destinata
a permanere e a conservare gran parte della sua efficacia anche in condizioni
profondamente mutate e il cui superamento richiederà un lavoro
gigantesco e multilaterale.
Sempre che non si voglia lasciare all’astrologia o ad altre pratiche
divinatorie quanto si profila come possibile nel divenire dell’uomo,
questo può essere affrontato con il medesimo rigore, pur se con
diversi strumenti logici4, con i quali se ne studia l’originarietà.
La figura che propongo, tra le tante che vestono il nostro cielo, è
quella di un tronco di cono, a mo’ di imbuto, che rappresenta lo
spazio immaginario nel quale qualsiasi soggetto umano, nella sua facoltà
cognitiva, è posizionato “naturalmente” (tenendo presente
il pregnante enunciato di Gehlen per cui “la cultura è la
natura dell’uomo”). Ma le figure cambiano di significato a
seconda del senso, cioè della direzione dello sguardo che l’individuo,
lì incuneato, assume.
Fig. 1 Fig. 2
Nella Fig. 1 la direzione dello sguardo va verso il restringimento del
cono, tenendo presente che questo si inoltra non solo verso l’origine
individuale, ma anche verso l’origine transgenerazionale, cioè
verso un infinito anteriore. L’esplorazione di questo infinito va
dalla codificazione delle matrici famigliari, in senso genetico e in senso
culturale, alla codificazione dei processi evolutivi di specie e di genere,
alla catalogazione delle particelle elementari e delle loro innumerevoli
combinazioni, alla ricerca della causa prima sia nel micro- che nel macro-cosmo.
Qualunque sia il percorso, quale che sia la materia attraversata, si tratta
sempre di un accertamento del già-stato, dell’ipoteticamente
già-noto, della scoperta di una realtà già istitutita.
Questo è il compito delle scienze cosiddette esatte che costituiscono
il sapere che pone l’accento sull’oggetto, e sui sensi che
fisicamente lo rilevano, cercando di neutralizzare, nei limiti del possibile,
l’errare del soggetto tra fantasie, emozioni e ogni altro “errore”
di tal natura.
La Fig. 2 vorrebbe indicare un capovolgimento di prospettiva: lo sguardo
è vòlto verso l’apertura del cono, cioè verso
un infinito che si apre e che riflette l’heideggeriana apertura
dell’uomo al mondo. Non quindi infinito restringimento dell’esplorazione
che s’addentra nelle cose-che-sono, ma infinito slargamento di tale
esplorazione nei mondi del possibile, delle cose-che-divengono. E qui
si tratta di un divenire che non consiste nella prevedibile coda di una
serie di fatti già tutti insediati nell’anteriorità,
ma di un divenire che si auto-genera come quello che fa capo all’irriducibile
mistero dell’atto creativo. L’esplorazione di questi mondi
non approda a scoperte come accertamenti di ipotesi sul reale in quanto
già-stato da sempre, ma esso consiste nella produzione di un reale
su cui si fonda l’esperienza dell’alterità. Qualsiasi
fenomeno che tocca i nostri sensi viene da noi appreso, immagazzinato
nella nostra memoria, appropriato dalla nostra identità, la quale
consiste nel nostro essere parte di quel mondo che diviene parte del nostro
apparato cognitivo. Ma quando il nostro sguardo vagola, strabico, nei
mondi del possibile, oltre l’apertura del nostro angusto imbuto,
è lui a toccare le cose, che conservando la qualità abissale
del mondo che abitano, ci appaiono nella loro irriducibile estraneità,
sono il reale irriducibilmente altro rispetto al nostro essere identici
alla nostra storia. L’invenzione dell’Altro, il rendere Altro
ciò che in prima istanza ci appare semplicemente discontinuo rispetto
alla nostra identità, pur se ad essa appartenente, è opera
del genio, in una dimensione non di pura razionalità ma in una
dimensione propriamente o prevalentemente estetica.5
Genius (la stessa radice di genesis) era nella mitologia pagana, lo spirito,
buono o cattivo, che presiedeva al destino degli uomini dalla nascita
alla morte, un Essere immaginario, assente allo sguardo, a cui si attribuivano
certi eventi della vita o l’ispirazione di risoluzioni prese. Il
Genius era dunque concepito come l’Altro incluso nel sé medesimo,
come l’autore di quell’opera che trasforma la cosa reale in
una reale Alterità. Il genio non appartiene ad una qualche anteriorità,
ma si serve della storia in cui è inscritto per produrre un mondo
che gli sia con-geniale, ed è questo genio che si fa autore di
qualsiasi poiesis: che esso si annunci nelle forme embrionarie del sogno,
o del momento estatico, o del prodigio per cui un rumore diventa suono,
una luce diventa colore, “uno qualunque” diventa quello specialissimo
Altro a cui l’anima si lega come a se stessa, si tratta comunque
di epifanie del genio. Esso si rivela come assoluta singolarità,
ed è pertanto assolutamente solitario, e non gli competono confronti,
misurazioni, relativizzazioni.
Fintanto che la scientificità di una disciplina si valuta in rapporto
alla sua perlustrazione delle anteriorità dei fatti, della loro
causalità (per quanto ampliata nei termini di una causalità
circolare), fintanto che essa si misura con il reale inteso come il già-stato,
le psicologie rientrano a loro modo nel dominio delle scienze positive.
Il paradigma delle psicologie scientifiche si riassume nel termine di
adattamento (termine inteso come parola-concetto e come limite strutturale):
supposta una certa plasticità del soggetto di conoscenza rispetto
all’imperio del reale, certificato dai sensi, e quindi alle leggi
della natura, il problema che le psicologie si pongono è relativo
ai modi e al grado di adattamento del soggetto a questo reale. La psicopatologia
è codificata secondo questo termine e la psicoterapia consiste
in un processo di recupero di una perduta plasticità del soggetto.
Il pensiero scientifico si muove alla ricerca dei meccanismi (terapeutici)
“veramente” efficaci come prova sperimentale della teoria
generale dell’adattamento, partendo più o meno esplicitamente,
dal modello anteriore del comportamento animale.
Questo termine di necessità e di legalità, per riprendere
l’enunciato di Garrone, va superato nella moderna epistemologia
in tutti i campi del sapere in cui emerge con manifesta prepotenza il
concetto di autòs, che è la chiave di volta6 per la comprensione
dei processi auto-organizzativi come processi non sequenziali in una linearità
evolutiva e/o deterministica. In che cosa consiste allora il “lavoro
gigantesco e multilaterale” che Garrone ritiene necessario per il
superamento di questo termine? Esso non consiste ovviamente nella sua
abolizione ma nella sua confrontazione sistematica con l’altro polo
in cui si manifesta la vita. La psicologia deve necessariamente fondarsi
sulla bio-logia (non intesa come studio del corpo ma come studio della
vita) in quanto complessità ad un tempo generata e generante. L’appiattirsi
della psicologia sul polo genetico (come il generato) della biologia approda
ad una sua de-generazione, in quanto non si fa carico del genio come produttore
dell’Alterità del mondo, cioè del reale specificamente
umano.
In questa prospettiva la pratica professionale dello psicologo non può
mirare ad una restitutio ad integrum della plasticità adattativa
dell’individuo sofferente, non può limitarsi a considerare
questa sofferenza come espressione di difettosi meccanismi di adattamento,
non può cercare conferma delle sue ipotesi nell’efficacia
comunque misurabile dei propri interventi. Essa deve comprendere nel suo
percorso anche quanto si riferisce alla necessità autopoietica
o auto-organizzativa o simbolo-genetica dell’individuo. Se lo sguardo
dello psicologo non è soltanto rivolto al fondo dell’imbuto
nel quale egli stesso – a parità del paziente – è
inscritto, cercando nella sua propria razionalità parametrizzata
dalla sua cultura il modello di ciò che egli cerca di scoprire
nel fondo dell’imbuto del suo paziente, solo allora egli potrà
incontrare, con il suo sguardo volto verso l’abisso che lo separa
e lo unisce al paziente, l’imprevedibile originalità dell’Altro.
Questo sguardo che crea il reale in quanto piena alterità, richiama
l’attenzione del paziente nei modi dello stupore, tanto da indurlo
a sua volta a distogliere momentaneamente il suo sguardo dal proprio fondo
per osare lo slancio verso l’apertura del suo divenire, in qualche
modo evocata dall’apertura del suo analista.
Ho usato altrove7 l’immagine dell’ellisse (dal gr. Ïlleiyiq
«mancanza») per indicare il percorso dell’interlocuzione
analitica intorno ai due fuochi conoscitivi, quello semiotico, o scientifico,
o riduzionistico, e quello ermeneutico, o estetico, o aperturistico. Mettevo
allora in evidenza che i momenti di gravitazione intorno a ciascuno dei
due poli si esprime attraverso l’enunciato di mezze verità,
ovvero comunque di menzogne, che diventano totalizzanti, inattraversabili
da qualsiasi sforzo riflessivo, se il percorso da ellittico si stabilizza
in un movimento circolare intorno a uno dei due fuochi, fino a collassare
in essi. In altri termini, la verità non consiste negli enunciati
proposti da uno o dall’altro dei due fuochi come viene evidenziato
dalla sterile querelle che continua a perpetuarsi tra scientisti “puri”
ed ermeneuti “puri”. È vero che il genio individuale
può privilegiare l’uno o l’altro dei due fuochi, tanto
che il panorama culturale è variamente composto da scienziati e
poeti, da matematici e mistici, da ragionieri e avventurieri. Ma probabilmente
questa antinomia deve essere ricomposta in una complessità unitaria,
– come unitario è il percorso dell’ellisse –
in chi, come mestiere, fa gli affari dell’anima.
La ricomposizione non avviene una volta per tutte, in una sorta di ricetta
che prescrive la combinazione di determinati ingredienti, le loro rispettive
quantità, le procedure delle loro mescole, e i tempi della cottura.
Non esiste una credibile “tecnica psicoanalitica”, quali che
siano le teorie che la sostengono o che ne derivano, perché ogni
tecnica, nell’uso corrente del termine, implica la previsione di
un fine e l’uso di strumenti specificamente congruenti con tale
fine. Il fine dell’interlocuzione psicologica, se si accetta la
sfida della complessità, è quello di confrontare il già-noto,
nell’analista come nel paziente, con il non-noto (da non confondersi
con l’inconscio freudiano che è il già-noto da sempre,
pur se rimosso e continuamente presente sotto mentite spoglie), con ciò
che diviene nelle più imprevedibili forme. Questo fine non può
quindi essere definito a priori ed è solo alla singolare tÉxng
(«arte») dello psicologo, e non ad un manuale di tecnica,
che può essere affidato il compito di condurre la navicella spaziale,
oltre alla sua orbita terrestre, nell’abisso del possibile.
Tutto ciò comporta un gran rigore etico: da un lato la coltivazione
attiva non la replicazione semi-automatica del proprio bagaglio teorico
che deve poter crescere attraversando tutti i passaggi critici che il
percorso ellittico comporta, e, d’altro lato, il mantenere viva
la tensione all’incontro con l’Altro, continuamente insidiato
dalle nebbie del già-noto, della scontatezza, dell’abitualità.
Bion si è puntigliosamente soffermato sul suo essere “uno
psicoanalista in formazione”, sottolineando con ciò il carattere
formativo (trasformativo) della relazione analitica, non solo per quel
che riguarda il paziente, ma anche, e prima di tutto, per quel che riguarda
l’analista stesso. La parola formazione è stata a lungo confusa
con il concetto di apprendimento o di addestramento in nuove tecniche,
mentre in campo psicoanalitico essa è stata usata per intendere
l’acquisizione, attraverso l’esperienza, di un modo di confrontarsi
riflessivamente con il mondo delle emozioni e dei fantasmi. Ma le istituzioni
psicoanalitiche hanno trasformato il concetto di formazione inserendolo
in una prospettiva didatticistica al fine di un’affiliazione istituzionale,
riservando quindi alla pratica professionale di uno psicoanalista “formato”
una connotazione terapeutica, del tutto distinta dall’esperienza
personale di formazione. In questa logica risulterebbe scandaloso parlare
del trattamento analitico di pazienti che non hanno alcun obiettivo di
diventare a loro volta analisti, di un’esperienza di formazione
che coinvolge simultaneamente analista e paziente.
Il concetto di formazione deriva dalla biologia dell’embrione, per
il quale si parla di processi morfogenetici che si auto-organizzano in
relazione al loro ambiente. Bion insiste sulla caratteristica embrionica
della mente umana8, il che significa che, a differenza di altre organizzazioni
viventi, l’uomo è il suo proprio divenire che non raggiunge
mai un grado terminale di maturità. Ho scritto recentemente9:
Nel momento in cui Bion affronta questa dinamica, egli propone una “embrio-logia
della mente”, consistente nell’osservazione “microscopica”
delle disposizioni della mente in quanto mente-in-formazione. Queste disposizioni
si manifestano come idee larvali, non ancora definite in alcun concetto,
come idee selvatiche che necessitano di essere “addomesticate”
per poter entrare a confronto con la cultura e le sue istituzioni. Il
già noto, quali che siano le sue forme sintattiche, relazionali
o istituzionali, può essere un contenitore capace di allevare il
nascente, fornendogli gli strumenti razionali ed estetici perché
esso prenda forma; ma, al contrario, il nascente, nella misura in cui
minaccia la stabilità del già noto anticipandone un cambiamento
che Bion definisce con enfasi “catastrofico”, può non
trovare un accoglimento adeguato, per cui, a ogni passaggio evolutivo,
rischia di esser soppresso sul nascere, diventare ‘nato-morto’:
“un'idea fetale può uccidersi o essere uccisa, e questa non
è solo una metafora”.
In questa prospettiva il processo di formazione consiste in una relazione
capace di accogliere le “idee fetali”, di sviluppare le emozioni
che le accompagnano in pro-mozioni di nuove organizzazioni simboliche
della conoscenza, di eccitare quella creatività concepitiva dell’Altro
per la quale si dischiude ogni forma di progettualità. Una pratica
che miri ad un processo formativo perde ogni possibilità di essere
connotata come terapeutica secondo un paradigma medicalistico, e rientrerebbe
a pieno titolo nelle scienze dell’educazione e della formazione.
Ma come possiamo specificare questa particolare forma di educazione, assumendo
di questo termine il suo carattere e-mancipativo, il suo e-ducere nel
senso di liberare le potenzialità auto-ri-organizzative del soggetto
dai vincoli eccedenti del passato?
Bion parla spesso nella sua ultima opera di psicagogia, tanto che Di Paola
(op. cit.) afferma;
Memoria del futuro, come dramma in tre tempi, è il documento di
una psicagogìa. Mostrando al lettore quanti contrasti, dilemmi,
rischi 'esplosivi' (l'angoscia catastrofica non vi è soltanto teorizzata),
quale dantesco Purgatorio sia costato all'autore il cambiamento psichico,
Bion non parla più al lettore bisognoso di nozionistiche ‘caselle’,
appigli del solo intelletto che surroghino (e difendano da) la responsabilità
di un diverso esperimento con se stessi, il 'coraggio' di una messa in
gioco del proprio esistere (e quindi, nel caso, del modo di praticare
un certo... mestiere). Nel dire di chi scrive ‘dice’ anche,
illocutivamente, di chi legge.
La pratica psicagogica consiste originariamente in una evocazione dei
defunti perché questi possano indicare la strada a chi l’ha
smarrita, secondo i canoni del passato, della tradizione. In quest’accezione
si tratta esattamente di quella rotazione a 180 gradi del passato nel
futuro, da cui viene bandita ogni incertezza in misura in cui vi si ribalta
il già-noto. Ma per psicagogia si può intendere un percorso
del tutto opposto: il defunto che ha compiuto il tempo della sua vita,
ma non ancora quello della sua morte, si aggira nelle stanze dei suoi
eredi nelle forme del fantasma. La nostra comune ratio non aiuta a darci
ragione di quest’impensabile eventualità e dobbiamo affidarci
alla narrazione di cantastorie per avvicinarci a questo mistero con cui
un’antichissima sapienza popolare ha profonda dimestichezza. Possiamo
tradurre in un linguaggio moderno questa storia dei fantasmi, e possiamo
quindi individuare in queste apparizioni il passato che si fa presente10
. Il farsi presente del passato significa che il passato non vuole morire
anche se già concretamente trapassato. Ma la volitività
del passato come soggetto che si rende presente sarebbe del tutto inefficace
se non trovasse in noi una dimora predisposta ad accoglierlo. Noi non
vivremmo come uomini se la nostra identità non si costruisse su
una storia infinita di lutti. Siamo votati alla morte, per dirla con Heidegger,
non perché essa rappresenta l’unica possibilità certa
che occupa il nostro futuro, alla cui ombra la vita trova, per contrasto,
il proprio godimento, ma perché se non coltivassimo il già-stato,
non avremmo il terreno su cui poggiare i piedi alati del nostro divenire.
La nostra memoria è la casa della morte, ma se bonificassimo questo
terreno nell’illusione di renderlo tutto edificabile per nostri
nuovi, personali progetti, saremmo letteralmente dementi (mente deriva
dal gr. mimnòskw «ricordare»). Eliminata la semiretta
che va verso il fondo dell’imbuto, secondo la metafora illustrata
all’inizio, non potrebbe neanche partire la semiretta volta alla
sua apertura, e rimarrebbe quel punto virtuale, quel puro nulla, quella
pura presenza che coinciderebbe con l’assoluta absentia.
Ma prima e al di là di ogni riflessione razionale sul tema, c’è
la nostra originaria esperienza relazionale, l’apprendimento dei
codici famigliari che si costituiscono come gli imperativi categorici
sui quali ogni ulteriore esperienza si forma. I genitori contrassegnano
i figli con: “tu sarai quel che io sono stato” oppure “tu
sarai quel che io non sono stato”. E, per quanto il più spesso
contraddittorio possa essere questo marchio, esso ci in-segna (segna indelebilmente
in ciascuno di noi) l’appello alla trascendenza. Ogni volta che
noi ripeteremo il desiderio di essere o di non essere, ce lo ritroviamo
come inesaudibile perché è il desiderio, per parti più
o meno estese, del nostro passato, dei morti che ci abitano.
Ma se è vero che i nostri morti non ci lasciano in pace, trascendendosi
in noi con il loro appello alla trascendenza, e che questa trascendenza
è per lo più vissuta da noi come rivolta alle origini più
che al nostro singolare divenire, è anche “vera” la
fantasia che siano anche loro a voler finalmente trovare pace, compiere
cioè il tempo della loro morte. Ma così come hanno avuto
bisogno dei figli per affermare la loro “soprammorienza”,
così è a questi che si rivolgono per raggiungere finalmente
la quiete. Oscar Wilde nel suo “Il fantasma di Canterville”
ci racconta della pìetas di una fanciulla nei confronti di Sir
Simon de Canterville che per trecento anni aveva imposto la sua presenza
di non più vivo e non ancora morto a tutte le generazioni della
sua discendenza fino a quel momento.
«”Virginia, ti prego, non andartene via. Mi sento così
solo e così misero qui che non so cosa mi accadrà. Cerco
il sonno eppure non lo trovo. (…) Da trecento anni non dormo, e
mi sento così stanco!”
(…)
“Caro, caro fantasma, non hai ancora trovato un posto dove andare
a dormire?”
“Al di là del bosco dei pini si trova un piccolo giardino.
Lì l’erba cresce alta e rigogliosa (…) tutta la notte
canta e la fredda luna di cristallo protegge quel giardino con lo sguardo
(…)”
Gli occhi di Virginia si riempirono di lacrime ed ella si nascose il viso
tra le mani.
“Stai parlando del giardino della morte” bisbigliò.
“Si, la morte. La morte deve essere così bella. (…)
Dimenticare il tempo, perdonare alla vita e raggiungere finalmente la
pace. Tu puoi aiutarmi, puoi aprire per me i portali della Casa della
morte, poiché l’amore ti accompagna sempre e l’amore
è più forte della morte”»
Come può questo felice componimento poetico sul rapporto tra un
fantasma, una fanciulla, l’amore e la morte trovare un adeguato
linguaggio nel progetto psicagogico dell’analisi? Il passato da
cui siamo perseguitati (e nel quale al contempo troviamo rifugio) viene
evocato nella pratica analitica nell’intento di presentificarlo
come cosa-causa del male. Questo porre il proprio passato sul banco degli
imputati nasce dal fatto che siamo noi ad invocarlo, come presidio di
certezze quando sperimentiamo la vertigine del vuoto che si apre al nostro
divenire. Ma quando, così invocato, il passato ci cattura, la sofferenza
cambia segno e la vertigine diventa soffocamento, trovandoci allora chiusi
nel fondo del nostro cono. Se l’analista conduce questa inchiesta,
rinserrato a sua volta nelle morse del suo passato (faccio qui riferimento
in particolare alla sua cultura istituita, al suo presumere di essere
“formato” una volta per tutte, al suo adoperare il proprio
“gergo satanico”, direbbe Bion), egli non potrà rimandare
al proprio paziente altro che la sua immagine speculare. Succede allora
qualcosa che potrebbe ricalcare il modello della conversione: “Cambia
il tuo credo: sostituisci ai tuoi idola che non trovano consenso nel mondo,
i miei idola che hanno il potere persuasivo di un mercato globale, perché
tratta di universali”.
Se, al contrario, il passato viene evocato con quell’attenta e commossa
comprensione raccolta nella pìetas, se del fantasma si coglie il
suo essere stato figlio su cui la vita ha incrudelito, e allora con lui
si può “perdonare alla vita” e lo si può condurre
nel “giardino della morte”. Questo far compiere al passato
il tempo della sua morte, significa non “soprammorire” ad
esso, significa poter ascoltare il genio che apre il giorno nell’incerta
luce dell’alba.
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