HOME

 

La Stella del Mattino

Laboratorio per il dialogo religioso

nuova serie – trimestrale

n. 1 - gennaio/marzo 2003

 

 

 

 

Sommario

 

Presentazione

Quella piccola e giusta attenzione

 

In cammino

Eihei Doghen

Ottenere il midollo prestando obbedienza (Raihai tokuzui) – II parte

Giovanni Vannucci

Quattro meditazioni alle Stinche

 

Canzoniere

Ion Barbu

Slancio

 

Voci

Jiddu Krishnamurti - Carlo Suarès

Nella pienezza del mutamento. Una conversazione

Seguito da Sulla sabbia. Nota su Krishnamurti e Suarès di Federico Battistutta

Giannozzo Pucci

La preghiera dell’Occidente

 

Schede

a cura di Giuliano Burbello, Silvia Papi e Valeriano Massimi.

 

Notizie

 

 

 

 

Redazione: Federico Battistutta, Giuseppe Jiso Forzani (coordinatori), Alberto Braida, Giuliano Burbello, Luciana Della Flora. Mauricio Yushin Marassi e Silvia Papi

Sede: via Gaffurio 11, 26900 Lodi

Tel. e fax: 0371.424801

E-mail: laequilibrista@libero.it

Sito web: web.tiscalinet.it/stellamattino, a cura di Andrea Zaniboni

Abbonamento ordinario: Euro 15,50

Abbonamento sostenitore: Euro 25,90

Conto corrente postale: 41527219 intestato a Associazione Culturale L’Equi-librista

Stampa: Cooperativa sociale "Eredi Gutenberg", Piacenza

Autorizzazione del Tribunale di Lodi n. 334/02 del 5.4.2002

Direttore responsabile: Federico Battistutta

Proprietà: Associazione Culturale L’Equi-librista

 

 

 

 

Arretrati:

 

Opuscolo di gennaio - marzo 2001

Opuscolo di aprile - giugno 2001

Opuscolo di luglio - settembre 2001

Opuscolo di ottobre - dicembre 2001

Opuscolo di gennaio - marzo 2002

Opuscolo di luglio - settembre 2002

Opuscolo di ottobre - dicembre 2002

______________________________________________________

 

 

 

Presentazione

 

Quella piccola e giusta attenzione

 

Raccolto il materiale per questo numero non senza qualche difficoltà proviamo a scriverne la presentazione. Il timore di apparire intempestivi si è presto affacciato. Di conseguenza la tentazione di inserire altri testi, di maggiore impegno e denuncia, dimostrando più attenzione e sintonia con quanto sta accadendo nel mondo, è stata forte. Ci abbiamo pensato e diverse biforcazioni potevano aprirsi per questo numero. Ma i tempi lenti che richiede uno strumento a periodicità trimestrale, da una parte, e, soprattutto, il pensiero che approfondendo i temi cari a questa rivista non ci allontaniamo dalla realtà di ogni giorno, gradevole o difficile, sia essa individuale o di portata collettiva, ci ha convinti che è bene non alterare l’impostazione che originariamente avevamo concepito per questo fascicolo. La sensibilità personale e l’impegno civile non possono ricevere danno dalla giusta attenzione rivolta alle tematiche che sole costituiscono la ragion d’essere della nostra piccola rivista, ma semmai tale attenzione è sano nutrimento per la denunzia della protervia e dell’ingiustizia e la richiesta di una vera pace per il mondo.

Dopo questo chiarimento dovuto passiamo a vedere come si sviluppa il presente fascicolo. Si apre con la seconda e ultima parte del testo di Doghen Ottenere il midollo prestando obbedienza (in giapponese Raihai tokuzui), scritto fondamentale nella tradizione zen per quanto riguarda il ruolo del maestro. Segue, sempre nella medesima sezione, la riproposta di un intervento di p. Giovanni Vannucci, una delle figure profetiche nell’ambito del dialogo e della ricerca religiosa. Si tratta di un testo che a trent’anni di distanza, momento in cui è stato concepito, mantiene inalterate floridezza e vigore.Questo contributo tocca vari punti: il rapporto tra bene, vero e bello nel cammino monastico, la funzione dell’autorità nella via religiosa, le tensioni comunitarie, il ruolo del silenzio. Pur essendo rivolto ad ascoltatori partecipanti a un percorso monastico, Vannucci sa parlare a tutti, al monos che riguarda ciascuno di noi, facendo emergere la vitalità degli argomenti che via via si snodano.

Anche la sezione "voci" ripropone dei testi. Il primo è la traduzione di una conversazione con Jiddu Krishnamurti, pensatore indiano (da qualcuno definito giustamente l’anti-guru) che non cessa di stupire con il suo impellente invito alla messa in gioco, a saper varcare i rassicuranti confini del conosciuto. Una breve nota supporta il lettore proponendo una contestualizzazione del discorso di Krishnamurti, abbozzando anche qualche pista di approfondimento.

Strettamente legato ai drammatici scenari internazionali che si stanno spalancando è l’articolo di Giannozzo Pucci. Il testo era uscito dopo l’attentato alle Twin towers di New York cercando di riflettere su alcuni aspetti della globalizzazione e sui rischi paventati da non pochi commentatori dell’approssimarsi di una guerra di civiltà a causa della minaccia del mondo islamico. Contrariamente ai propagatori di sventure, nell’articolo viene invece riproposta una diversa strada, raccogliendo l’invito che fu di La Pira: la via dell'accordo su un punto di comune credenza religiosa, la via della preghiera tra popoli diversi.

Le pagine vengono poi ingentilite con alcuni versi e il fascicolo si conclude, come di consueto, con alcune segnalazioni librarie che spaziano su argomenti differenti ma stimolanti.

F. B.

 

 



In cammino

 

 

Ottenere il midollo prestando obbedienza (Raihai tokuzui)

Eihei Doghen

 

Pubblichiamo la seconda e ultima parte della traduzione italiana a cura di Mauricio Y. Marassi della traduzione inglese dal giapponese del capitolo, o sezione, dello Shoboghenzo intitolato Raihai Tokuzui. La prima parte, con una nota introduttiva del curatore, è apparsa sull’ultimo numero de "La Stella del Mattino". La versione inglese è reperibile sul n°10 di "Dharma Eye", semestrale edito dal Soto Zen Education Center di San Francisco, CA.

II.

Inoltre, sia oggi che in passato, sia in Giappone che in Cina, ci sono state donne che hanno ricoperto il ruolo di imperatrice. Queste imperatrici controllarono tutto il territorio del loro impero e tutti vi si sottomisero. Esse erano venerate non come individui ma per il loro rango. Così pure nel caso delle monache, sin dai tempi antichi non sono state onorate come individui: esse sono onorate unicamente per aver realizzato il dharma.

Quando vi è una monaca che è diventata un arhat, tutto il merito che deriva dai quattro stadi di fruizione giungerà sino a lei e quel merito continuerà a seguirla. Chi tra gli uomini o tra gli dei può sorpassare chi è giunto al quarto stadio di fruizione? Anche gli dei che dimorano nei tre reami non raggiungono quel livello. Allora gli dei la onorano come qualcuno che ha messo da parte [le preoccupazioni mondane]. A maggior ragione sarà così per coloro che hanno ricevuto la trasmissione del vero dharma dei tathagata e manifestano la nobile intenzione di diventare bodhisattva! Chi potrebbe non venerarli? Il non venerarli è un’offesa personale. Quando qualcuno non venera l’illuminazione suprema, quegli è un pazzo che insulta il dharma.

Inoltre, nel nostro Paese vi sono state figlie di imperatori o figlie di ministri di stato che sono state incoronate imperatrici solo di nome e imperatrici che hanno preso i voti di clausura. Alcune si sono rasate la testa, altre non l’hanno fatto. Ebbene, membri del clero che si atteggiano a monaci attirati dalla fama e da eventuali vantaggi si precipitano alla porta di queste donne e battono la loro fronte a terra [sperando di conquistarne i favori]. [Il comportamento di questi chierici] è più vile di quello di un sottoposto [che si umilia di fronte] a un superiore. Ed ancora più di così è il caso di coloro che si trasformano in servitori e trascorrono i loro anni [nel servilismo]. È veramente pietoso che, essendo nati in un piccolo e sperduto Paese, non si rendano conto che questo è un modo di fare corrotto che non è mai esistito in India ed in Cina ma che esiste solo nel nostro Paese. Rasandosi la sommità ed i lati del capo per propri egoistici motivi distruggono il vero dharma dei tathagata, questa deve essere considerata un’offesa seria e profonda. È deplorevole che si limitino ad essere servitori [di donne-padrone] proprio perché hanno dimenticato che il mondo è un fantasma di sogno, un fiore nel cielo (un fiore d’aria). Si comportano in questo modo per amore di un mondo vuoto. Perché allora, allo scopo di raggiungere l’illuminazione suprema, non rendono omaggio a qualcuno che ha realizzato il dharma ed è quindi meritevole di venerazione? Questo è perché la loro determinazione di considerare importante il dharma è superficiale e lo spirito con cui cercano il dharma non è anteposto ad ogni condizione. Quando sono presi dal desiderio di ricchezza non pensano che dovrebbero rifiutarla da una donna. Quando cercano il dharma (che è incommensurabilmente più importante) questo atteggiamento (di non rifiutare aiuto da una donna) dovrebbe essere ancora più forte. Quando è (le cose stanno) in questo modo, l’erba, gli alberi ed i muri dispensano il vero dharma; così pure le miriadi di cose del cielo e della terra offrono il dharma. Questa è una verità che dovreste comprendere chiaramente. Quando non cercate il dharma con queste intenzioni, non riceverete alcun giovamento dall’acqua del dharma [che libera dall’autoinganno] neppure nel caso in cui incontriate un vero buon amico. Dovreste riflettere con attenzione e approfondire riguardo a ciò.

Per di più, ai nostri giorni, le persone più ignoranti considerano le donne come oggetti della loro libidine, le vedono in questo modo e non correggono il loro modo di pensare. I seguaci del Buddha non si devono comportare in questo modo. Se disprezzi le donne ritenendole oggetti di libidine, non dovrebbero essere disprezzati allo stesso modo anche gli uomini? [Se si tratta di] diventare una causa di [libidine sessuale], anche gli uomini possono essere usati come oggetti [del piacere sessuale], proprio come le donne possono essere oggetti. Quelli che non sono né uomini né donne, anche loro, allo stesso modo possono essere usati come oggetti; anche sogni simili a fantasmi e fiori nell’aria (ogni tipo di immaginazione) possono essere usati come oggetti di libidine. A volte, atti di libidine sono stati commessi a causa di un’immagine riflessa nell’acqua. A volte atti impuri sono stati compiuti a causa del sole nel cielo. Gli dei e le dee possono diventare oggetti [di attrazione sessuale] ed anche i demoni possono essere usati in quel modo. È impossibile contare le cause [che possono stimolare il desiderio sessuale]. Poiché è detto che [nel cosmo] vi sono gli 84000 (innumerevoli) oggetti, dobbiamo abbandonarli tutti? Dobbiamo smettere di guardare ciascuno di essi?

Nel(la raccolta delle regole chiamata) Vinaya è detto: "Per ciò che concerne un uomo è due luoghi, per ciò che concerne la donna è tre luoghi. [La violazione di questi luoghi costituisce] egualmente e imperdonabilmente un’offesa che richiede l’espulsione.".

Dal momento che le cose stanno così, se disprezzate le persone pensando che siano diventate oggetto di desideri sessuali, allora gli uomini e le donne dovrebbero disprezzarsi vicendevolmente, e così non vi sarebbe per nessuno la possibilità di attraversare [sull’altra sponda]. Le implicazioni di questa verità dovrebbero essere analizzate con attenzione.

Inoltre, alcuni tra coloro che non sono buddisti praticano il celibato, ma sebbene non abbiano moglie sono ugualmente non buddisti, dal momento che accolgono vedute erronee dovute al non aver penetrato il buddhadharma. Anche tra i discepoli del Buddha vi sono mariti e mogli nei due gruppi (uomini e donne) che compongono il mondo laico. Ma dal momento che sono discepoli del Buddha non vi è nessuno tra gli esseri umani e tra gli dei che possa competere alla pari con loro.

Per di più, nel Paese di Tang [Cina] vi sono monaci ignoranti che fanno il seguente voto: "Per molto tempo, da una vita all’altra, di generazione in generazione non guarderò mai una donna." Su quali insegnamenti è basato un tale voto? È basato sugli insegnamenti del Buddha? È basato sugli insegnamenti dei non buddisti? È basato sugli insegnamenti di Mara? Di quale peccato sono colpevoli le donne? Da quale virtù sono benedetti gli uomini? Per quanto riguarda i malvagi, li possiamo trovare tra gli uomini. Per quanto riguarda le brave persone, possiamo trovarle tra le donne. Il desiderio di ascoltare il dharma e la ricerca della liberazione non dipendono certamente dall’essere uomo o donna. Quando l’illusione non è ancora stata recisa, sia che si tratti di un uomo che di una donna, l’illusione rimarrà vitale. Quando l’illusione è recisa e vi è l’esperienza della verità, non vi è alcuna distinzione, sia che si tratti di un uomo che di una donna. Ed ancora: se fate voto di non guardare mai una donna, non dovreste forse non occuparvi più di loro sebbene (nel voto del bodhisattva) sia scritto: "Gli esseri sono innumerevoli, faccio voto di liberarli"? Se non vi occupate di loro non potete essere un bodhisattva. Potete definire ciò "la compassione dei buddha"? Poiché [i monaci che fanno voto di non guardare mai una donna] sono profondamente intossicati dal vino degli sravaka, queste sono parole folli provocate dall’ubriachezza. Uomini e divinità non devono prestare ascolto [a tali parole]. Inoltre, se disprezzate qualcuno perché ha commesso peccati nel passato, allora dovreste disprezzare anche i bodhisattva. Se disdegnate qualcuno perché potrebbe commettere peccato nel futuro allora dovreste anche disdegnare i bodhisattva che hanno assunto la risoluzione [di realizzare la buddità]. Se voi disprezzate le persone seguendo questi principi allora finirete per non occuparvi di nessuno. Allora come potrà essere realizzato il buddhadharma? Tali parole [come: "faccio voto di non guardare mai una donna"] sono stupidi discorsi di ignoranti che non comprendono il buddhadharma. Come è triste! Secondo il vostro voto, Sakyamuni e tutti i bodhisattva del mondo sono colpevoli di qualche peccato? Oppure le loro menti [determinate] nell’illuminazione sono più sciocche della vostra? Dovreste pensare con calma a queste cose. Dal momento che questo voto non esisteva al tempo degli antichi patriarchi che ricevettero la trasmissione del dharma e dei bodhisattva contemporanei del Buddha, dovreste pensare con scrupolo se è qualche cosa che può essere appreso dagli insegnamenti del Buddha. Se voi agiste in accordo con il vostro voto, non solo le donne non potrebbero essere salvate da voi ma quando una donna che ha realizzato il dharma andrà per il mondo predicandolo per la salvezza degli esseri umani e degli esseri celesti, non avverrà forse che non potrete avvicinarvi per ascoltarla? Se non andrete ad ascoltarla allora non siete un bodhisattva, siete un non buddista.

Se consideriamo il grande Paese di Song (Cina), vediamo che ai nostri giorni vi sono monaci che pare abbiano praticato per molto tempo fluttuando nel mare di nascita e morte, contando invano tutti granelli di sabbia sulla spiaggia del mare. [D’altra parte] vi sono altre persone che, sebbene siano donne, si sono recate a chiedere ad un buon amico [a proposito del dharma] e dopo aver compiuto strenui sforzi per raggiungere la via sono ora guide e insegnanti di uomini e dei. Vi è [per esempio] l’anziana donna che non vendette un dolce [al maestro Deshan] ma [piuttosto] lo gettò via. Come è triste che, sebbene [Deshan] fosse un monaco, abbia speso invano il suo tempo contando i granelli di sabbia sulla spiaggia senza essere riuscito, neppure in sogno, a dare un’occhiata al buddhadharma.

Quando vedete un oggetto dovete imparare a comprenderlo chiaramente. Se imparate a vederlo solo come qualche cosa da fuggire allora seguite l’insegnamento e la pratica degli sravaka hinayana. Se cercate di sfuggire l’est rifugiandovi a ovest, anche all’ovest troverete oggetti. Seppure possiate pensare che la vostra fuga abbia avuto successo, se non comprendete chiaramente, ci sono oggetti lontani ed oggetti vicini. Fuggir via da loro non è il cammino verso la liberazione. Più vorrete allontanare gli oggetti e più grande diventerà l’attaccamento verso di loro. Per di più, qui in Giappone, vi sono cose ridicole: luoghi chiamati "reame proibito" o "sala di pratica del mahayana" in cui è proibito l’ingresso alle monache ed alle donne laiche. Questa diabolica consuetudine è stata tramandata per un lungo tempo e nessuno mai si è preoccupato di metterla in discussione. Gli studiosi delle cose del passato non hanno indagato su ciò, uomini di grande realizzazione non vi hanno badato. Si dice che siano cose stabilite da divinità trasformate, si dichiara che si tratta di usanza trasmesse a noi dai nostri predecessori. Il fatto che nessuno si sia preoccupato di mettere tali usi in discussione è cosa che fa ridere sino a scoppiare le budella. Che cosa significa "divinità trasformate"? Si tratta di un saggio, di un genio, un dio, un demone, qualcuno giunto ai dieci nobili stadi o qualcuno giunto ai tre stadi di saggezza, qualcuno dall’illuminazione virtuale o nella meravigliosa illuminazione? Allora, se nemmeno accettiamo di mutare le nostre vecchie usanze, che possibilità abbiamo di affrancarci dal nostro vagare tra nascita e morte?

Inoltre, il grande maestro Sakyamuni ottenne la suprema e perfetta illuminazione: tutto ciò che deve essere compreso egli lo comprese, tutto ciò che deve essere fatto egli lo fece, tutto ciò da cui bisogna liberarsi egli se ne liberò. Chi, oggi, può essergli a pari? Tuttavia, durante il tempo della vita del Buddha, nella sua grande assemblea vi furono, in tutto, quattro insiemi: monaci, monache, laici e laiche. Vi era il gruppo degli otto, vi era il gruppo dei trentasette e vi era il gruppo degli 84000. Insieme formavano il reame del Buddha che si costituì nella nuova assemblea del Buddha. In quale assemblea non vi furono monache, donne o gruppo degli otto? Non dovremmo desiderare di creare un gruppo segregato più puro ed elevato rispetto a com’era l’assemblea del Buddha quando il Tathagata ancora viveva in questo mondo: non sarebbe altro che il reame di Mara. Le regole di un’assemblea del buddha non variano, sia nel nostro mondo come pure negli altri, come pure tra i mille buddha nei tre tempi [passato, presente, futuro]. Dobbiamo giungere a comprendere che, se le regole sono sovvertite, non è un’assemblea del buddha.

Quello che è chiamato "quarto stadio di fruizione" [ovvero il rango di un arhat] è il livello supremo. Il merito (cui si attinge) al livello supremo non è distinto in Mahayana o Hinayana. Tuttavia vi sono molti esempi di monache che lo realizzarono. Sia pure nei tre reami o nelle dieci direzioni della terra del buddha vi è forse qualche mondo che non possano raggiungere? Chi potrebbe limitare la loro attività?

Inoltre, la meravigliosa illuminazione è il livello supremo. Quando una donna raggiunge la buddità, quali dharma potrebbe non aver padroneggiato esaurientemente? Chi potrebbe pensare di porle intralci e di impedirle di procedere? Dal momento che sono già dotate di virtù che pervadono ed illuminano le dieci direzioni, che senso può avere parlare di restrizioni e di limiti [per escluderle]?

Ed allora, vorreste creare ostacoli ad una dea ed impedirle di avanzare? Vorreste creare ostacoli ad una donna celeste ed impedirle di avanzare? Ambedue, sia la dea che la donna celeste, non avendo ancora reciso le loro illusioni, sono esseri senzienti soggetti a rinascita. Quando si macchiano di una colpa, si macchiano di una colpa; quando sono senza colpa, sono senza colpa. Così pure è per le femmine della specie umana e per le femmine delle specie animali: quando commettono una colpa, commettono una colpa; quando sono senza colpa, sono senza colpa. Chi vorrà chiudere il passo agli dei ed agli esseri celesti? Dal momento che prendono parte alle assemblee dei buddha dei tre periodi, hanno praticato ed appreso nel luogo dove i buddha risiedono. Se questo fossero stato differente dalle assemblee dei buddha e dai luoghi dove i buddha risiedono, come si potrebbe pensare che siano in accordo con il buddha dharma? [Luoghi segregati che bandiscono le donne] costituiscono la più grande stupidità che inganna e confonde le persone nel mondo. [Coloro che li difendono] sono ancora più inani del volpacchiotto che tenta di impedire agli uomini di violare la sua tana.

Inoltre, le categorie di discepoli del Buddha, sia che si tratti di bodhisattva che di sravaka, sono, come già detto: monaci, monache, laici e laiche. Queste categorie sono conosciute nei cieli e nel mondo terreno, i loro nomi si sono riflessi nei secoli. La seconda categoria dei discepoli del Buddha [le monache] è superiore persino ai saggi Re che fanno girare la ruota (del dharma) ed a Shakudaikan’in, e non vi è luogo che non possa raggiungere. Non vi è nemmeno bisogno di dire che è superiore anche al sovrano ed ai ministri di un piccolo stato [come il Giappone] alla periferia del mondo. Quando guardiamo ai luoghi di pratica che sono oggi vietati alle monache, vediamo che vi entrano, con contegno disordinato, gli uomini che lavorano nelle risaie, quelli che faticano nei campi, i contadini ed anziani boscaioli – per non parlare del sovrano, dei ministri, degli alti ufficiali e del primo ministro. A chi fra costoro dovrebbe essere impedito l’ingresso nei luoghi della pratica? Se gli uomini che lavorano nelle risaie così come pure gli altri, dovessero dibattere con le monache a proposito della comprensione e della pratica del dharma o discutessero sul raggiungere i vari livelli [che conducono alla buddità], chi, alla fine, avrebbe una comprensione superiore e chi inferiore? Sia che si trovassero a parlare da un punto di partenza secolare si che discutessero sulla base del buddhadharma, gli uomini che lavorano nelle risaie e quelli che faticano nei campi non raggiungerebbero mai il livello di realizzazione di una monaca. Nella nostra più completa confusione, la nostra piccola nazione fu la prima a lasciare questa tradizione [di escludere le donne dai monasteri] in eredità alle future generazioni. Come è triste che le figlie maggiori del compassionevole padre dei tre reami, il Buddha, venute nella nostra piccola terra, scoprano che vi sono luoghi che le respingono ed in cui non sono ammesse.

Per di più, il tipo di persone che vive in quei luoghi chiamati "reami proibiti" non ha alcuna tema delle dieci azioni malvagie, infatti esse violano ciascuno dei dieci principali precetti. Hanno semplicemente creato un luogo all’interno del quale perpetrare malvagità e disdegnano coloro che non commettono tali malvagità? Tuttavia peggiori sono le colpe della lascivia, che sono considerate come le più gravi. Coloro che vivono in quei luoghi all’interno dei "reami proibiti" sicuramente hanno commesso quelle azioni lascive. Si dovrebbero distruggere i regni di Mara come questo; si dovrebbero apprendere gli insegnamenti del Buddha ed entrare nel regno del Buddha. Questo è il modo di ripagare il proprio debito di gratitudine verso il Buddha. Voi predecessori che vi siete comportati in questo modo! Avete capito il significato dei "reami proibiti"? Quale dharma avete ereditato? Quale sigillo di riconoscimento avete ricevuto?

Negli immensi reami creati dai buddha, ogni cosa, - siano buddha, esseri senzienti, la terra o lo spazio immenso – è libera dai legami della contaminazione e dell’illusione e ritorna alla fonte nel meraviglioso dharma dei buddha. Allora, gli esseri viventi che anche per una volta pongono piede in questo regno ricevono il merito (la virtù) del buddha così come essi sono. Sono dotati di un tipo d virtù che non distorce e non equivoca; sono dotati di un tipo di virtù che guadagna loro la purezza. Quando limitiamo una direzione, allora tutto il regno darmico è limitato; quando limitiamo un livello [che riguarda l’ordinazione], allora tutto l’ambito darmico è limitato. Vi sono mondi limitati dall’acqua, vi sono regni segregati limitati dalla mente, vi sono regni limitati che sono limitati dallo spazio. Vi è sempre una linea o trasmissione attraverso la quale questi sono conosciuti.

Per di più, quando è officiato il rituale durante il quale vengono stabiliti i confini e le limitazioni del "reame segregato", dopo aver spruzzato l’ambrosia, vi è la cerimonia del prendere rifugio (nel buddha nel dharma e nella comunità) e, dopo la purificazione del luogo, si cantano i seguenti versi: "Questo regno permea il regno del dharma, puro e incondizionato".

Voi predecessori e anziani che sempre [balbettate a proposito] di quello che definite "luogo segregato", avete compreso oppure no il significato di questo verso? Non penso che lo abbiate capito in un modo per il quale si intenda che l’onnipervadente regno del dharma sia rinchiuso in un luogo segregato. Intossicati dal vino degli sravaka voi pensate che il vostro piccolo dominio sia il vasto regno. Mi auguro che possiate presto svegliarvi da questa antica confusione intossicante, cosicché non seguitiate a distorcere e misconoscere l’onnipervadente regno del dharma che è il vasto reame del buddha. Possano tutti gli esseri viventi ricevere il beneficio del potere di trasformazione dei buddha, affinché essi possano essere condotti all’altra sponda, accolti a braccia aperte da quei buddha. Prestiamo obbedienza e rispetto al loro merito. Chi potrebbe dire che ciò non sia raggiungere il midollo della via?

 

Scritto a Koshoji, nel giorno precedente il solstizio d’inverno, nell’anno kanoe-ne, primo anno [dell’era] Ninji. [Dicembre 1240].

 

 

Quattro meditazioni alle Stinche

Giovanni Vannucci

 

Proponiamo ai lettori un intervento di p. Giovanni Vannucci (1913-1984) apparso nel 1974 sul periodico dei Servi di Maria "Fraternità". Tra i temi trattati c’è anche quello concernente il ruolo dell’autorità spirituale. Costituisce perciò un ulteriore contributo alla riflessione sulla funzione del maestro nel cammino religioso che stiamo proponendo dal numero scorso. Ringraziamo fra’ Lorenzo, dell’eremo di S. Pietro alle Stinche, per averci segnalato il testo.

 

Le tre componenti del monachesimo

Scorrendo la storia del monachesimo, restiamo colpiti da questo fatto: esistono dei movimenti monastici attorno ai quali è fiorita una civiltà in cui. le conoscenze vengono estese e approfondite, dei nobili ideali vissuti, e nuove forme di vigorosa bellezza sorgono; mentre altri movimenti monastici, impegnati nello sviluppo del sapere umanistico e scientifico, oppure nella precisazione moralistico precettistica del cristianesimo non hanno dato nessun contributo alle espressioni della bellezza.

Come esempio dei primi, basti pensare al monachesimo benedettino, cistercense, al francescanesimo; dei secondi è sufficiente percorrere la storia delle congregazioni post-tridentine.

Questo fatto ci pone una domanda: se l’uomo religioso è, tendenzialmente almeno, colui che raggiunge la piena maturità, può ignorare la bellezza? E se lo fa, può presumere di raggiungere la piena statura d’uomo?

La vera vita religiosa si ha quando in un gruppo predomina la ricerca della verità, della bellezza, del bene di tutti gli esseri. Tre sono le componenti della religiosità: lo sviluppo delle conoscenze, della vita morale, della bellezza.

A noi occidentali la conoscenza e la bellezza vengono dall’Ellenismo, il senso morale dall'Ellenismo nel suo anelito per la giustizia e dal Cristianesimo nella ricerca dell’amore che compie e supera la giustizia.

Il Bene nella manifestazione cristiana è il completamento della Giustizia vecchiotestamentaria nell’Amore. L'Amore non può essere privo del Vero e del Bello. La Conoscenza per essere completa bisogna che si dischiuda all’intensità dell’amore, ed ambedue non sono incentivo di religiosità se non rivestiti di bellezza.

Lo scienziato senza amore e senso di bellezza è un arido; l’uomo etico, chiuso nella sua torre di precetti morali escludendo la conoscenza e la bellezza diviene un rigido puritano; l’esteta che estromette la conoscenza e l’etica diventa un edonista. L’uomo religioso ricompone in sé queste linee portanti di una vera cultura religiosa con coraggiosa fedeltà.

Le suppellettili di un convento siano belle per una nota di qualità, senza cadere nell’errore della complicazione e della ricerca della quantità.

La quantità è in rapporto ai valori materiali e al loro possesso. La qualità in sé è il potere creatore. La creazione manifesta tutta una gerarchia di qualità specifiche, esse appartengono al mondo delle cause.

 

L'autorità - servizio

Le parole del Signore: "Se uno di voi vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti" (Mc 9, 35). Parole da esser vissute come suonano, con spietato realismo, non con ipocrita sentimentalismo.

Si inseriscono nella storia della coscienza umana, capovolgendo il rapporto consueto di autorità e sudditi.

In ogni gruppo organizzato, anche se parte da premesse anarchiche, dopo breve tempo spunta fuori, l'inamovibile dualismo che lo separa in capi e sudditi. La democrazia teoricamente tenderebbe a superarlo, ma, prestandosi a troppe manipolazioni, diventa ordinariamente un’impostura. Pur rimanendo un male minore.

Cristo colpisce il male alle radici: colui che comanda sia il servo di tutti, sia lo schiavo che lava i piedi ai suoi sudditi. Sia il servo, non si qualifichi tale con etichette sentimentali che rafforzano, mascherandolo, l’istinto di potere. Sia il servo, ed essendo tale, abolirà il dualismo tra autorità e sudditi che attraversa, come pietra d’inciampo, il cammino della coscienza umana.

Anche la frase che ora è di moda in quest’epoca postconciliare: "Autorità come servizio" cristianamente costituisce un non senso. Le grandi rivoluzioni che hanno tentato di abolire questo tragico dualismo lo hanno sempre ricreato col solo mutamento di etichette. I padroni-schiavi dell'era antica diventano i feudatari e i servi della gleba, nel medioevo; questi si trasformano nei borghesi e proletari dell'era moderna, i quali cedono il nome ai tecnoburocrati e proletari dei nostri tempi e di quelli che verranno.

Le parole di Cristo hanno sempre risuonato nel corso di tutte le rivoluzioni, ma son sempre rimaste inadempiute. Esse esigono un capovolgimento coraggioso e impietoso, non in sede di strutture, ma nell’essere personale di ognuno.

Il primo cristianesimo, appellandosi alla Kyriothes, alla Presenza vivente e operante del Signore in seno alla comunità (Didachè) ci offre una preziosa indicazione per il servizio cristiano: tutti i membri della comunità son chiamati a partecipare alla definizione dei fini e alla scelta dei mezzi propri dell’Ecclesia. Nessuno escluso, nessuno privilegiato. Senza parametri astratti di nome o di leggi, ma in costante riferimento alla Presenza del Signore nel gruppo di coloro che sono riuniti nel suo nome. In questo contesto, qual è il compito del Servo dei Servi? Quello di attuare in sé un’immagine conduttrice che riveli agli altri la grandezza e la nobiltà della vita cristiana, illuminandoli con lo stesso fascino rispettoso e implacabile di Cristo, venuto per servire e non per essere servito.

Il programma di colui che è chiamato a servire la Presenza del Signore nella comunità è espresso nello parole del Signore: "Io mi santifico per loro perché anch’essi siano veramente santificati" (Gv 17, 19). Il Servo dei Servi è, cristianamente, il volto che Dio rivela agli uomini e insieme il volto che gli uomini mostrano a Dio. Su questo tema leggete il magnifico studio di H. Corbin, Face de Dieu et face de l’Homme, in "Eranos Jahrbuch", XXXVI, pagg. 165-228.

Il rapporto cristiano non è mediato, come nell’economia del Vecchio Testamento, da astrazioni legalistiche ma da un continuo riferimento-identificazione alla Presenza di Cristo che è con coloro che sono riuniti nel suo Nome. Nell’esperienza religiosa ebraica il principio conduttore o normativa non sono le immagini, che non possono esser costruite, ma le astrazioni della legge: non desiderare, non uccidere, non mentire ecc.

Nella novità cristiana la sorgente della vita associata è l’immagine di Colui che è nei poveri, negli affamati, nei carcerati ecc. L'altro è amato non in virtù di un progetto, ma perché sentito e visto come una Cristofania.

Nel Vecchio Testamento in conseguenza della mediazione legalistica l'altro era amato in quanto membro del popolo eletto e, in seno al popolo eletto, solo se ricadeva nella categoria degli osservanti, della legge, dei giusti.

Nel Nuovo Testamento la pecorella smarrita, l’adultera, il figliol prodigo, il nemico, il contrario ecc. è amato perché, in quanto uomo, è una manifestazione del Divino, una teofania. "Vidisti fratrem, vidisti Deum", afferma una detto extracanonico. Il titolo di ‘fratres' non è dato da un'etichetta o da un particolare comportamento dell’altro, ma da un movimento di mente e di cuore proprio di colui che vive l’amore.

Le astrazioni legalistiche con i comportamenti individuali e sociali cui danno esistenza, induriscono il guscio dell’egoismo personale e collettivo, creando delle nefaste divisioni e degli insuperabili orgogli che il cristiano, chiamato a gettare allo sbaraglio la propria anima, deve pazientemente e coraggiosamente demolire.

Il "Servo dei servi" è chiamato più di tutti a gettare allo sbaraglio la propria anima; nel suo amore-passione i fratelli da lui guidati devono riconoscere l’Immagine di Colui che è venuto a dare la sua vita per gli altri.

 

Le tensioni comunitarie

Portiamo in noi l'aspirazione ad una vita sociale perfetta, dove gli urti provenienti dalle diverse personalità siano attenuati e le menti impegnate nella scoperta dei fini insieme alle volontà tese alla scelta dei mezzi più giusti possano compiere la loro opera armoniosamente.

La realtà, quella che conosciamo mediante la storia e quella che stiamo vivendo, senza equivoci invece ci attesta che la società ideale è un’aspirazione, un’assenza incolmabile.

Il nostro compito è di accettare l’impossibilità di una società perfetta e l’esigenza di stabilire dei rapporti sociali che siano il più possibile vicini all’ideale di una comunità avente un solo cuore e una sola anima.

Le tensioni, poste da una vita condotta insieme ad altri, non possono venire affrontate né risolte senza la conoscenza di quella contraddittorietà che caratterizza l’individuo umano inserito in un contesto comunitario.

Considerando la nostra natura, veniamo a scoprire 1‘inadeguatezza della definizione aristotelica dell‘uomo quale "animale sociale", in noi esiste una tendenza che ci porta alla socialità ed anche una facoltà che, essendoci data per mantenere vivi e quindi mutevoli i rapporti con gli altri, è anti-sociale: il pensiero. Mediante il pensiero ci poniamo contro la società, contro il nostro interlocutore, criticando o opponendoci a quanto sentiamo di non poter condividere. Perché vogliamo conoscere meglio, essere più prossimi alla verità, raggiungere forme di relazione più giuste e umane.

Quindi siamo, per la nostra natura, sociali e antisociali insieme. Se così non fosse, le società costruite nel passato sarebbero permanenti e ripetitive, nella stessa maniera di quelle delle api o delle termiti.

La spinta verso l’asocialità ci è data dal pensiero, e in quanto esseri dotati di pensiero siamo asociali. Soltanto nel sonno l'uomo è sociale. Nella quiete notturna, mentre i frati, dal primo inter pares, come si dice ora, all’ultimo, dormono, raggiungono la comunità perfetta, nello stato di veglia le opposizioni rinascono, ed è bene sia così!

L’opposizione del pensiero che non accetta il modo comune di sentire o di vivere da parte degli altri un’ideale sociale, instaura il dialogo. Nel dialogo, anche tra i più gagliardi contrasti, la socialità vive.

Attraverso il dialogo le opposizioni si smussano, si giunge ad una conclusione, nella quale le due parti abbandonano qualcosa del loro punto di vista iniziale e si arricchiscono accogliendo un altro qualcosa che prima non avevano. Conclusione che è un traguardo ambiguo, temporaneo, relativo che richiede, per avvicinare di più la verità, di essere nuovamente posto in discussione dal pensiero vivente che riprende in tal modo la sua funzione antisociale.

Nell'accettazione di una conclusione, la forza del pensiero dei dialoganti subisce una stasi, si addormenta: scoprendo che essa è un compromesso, il pensiero torna a vivere e si protende verso altre conclusioni.

La vita sociale è alimentata dalle conclusioni raggiunte, quindi è tendenzialmente portata a strutturarsi nella ripetizione, nell’inerzia, nel sonno, nella tirannia delle consuetudini assolutizzate.

Considerando più attentamente le reazioni psicologiche dei dialoganti, essi, partendo da posizioni differenti, cercano di dimostrare la validità della propria idea; supponendo che uno sia dotato di maggior abilità dialettica, dopo breve tempo avrà tolto ogni argomento di sussumere all'altro che non avrà altra scelta che acconsentire al primo. Oppure possiamo supporre in uno dei dialoganti una certa pigrizia mentale, una minore perspicacia intellettiva o, come avviene nel maggior numero dei casi, una mancanza di vigilanza critica: in questi casi l’idea del più forte, del più abile viene imposta, senza diventare però necessariamente vera.

Il dialogo ideale sarebbe quando nei dialoganti esista una costante vigilanza critica, cosa piuttosto rara tra gli uomini. La vigilanza critica, qualità di un pensiero solerte, è necessariamente antisociale.

Osserviamo la socialità: essa è costituita da idee, consuetudini, costumi, leggi ecc. proprie di un gruppo. Esse vengono accettate e vissute per abitudine. Quando in una società il pensiero dei singoli è vivo e la vigilanza attenta, nessuno accetterà passivamente l’insieme sociale ma lo sottoporrà a critiche, ad esami, a confronti. Ed è nella vivezza del dialogo che un gruppo si esamina, si pone in discussione, si autocritica, perché la sua vita corrisponda meglio ai fini scelti e i mezzi siano sempre più adeguati.

Un fatto che deve farci seriamente riflettere è questo: le società totalitarie non accettano il pensiero e la vigilanza critica, sentendo in esse le forze che le dissolveranno. L’accademia ha paura del genio, lo stato totalitario teme il pensiero libero, il dogmatismo paventa quelle menti che non accettano. Se un gruppo non vuol diventare un gregge, bisogna non solo che accetti il pensiero vigile dei suoi membri, ma lo provochi per evitare uno stato di mortificante assopimento.

Essendo le nostre comunità un insieme di persone unite per il raggiungimento di un fine squisitamente religioso (Costituzioni I, 1), come possono mantenere vivo il pensiero dei singoli nella specifica funzione antisociale che gli è propria?

Il fine accettato non può essere altro che la meta religiosa personale che ciascuno si è proposta, altrimenti uno avrebbe scelto un gruppo o un’impostazione diversa di vita. Il fine viene ad essere un postulato a priori, anche se sentito corno un’indeclinabile componente della propria personalità.

Il pensiero critico, penso, non potrà essere applicato al fine delle nostre comunità, almeno nella sua essenza. Si potranno porre in discussione le formulazioni, le figure che ha assunto nel susseguirsi dei tempi, ma mai la sua essenza; non avrebbe senso se non nel caso che risulti un’illusione.

Mentre il pensiero critico dovrà essere rivolto, con fermezza impietosa, sui mezzi, sulle forme usate per l’attuazione del fine.

I mezzi sono legati alla necessità dei tempi, alle caratteristiche della cultura di un’epoca, alle organizzazioni sociali di un popolo o di un periodo, cadono perciò continuamente sotto il giudizio del pensiero che ne scorge la limitatezza o l’incapacità di realizzare il fine nella sua totalità.

La vera arte è sempre arte indipendentemente dalle forme che nel tempo assume, ed è improprio parlare di un arte antica o di un arte moderna, se non come riferimento di memoria.

L’arte vera nella sua essenza è sempre arte, i suoi modi espressivi sono inevitabilmente contingenti.

Il monachesimo nella sua essenza è sempre monachesimo, nelle sue espressioni è legato al divenire nel tempo, il pensiero è lo strumento che possediamo per rendere il nostro fine essenziale comprensibile e credibile in ogni epoca.

I membri di ogni comunità, perché questa sia credibile, hanno il dovere di esaminarne e criticare i modi e le forme. Quando una comunità cede passivamente alla ripetizione delle forme, si addormenta: quando il pensiero dei singoli si scuote dal sonno delle consuetudini ne rafforza la vita e adempie alla sua squisita e insostituibile funzione antisociale.

 

Per il seguito dell'articolo vedere l'opuscolo

 

 

Canzoniere

 

Slancio

Ion Barbu

 

Sconosciuto ai più, Ion Barbu (1895-1961) scrisse un solo libro di poesie, Gioco secondo, composto in un lungo intervallo (dal 1919 al 1930) della sua attività di matematico. Il poeta rumeno si dedicò inoltre alla traduzione di Shakespeare, Rilke e Baudelaire e alla composizione di pagine critiche. La poesia che proponiamo è tratta dal numero monografico che la rivista di poesia "Niebo" (n. 7, dicembre 1978) dedicò a Barbu. In italiano è anche comparsa una breve raccolta dal laconico titolo Poesie (Milano, Marcos y Marcos, 1982).

 

 

Sono solo un anello del grande dubbio,

fragile, l’unità per me è effimera; ma

uno sciame di esistenze dalla mia morte risorge

e il vero nome che porto è: ondeggiamento.

 

Perciò, arcuato sotto i tempi, svolgo un lungo tessuto

dall’erba delicata alla fronte pensante

e la bionda successione di forme, salendo di sole in sole,

nelle vastità della vita riversa un passato.

Dall’onda che viaggia, dalle acque eterne

prendo la veste di coloro che muoiono,

e rigenerato, e agile, corro – sottile brivido –

per sale orgogliose o umide caverne…

 

E così, sulle Terre tagliandomi vaste porte

verso i ritmi immensi della mente, un giorno,

porto all’Alta Bilancia il mio ricco peso

di tante esistenze e di altrettante morti.

 

Voci

 

Voci

 

Nella pienezza del mutamento. Una conversazione

Jiddu Krishnamurti - Carlo Suarès

 

Suarès: E’ possibile condensare in una breve affermazione quello che le sembra essere il problema principale che si pone dinanzi a noi in questo momento?

 

Krishnamurti: Direi che è assolutamente necessario e urgente provocare una radicale rivoluzione nello spirito umano, un reale mutamento dell’intera struttura psicologica dell’uomo.

 

Suarès: Comprendo che il suo disegno consiste nel mostrare la necessità di decondizionare lo spirito. Qualunque sia il numero di chi lo ascolta, sembra che lei parli a ciascuno individualmente al fine di trasmettergli questa nozione di necessità e di urgenza. E, secondo lei, questo decondizionamento dello spirito – o della coscienza – può e deve essere totale. Arrivo qui a un punto che pare abbastanza sconcertante: lei afferma che questa modificazione non prende nessun tempo. Evidentemente sorvoliamo sul tempo necessario alla comprensione di una esposizione, quale essa sia. Intende affermare che questo cambiamento radicale non può essere il prodotto di una volontà, né di un processo evolutivo?

 

Krishnamurti: Non può prodursi né per l’intervento della volontà, né per quello del tempo. Se fosse il risultato di un processo evolutivo, non lo chiamerei mutamento. Un mutamento è immediato.

 

Suarès: Posso ammetterlo. Ma non posso immaginare un mutamento che non implichi insieme ad esso la risultante di tutto il passato. L’uomo modifica il suo ambiente e l’ambiente lo modifica.

 

Krishnamurti: No. L’uomo modifica il suo ambiente e l’ambiente modifica la parte dell’uomo che è collegata alla modificazione dell’ambiente, non l’uomo intero, nella sua profondità estrema. Nessuna pressione esteriore può fare ciò: essa non modifica che delle parti superficiali della coscienza.

 

Suarès: L’uomo storico…

 

Krishnamurti: Se vuole…Nessuna influenza può provocare una mutazione psicologica profonda. Tanto meno un’analisi psicologica, perché ogni analisi si situa nel campo della durata. E nessuna esperienza può provocarla, per quanto esaltata e ‘spirituale’ sia. Al contrario, più essa appare come una rivelazione, più condiziona. Nei primi due casi - modificazione psicologica prodotta da una pressione esterna e modificazione prodotta attraverso l’analisi o l’introspezione – l’individuo non subisce alcuna trasformazione profonda: non è che modificato, plasmato, riaggiustato in modo da essere adattato al sociale. Nel terzo caso – modificazione condotta da un’esperienza detta spirituale, sia essa conforme a una fede organizzata, sia tutta personale -, l’individuo è proiettato nell’evasione che gli detta l’autorità di qualche simbolo.

 

Suarès: Vorrei approfondire un po’ questi ultimi punti. Vuole che cominciamo dall’adattamento?

 

Krishnamurti: Prima di tutto eliminiamo la distinzione fittizia e troppo comoda tra la coscienza e l’inconscio. Il mondo moderno tende a imporci una grande attività esteriore che ci porta a mettere l’accento sulla coscienza di superficie, detta coscienza, mentre la coscienza profonda è assai raramente chiamata a intervenire, sia nello svolgimento e nell’organizzazione dei nostri affari, sia per le nostre lotte quotidiane, le nostre ambizioni, le nostri aspirazioni, le nostre angosce. Questa intensa polarizzazione della coscienza superficiale rigetta nell’ombra i livelli stratificati in profondità e impedisce loro di manifestarsi. Per quello che concerne il processo analitico, osservi che nessun analista ha mai preteso decondizionare la totalità della coscienza. Una simile proposizione, d’altronde, non può apparire a loro che stravagante. Noti anche che ogni analisi ha per limiti il condizionamento dell’analista stesso. Questo condizionamento dell’osservatore, del censore, del giudice, si oppone necessariamente a ogni mutamento, perché una mutamento a venire è, per definizione, qualcosa che non si conosce, mentre l’analisi ha per fine di condurre tutto nel conosciuto, nelle spiegazioni, nel quadro chiaro e preciso di un’armatura psicologica. Ogni analisi, così come ogni sistema, ha uno scopo, si propone un punto d’arrivo. C’è dunque conflitto tra l’osservatore e ciò che osserva; conflitto che, se il metodo trionfa, va a finire in un adattamento del soggetto. Il mutamento non è possibile se non quando l’osservatore interno è sparito. L’adattamento può darsi di buon grado o attraverso l’operazione di uno psicologo-riparartore incaricato di ‘ridurre’ le reazioni. Può darsi in favore di una società cattiva, ma in cui ci vien detto che bisogna comunque vivere, oppure di una società ideale come un ordine religioso, o nell’anticipazione di una società a venire. In tutti i casi, c’è l’azione di una forza costringente che si appoggia su una morale sociale, vale a dire uno stato di contraddizione e di conflitto. Ogni società è in sé contraddittoria. Ogni società esige degli sforzi da parte di quelli che la costituiscono. Ora, contraddizione, conflitto, sforzo, competizione, sono barriere insormontabili che impediscono ogni mutamento.

 

Suarès: Perché? Lo dica in poche parole.

 

Krishnamurti: Perché mutamento vuol dire libertà. Uno stato di conflitto è l’opposto. Ritorneremo su quello che è la libertà.

 

Suarès: Per il momento noi non stiamo altro che esaminando ciò che non è mutamento e non abbiamo finito. Credo che lei abbia sufficientemente introdotto l’argomento dell’adattamento. Passiamo all’evasione nei simboli. Questo interrogativo mi interessa particolarmente.

Come possono le persone che si dicono serie accettare che i simboli psicanalitici non siano che la degradazione immaginifica di verità da scoprire e che le si deve sciogliere, annullare, allorquando pretendono che i grandi simboli religiosi siano segni immutabili, dei portali bloccati attraverso i quali si sale verso verità superiori? Non c’è gerarchia nei simboli. Ogni simbolo è una caduta.

 

Krishnamurti: Non c’è immagine simbolica se non nelle parti inesplorate della coscienza. Vado più lontano: le parole non sono che simboli. Bisogna sciogliere le parole.

 

Suarès: Le teologie, questi assurdi tentativi di pensare l’impensabile…

 

Krishnamurti: Lasciamo le teologie dove sono. Ogni pensiero teologico manca di maturità. Non perdiamo il filo della nostra conversazione. Eravamo all’esperienza e dicevamo che ogni esperienza è condizionante. In effetti, ogni esperienza vissuta – e non mi riferisco solamente a quelle dette spirituali – ha necessariamente le sue radici nel passato, perché non c’è esperienza se non quando c’è riconoscimento.Che si tratti della realtà o del mio vicino, quello che riconosco implica un’associazione con il passato. Ogni esperienza vissuta è una reazione proveniente da questa associazione. Una esperienza detta spirituale è la risposta del passato alla mia angoscia, al mio dolore, alla mia paura, alla mia speranza. Questa risposta è la proiezione di una compensazione a uno stato miserevole. La mia coscienza proietta il contrario di ciò che è, perché sono persuaso che questo contrario esaltato e felice sia una realtà consolante. Così, la mia fede cattolica o buddhista, costruisce e proietta l’immagine della Vergine o del Buddha e queste fabbricazioni risvegliano una emozione intensa nei medesimi strati inesplorati della coscienza che, avendola fabbricata senza saperlo, la prendono per realtà. Poi si installano come memoria nella coscienza che dice: "Lo so, perché ho avuto un’esperienza spirituale". Allora le parole e i condizionamenti si vitalizzano mutualmente nel circolo vizioso di un circuito chiuso.

 

Suarès: Un fenomeno d’induzione.

 

Krishnamurti: Il ricordo dell’emozione intensa, di uno choc, dell’estasi, genera un’aspirazione verso la ripetizione dell’esperienza e il simbolo diviene la suprema autorità interiore, l’ideale verso cui tendono tutti gli sforzi. Captare la visione diventa un fine; pensarci senza interruzione e disciplinarsi un mezzo. Ma il pensiero è proprio ciò che crea una distanza tra l’individuo così come è e il simbolo o l’ideale. Simile processo, lungi da decondizionare, è essenzialmente condizionante. Non c’è mutamento possibile se non si muore a questa distanza. Il mutamento è possibile solo allorquando ogni esperienza cessa totalmente. L’uomo che non vive più alcuna esperienza è un uomo risvegliato. Vede quello che succede dappertutto: si cercano sempre esperienze più profonde e vaste. Si è persuasi che vivere delle esperienze è vivere realmente. Abbiamo appena esaminato il processo dell’esperienza e abbiamo visto che ciò che si vive non è la realtà, ma il simbolo, il concetto, l’ideale, la parola. Viviamo delle parole. Nondimeno, la parola, l’immagine, non è la cosa. Se la vita detta spirituale è un perpetuo conflitto è perché si trasmette la pretesa di nutrirsi di concetti, come se avendo fame ci si potesse nutrire della parola ‘pane’. Per la maggior parte noi viviamo di parole e non di fatti. Di tutti i fenomeni della vita, che si tratti della vita spirituale, della vita sessuale, dell’organizzazione materiale dei nostri affari o dei nostri piaceri, noi ci stimoliamo per mezzo delle parole. Le parole si organizzano in idee, in pensieri, e su questi stimolanti crediamo di vivere tanto più intensamente quanto abbiamo saputo meglio, grazie ad esse, creare distanza tra la realtà (noi, così come siamo) e un ideale (la proiezione del contrario di ciò che siamo). Così giriamo le spalle al mutamento.

 

Suarès: Ricapitoliamo i non possum. Finché esiste nella coscienza un conflitto, quale che sia, non si dà mutamento. Finché domina sui nostri pensieri l’autorità della Chiesa o dello Stato, non si dà mutamento. Finché la nostra esperienza personale si erige in autorità interiore, non si dà mutamento. Finché l’educazione, l’ambiente sociale, la tradizione, la cultura, in breve, la nostra civiltà con tutti i suoi congegni ci condiziona, non si dà mutamento. Finché c’è adattamento, non si dà mutamento. Finché c’è evasione di qualunque natura sia, non si dà mutamento. Finché mi sforzo verso un’ascesi, finché credo a una rivelazione, finché ho un’ideale quale esso sia, non si dà mutamento. Finché cerco di conoscermi analizzandomi psicologicamente, non si dà mutamento. Finché c’è sforzo verso un mutamento, non si dà mutamento. Finché c’è un’immagine, un simbolo, delle idee o anche delle parole, non si dà mutamento. Ho detto abbastanza? No, perché giunti a questo punto non posso non essere portato ad aggiungere: finché c’è pensiero, non si dà mutamento.

 

Krishnamurti: E’ esatto.

 

Suarès: Ma allora, che cos’è?

 

 

 

 

Sulla sabbia. Nota su Krishnamurti e Suarès

Federico Battistutta

 

 

Vidi uno che si era rifugiato nel deserto.

Non era né eretico né ortodosso.

Non aveva religione, né Dio, né verità, né legge, né certezze.

Chi in questo mondo avrebbe tale coraggio?

Omar Khayyam

 

1. Questa quartina del celebre poeta persiano Omar Khayyam la possiamo incontrare nelle prime righe di un testo di p. Giovanni Vannucci in cui viene presentata, sebbene in forma sintetica, l’opera e la figura di Krishnamurti. Ed è fuori di dubbio che difficilmente si sarebbe potuto scovare incipit più pertinente. Ma è bene procedere per gradi: forse qualche lettore si starà domandando chi fosse l’uomo che ha pronunciato le frasi appena lette, quei discorsi così ardui che sembrano non lasciare alcuna via d’uscita, abbandonandoci smarriti lungo strada.

Jiddu Krishnamurti nacque alla fine dell’Ottocento nel sud dell’India. Fu adottato ed educato all’interno del movimento teosofico, i cui membri vollero vedere in lui il veicolo terreno in cui si sarebbe incarnato Maitreya, il futuro "Istruttore del Mondo". Ma non trascorse molto tempo che in modo assolutamente inaspettato Krishnamurti sovvertì ogni attesa e ogni progetto, rompendo con il ridondante credo teosofico, propugnando una ricerca libera da ogni forma, da ogni dipendenza, da ogni organizzazione. Il giorno in cui prese la decisione di sciogliere l’organizzazione che avrebbe dovuto promuovere nel mondo il suo insegnamento, inizierà il discorso con tali parole: "Io sostengo che la verità è una terra senza sentieri, e non potete accostarvici percorrendo un sentiero, appartenendo a una religione o a una setta". Probabilmente in queste poche essenziali parole può essere condensata la sostanza del suo insegnamento, e in fondo il nucleo pulsante riscontrabile nei discorsi, nelle conferenze, negli incontri e nei dibattiti che terrà per oltre cinquant’anni in varie parti del mondo - fino al sopraggiungere della morte nel 1986 - stanno racchiusi in quella manciata di parole, nella convinta affermazione che la verità altro non è che una radura spaziosa ove nessun sentiero la può insidiare.

Con questo non si pensi che il percorso di Krishnamurti sia stato esente da contraddizioni, godendo di una collocazione così rarefatta e perfetta, come potrebbe apparire ad una prima occhiata. Tutt’altro. A cominciare dall’ambiguità di chi pur rifiutando il ruolo di maestro, con il contorno di discepoli e il resto, ha finito per ritrovarsi per lo più circondato da chi in tale maniera persisteva a trattarlo. E ancora: dall’aver consumato parole e parole, libri su libri, per ripetere null’altro che l’indicibilità della verità, evocando nella memoria dell’ascoltatore i versi di uno dei più potenti testi sapienziali: "Si fanno libri e libri senza fine/ per troppo studio la carne sfiorisce" (Qohelet, 12, 12). Senza dire poi gli agiti, gli inciampi e i limiti umani che in quanto tali delimitano anche in maniera acuta. Si potrebbe proseguire, ma non è questo il punto e in fondo non ci riguarda più di tanto.

 

2. Irritazione, dell’imbarazzo o un certo sconcerto può essere affiorato in chi ha seguito riga dopo riga il dialogo fra Krishnamurti e Suarès, sino ai passaggi conclusivi e alla domanda ‘che cos’è’, la quale chiude sì la conversazione, ma lascia aperta l’interrogazione, affidandola alle nostre mani. Rimaniamo pure nello sconcerto, può essere fertile, così come il sostare nella domanda: intraprendendo un simile lavorio di alleggerimento, di sottrazione che cos’è che accade? Senza farne un quesito ozioso di chi sta a guardare gli altri mentre giocano. Ha senso entrare nel discorso e proseguire tale riflessione solo se avvertiamo che quel che cos’è non è mera curiosità, ma ci riguarda, dice anche di noi. E’ vero, non è mia, l’ho trovata, ma posso indossare una simile scarpa perché quell’orma da sempre era lì ad aspettarmi ed ora, mentre cammino, sento che mi appartiene.

Per un verso non c’è poi molta ragione per stupirsi. Tutte le tradizioni religiose, occidentali quanto orientali, possiedono una sorta di approccio negativo per dire appieno l’esigenza di superamento dei limiti del pensiero, delle sue operazioni, come delle sue categorie. Il silenzio radicale di Buddha circa la realtà ultima, ad esempio, non si pone come una forma particolare di risposta - silente, appunto - ma coinvolge e travolge la domanda stessa. Nell’ambito cristiano si suole definire ‘apofatismo’ un approccio simile. Invero, può suscitare la domanda riguardante il fatto quanto un approccio negativo di questo tipo sia imparentato con una sorta di fallimento di quello positivo. Il pensiero discorsivo, logico e analitico, lineare e unidimensionale, percorre la sua strada fino a una soglia e proprio lì si deve arrestare. Per questo Tommaso d’Aquino, il Divus Thomas, - il quale sosteneva fra l’altro la dimostrabilità dell’esistenza di Dio in base ad argomentazioni che non richiedessero altro che l’ausilio della sola ragione - diceva che a un certo punto bisogna procedere per eliminazione, perché Dio nella sua immensità è più grande di qualunque concetto la nostra intelligenza possa produrre.

E’ bene anche vigilare su quanto un approccio del genere stia davvero sotto il segno della via negationis oppure solo in apparenza, come forma. Viene appunto il sospetto che possa divenire all’uopo un rivestimento dell’approccio positivo, il quale sotto mentite spoglie s’insinua, avanzando indebite pretese e ripetendo: non c’è niente da capire, la soluzione c’è già, c’è una meta positiva enunciata e anticipata, sta lì esibita dal pensiero e codificata dalla tradizione, prima ancora che tu possa muovere un passo o battere ciglio. Proprio su questo piano possiamo incontrare le parole di Krishnamurti con i suoi squarci veritieri. Lo scompiglio che ci procurano possono rivelarsi salutari e riportarci a quel camminare da cui non ci siamo mai allontanati, nell’invito a toccare la vita nel punto in cui non è stata toccata da nessuno prima di noi, restituendoci così la pulsazione di quel lieto annuncio che sempre è vivo e palpitante. Nel corso di una conversazione dirà Krishnamurti al suo interlocutore: "Vi fu un uomo, infinitamente più grande di ciascuno di noi, che seguì la propria via che lo condusse al Golgota, senza che si preoccupasse se i discepoli l’avrebbero seguito, o se il suo annuncio sarebbe stato accolto". Ed è con questo richiamo di Krishnamurti all’uomo di Nazareth, i cui anni di esistenza pubblica stanno tutti nelle prima dita di una mano e il cui dramma finale non vorremmo augurare a nessuno, che ci piace concludere queste note. Osservando che proprio quell’uomo non ci ha lasciato niente di scritto e anzi l’unica volta che si dice l’abbia fatto i segni li tracciò sulla sabbia, a ricordarci che ogni volta che scriviamo qualcosa, per quanto reputiamo possegga fors’anche un supposto valore o si appoggi su qualche ipse dixit, in realtà lo stiamo facendo sempre e comunque sulla sabbia.

 

3. Addenda. La conversazione tra Krishnamurti e Suarès, di cui compare la traduzione del secondo di otto colloqui, è apparsa in un libricino dal titolo Entretiens avec J. Krishnamurti, Paris, Le Courier du Livre, 1966. I libri di Krishnamurti sono numerosi e si possono leggere in italiano (per lo più editi da Ubaldini di Roma e Aequilibrium di Milano), così come nell’originale inglese e in diverse altre lingue. Una bibliografia (in parte datata) sull’argomento è di Susunaga Weeraperuma, A bibliography of the life and teaching of Jiddu Krishnamurti, Leiden-Koln-London, Brill, 1974. Una biografia, in parte agiografica, comunque corredata da testimonianze, documenti immagini e lettere è quella di Mary Lutyens, La vita e la morte di Krishnamurti, tr. it., Roma, Ubaldini, 1990. Un breve e ironico quadro del contraddittorio entourage krishnamurtiano, a cui sopra si accennava, lo troviamo nel romanzo di René Daumal, La grande bevuta, tr. it., Milano, Adelphi, 1970, pp. 114-115. Il discorso di Krishnamurti di scioglimento dell’organizzazione e della struttura che doveva promuoverlo come nuovo messia è apparsa e ricomparsa in vari testi; tra i più recenti segnaliamo l’edizione speciale in italiano del "Bollettino della Fondazione Krishnamurti", giugno 1986, pp. 4-10.

Alcune parole anche per presentare colui che è stato uno dei più stimolanti interlocutori di Krishnamurti. Carlo Suarès è nato ad Alessandria d’Egitto nel 1892 e si è sempre dichiarato alessandrino, dicendo in proposito: "E’ essere troppo profondamente religioso per essere credente". Successivamente si trasferì a Parigi dove si laureerà in architettura. Lui e la moglie Nadine saranno per lungo tempo legati a Krishnamurti da una particolare amicizia fino alla metà degli anni Sessanta, quando a causa di alcuni dissidi interni al gruppo che coordinava in Francia gli incontri di Krishnamurti si allontaneranno in modo definitivo. Suarès contribuì con diversi scritti e traduzioni a far conoscere Krishnamurti nel mondo francese. Intorno agli anni Trenta, insieme ad alcuni amici, fra cui il poeta e scrittore Joe Bousquet, elaborerà una sorta di dottrina, chiamata ‘présentisme’, direttamente ispirata all’insegnamento krishnamurtiano (Cfr: Ph. Lamour, J. Bousquet, C. Suarès, Voie libre, Paris, Au sens pareil, 1930). In italiano è stato tradotto di Suarès, Saggio su Krishnamurti, tr. it., Genova, Lattes, 1929. Successivamente, dopo la rottura con Krishnamurti, rivolgerà sempre di più l’attenzione alle sue radici ebraiche applicandosi allo studio della qabbalah, pubblicando saggi sull’argomento. Tra questi segnaliamo: Le Sepher Yetsira, Genève, Editions du Mont-Blanc, 1968 e Le Cantique des cantiques, Genève, Editions du Mont-Blanc, 1969. Suarès è scomparso nel 1976.

Infine, il volume di Giovanni Vannucci ricordato all’inizio di queste note è: La ricerca della parola perduta, Sotto il Monte, Servitium, 1996 (cap. intitolato "La vita senza stampelle: Krishnamurti", pp. 99-108. Si può anche vedere il cap. "Disarticolare la mente: Carlo Suarès", pp. 230-237).

 

 

 

Per il testo di "Giannozzo Pucci -La preghiera dell’Occidente-"

fare riferimento all'opuscolo

 

 

 

 

Schede

 

 

 

 

Jacques Légeret, Amish. Una comunità "fuori dal tempo", Torino, Claudiana, 2002

 

Chi sono gli amish? Certamente a questa domanda pochi sanno rispondere correttamente: chi ne ha già sentito parlare pensa a loro come a gente strana che vive fuori dal tempo, qualcuno che vide il film Witness di Peter Weir, in cui Harrison Ford nei panni di un investigatore entrava in contatto con un gruppo di amish, ha anche delle immagini negli occhi ma, di fatto, di questi piccoli gruppi religiosi si sa poco e in modo poco chiaro.

Personalmente sono attratta da chi riesce a compiere scelte di vita radicali, sperimentando sulla propria pelle ciò in cui crede, rispetto al modello comunemente diffuso al quale tutti, chi più chi meno, tendiamo ad omologarci. Per questa ragione ho iniziato a leggere quasi con curiosità folkloristica, lo ammetto, il libro recentemente tradotto Amish. Una comunità "fuori dal tempo", curato dal giornalista svizzero Jacques Lègeret, che da una quindicina d’anni (per ragioni strettamente legate alla sua vita privata) ha il privilegio, di tanto in tanto, di poter vivere insieme alla sua famiglia all’interno della più antica comunità amish degli Stati Uniti, Lancaster County, situata ad un paio d’ore dalla metropoli di Filadelfia.

Leggendo le pagine di Lègeret che, dopo aver ripercorso il tragitto storico di formazione di queste comunità religiose a partire dalla prima metà del 1500, illustra in maniera precisa, corretta e allo stesso tempo piacevole, l’intera struttura su cui si regge la vita degli amish, la mia curiosità si è trasformata in interesse per una realtà sociale che relativizzando in maniera davvero profonda i valori dell’Occidente contemporaneo (con i quali peraltro vive a stretto contatto) e sostenendo praticamente, da più di duecento anni, una controcultura basata su non competizione, non violenza, fede religiosa, sicurezza affettiva all’interno della vita comunitaria, lavoro rurale e artigiano, pone forti interrogativi in chiunque provi almeno un leggero disagio nello stare dentro al nostro modo di vivere e cerchi in qualche modo, se non di tirarsene fuori, quantomeno di alleggerirlo.

Ciò che fa di una persona un amish è, innanzitutto, la sua professione di fede e il rispetto delle regole di vita che ad essa conseguono. Gli amish sono cristiani-protestanti e discendono dal filone anabattista (etimologicamente significa battezzato di nuovo) che si formò a Zurigo nel 1524, nel periodo della riforma luterana, quando alcuni credenti proposero di "riformare la Riforma": il battesimo degli adulti, il rispetto totale della non-violenza e l’esigenza della separazione assoluta tra Stato e Chiesa. Per gli anabattisti la vera Chiesa non poteva essere altro che "confessante", come sono ancora oggi le comunità amish, mentre fin dal Medioevo si pensava comunemente che in virtù del proprio battesimo ogni europeo fosse membro della Chiesa. Gli anabattisti oltre a rifiutare ciò diffondevano idee intollerabili per le autorità dell’epoca, come quelle di una Chiesa indipendente, libera da costrizioni governative per cui l’autorità civile non poteva giudicare in materia di fede. Da qui alla persecuzione, che durò oltre duecento anni, per mano protestante come cattolica, il passo fu breve.

Così, nei primi decenni del 1700 iniziarono i viaggi di migrazione verso il Nuovo Mondo. Terra di destinazione fu soprattutto la Pennsylvania, a seguito di William Penn, membro della comunità dei quaccheri (anch’essa perseguitata), che nel 1681 aveva ricevuto dalla corona d’Inghilterra la regione che in seguito prenderà il suo nome, di cui voleva fare un luogo di accoglienza per tutti i perseguitati d’Europa che all’epoca erano legioni. La Pennsylvania quindi fu letteralmente plasmata, specialmente sul piano dei costumi, delle usanze, dell’architettura e dell’ambiente naturale, da tutti quegli emigrati che avevano portato con sé e strenuamente difeso le loro tradizioni

Pressapoco cinquecento amish formarono la prima ondata di emigrazione che, verso il 1730, si insediò in Pennsylvania. Pare che tra il 1817 e il 1860 circa tremila amish migrarono per stabilirsi nell’Ohio (oggi la più importante comunità degli USA), nell’Indiana, nell’Illinois, nello Iowa e nell’Ontario (Canada).

Con il loro arrivo in America, nel XVIII secolo, per la prima volta gli amish furono autorizzati a possedere dei terreni, diritto che era stato loro sempre negato in Europa, tanto era grande l’odio nei loro confronti fin dagli inizi dell’anabattismo. Verso la metà del 1900, dopo la seconda guerra mondiale, alcuni sociologi predissero la loro scomparsa a breve termine, inghiottiti dal mondo moderno. Invece essi sono sopravvissuti come gruppo culturale e religioso separato dal mondo che lo circonda e nel 1997 erano centocinquantamila (contro i cinquemila della fine del Novecento), riuniti in congregazioni, suddivisi in insediamenti, distribuiti in ventidue stati americani e in Canada. Invece, in Svizzera sono sopravvissute alcune comunità mennonite autonome con circa tremila fedeli battezzati, mentre in Francia nelle regioni di Montbeliard e in Alsazia se ne contano più di duemila.

Mi è parso importante rimarcare questi dati storici nell’invitare alla lettura del libro per dare una giusta collocazione a queste comunità che non costituiscono una esotica sottocultura, ma sono portatori di tradizioni e offrono allo sguardo di chi è realmente interessato a conoscerle un esempio di valori in opposizione alla cultura tecnologica individualistica americana.

Gli amish sono prevalentemente imprenditori agricoli e vivono in grandi case rurali atte a trasformarsi per accogliere più generazioni delle stessa famiglia, sempre molto numerosa, sotto lo stesso tetto. In tutti gli Stati Uniti - paese dello sviluppo agricolo su scala industriale per eccellenza - sono considerati agricoltori senza eguali e i loro prodotti sono diffusi e apprezzati. Anche su questo varrebbe la pena riflettere, viste le condizioni di disastro ambientale nelle quali ci muoviamo, considerando che così invidiabili risultati sono ottenuti continuando ad usare soltanto cavalli per il lavoro dei campi e senza l’uso di prodotti chimici per l’agricoltura.

Oltre che per l’agricoltura sono famosi per la carpenteria e per l’artigianato che costituiscono le altre attività su cui le comunità amish autonomamente si sostengono in maniera completamente separata da usi e costumi dello stato in cui vivono, di cui però rispettano le leggi a meno che non contraddicano le loro credenze religiose. Sono inoltre obiettori di coscienza e pacifisti a tutti i livelli, compreso il rifiuto di ogni forma di competizione, anche sportiva.

I principali simboli di separazione ai quali gli amish tengono sono: il vestiario (invariato attraverso i secoli e fatto sempre in casa), i calessi, l’uso del Pennsylvania Dutch come lingua madre a cui affiancano l’inglese, la barba, le restrizioni tecnologiche soprattutto per quel che riguarda l’uso dell’elettricità e quel che ne deriva (producono autonomamente energia per il funzionamento di materiali da falegnameria e simili).

La comunità è attenta alla formazione dei giovani attraverso scuole private (riconosciute dal governo americano), il non utilizzo di radio e televisione e la non adesione a qualsiasi attività sportiva di tipo agonistico, i matrimoni solo al proprio interno (pur nella consapevolezza dei problemi di consanguineità per le nascite), battesimo degli adulti e scomunica dei "devianti" battezzati.

Amish si nasce e si sceglie di continuare ad esserlo attraverso la professione di fede che, in un’età compresa tra i sedici e i ventun anni, viene sancita dal battesimo. Prima i ragazzi non sono tenuti a rispettare le regole della comunità, eppure più la comunità è conservatrice più i giovani decidono di restare; attualmente l’85% dei giovani chiede di essere battezzato e si unisce alla comunità.

Amish non si diventa e il proselitismo è completamente inesistente tra loro. A coloro che li ammirano e pensano di ispirarsi a loro per una nuova vita più semplice ed ecologica essi rispondono: "Se ammirate la nostra fede, fortificate la vostra. Se ammirate il nostro senso dell’impegno, approfondite il vostro. Se ammirate i nostri valori profondi e duraturi, allora viveteli. Se ammirate il nostro spirito di comunità, allora costruitene uno. Queste cose non si possono comprare chiuse in una scatola o in un libro: esse si costruiscono e si coltivano." (p. 202).

Verso la fine del libro leggo la seguente riflessione dell’autore: "Il nostro mondo vive nel dubbio, progredisce in base al dubbio, si arena nel dubbio. Il mondo amish è un mondo di certezza nel quale quasi nulla viene rimesso in discussione, poiché l’estrema certezza è il raggiungimento della salvezza eterna vivendo da cristiani. E’ un mondo di obbedienza e di rifiuto delle convinzioni moderne, di rifiuto della gerarchia della chiesa e dello stato. Il nostro mondo stimola l’attività creatrice e artistica e ci procura un’eccitazione intellettuale permanente che a volte ci fa progredire. Invece il mondo amish procura ai suoi membri battezzati una tranquillità di spirito duratura. Quale di questi due mondi è preferibile? Né noi né gli amish vorremmo o potremmo cambiare mondo: non si cambia la cultura. (…) Quando si parla di libertà individuale bisogna anche sapere rispetto a cosa la si misura. Paragonati agli abitanti del Bronx a New York è sicuro che gli amish abbiano più libertà. Certo limitano la libertà personale (…) ma in compenso non soffrono di stress e ‘sicurezza affettiva’ non è una locuzione priva di significato in seno alle famiglie e comunità amish. (…) Quello che si perde in libertà lo si guadagna in stabilità sociale. Senza l’aiuto dello stato e di individui bardati di diplomi gli amish hanno creato una società senza poveri, senza vagabondi, senza criminali, dove l’alcolismo è praticamente sconosciuto e dove i bambini illegittimi sono molto rari. E’ un mondo fatto di disciplina, frugalità, umiltà e aiuto reciproco in breve una sfida al mondo moderno del consumo e dello spreco. (…) Sotto molti punti di vista la società amish ci sembra pesante, rigida e retrograda però, per quanto concerne l’integrazione delle persone anziane, degli handicappati, dei bambini e di chiunque viva condizioni di difficoltà è invece una società modello che assicura conforto materiale sicuro, appoggio psicologico e affettivo permanente." (pp. 200-201).

La loro fede, ciò che sottende tutte le loro scelte, si basa sulla certezza per alcuni, per altri sulla speranza, che se si segue l’insegnamento amish si è assolutamente sicuri di essere salvati. Su questo punto (che negli anni Sessanta fu origine di controversie anche al loro interno, ma solo per quel che riguarda la certezza o la sola speranza) la nostra cultura entra in forte contrasto con quella amish e mi domando se non sia possibile compiere scelte altrettanto radicali e stimabili, orientate da un fondamento religioso, senza pensare di ricavarne un premio, anche se in un altro mondo, ma solo perché la vita così vissuta restituisce maggior senso e bellezza. Diciamolo subito: gli amish non amano questo genere di discussioni e da pacifisti radicali quali sono sanno che "la violenza inizia sempre con le parole" per cui privilegiano l’uso ripetuto del silenzio, cercando il più possibile di evitare argomenti che potrebbero provocare discordia, soprattutto se di ordine teologico e filosofico, sostenendo, come recita un loro detto che "è preferibile rimanere in silenzio, anche col rischio d’essere presi per stupidi, piuttosto che aprire la bocca e togliere ogni dubbio".

Sicuramente il mantenere silenziosamente e pacificamente fede ai principi è stata ed è la forza degli amish. Come ho detto, la lettura di questo libro non è solo interessante ma sa essere piacevole, anche se alla fine sorge spontanea la domanda: "Chissà se vivono davvero bene, se sono davvero contenti?" Ma allora proviamo a ribaltare la stessa domanda: "E noi lo siamo?".

Silvia Papi

 

Roberto Escobar, Il silenzio dei persecutori, Bologna, Il Mulino, 2002

Beniamino Placido nella sua rubrica di recensioni, una domenica del 2002 si è dedicato a questo professore di Dottrina dello stato della facoltà di Scienze politiche di Bologna, nonché critico cinematografico del "Sole 24-Ore", accusandolo senza riguardi di manierismo. Povero Escobar, dunque! Egli che si era sforzato, con ostinazione, di non alimentare l'ovvio e il luogo comune che banalizzano e rendono allora invisibili cose così evidenti. L'ovvio a conferma nell'enormità dei crimini di chi amministra vita e morte. Escobar è poi bravo a sviscerare il capitolo violenza, che altrimenti si ridurrebbe alla sola enunciazione del crimine. Il grado minimo sarebbe stato ricordare i malefici raccapriccianti che il Novecento ci ha saputo dimostrare e allora abbiamo la tanatocrazia (potere fondato sulla morte), tanto che si parli di Shoah, di Vietnam o della progressiva corruzione morale del furehr, cose sicuramente raccapriccianti in sé, che tuttavia non giustificherebbero l'attenzione acuta di Escobar. Egli infatti ci parla di questo "silenzio dei persecutori". Occorrerà allora guardare con attenzione. Escobar ci parla di una vera e propria 'metamorfosi antropologica'; tragici specialisti nella produzione di morti stanno nell'istinto dell'"armento" (sic) innocente e cieco a cui si oppone il fronte chiuso della totalità persecutoria. Ci sono poi, nel vasto percorso di questo libricino altre parole spaventose colme di ferinità (io commento parole già di commento): il persecutore non stimerà di uccidere - ora sono parole di Escobar - manipolando e scempiando corpi e anime, ma gli parrà di distruggere la morte stessa in effigie. E qui cita nientedimeno che Hitler (Mein Kampf): "Si può frantumare un'idea usando la forza bruta? Sì, continua Hitler, a meno che i persecutori non siano coinvolti nel discorso delle vittime". Uccidere dunque al sicuro dalla compassione; perché le vittime meritavano solo di essere contate.

La lotta di Roberto Escobar ne Il silenzio dei persecutori è anche contro la congiura del silenzio, che toglie senso e udibilità al discorso. L'effetto paradossale è una ingiustizia per così dire postuma; la vittima non può, di fatto, provare di aver subito un torto e diviene vittima se perde i mezzi per provarlo. Ritorniamo a Placido e alla sua accusa di manierismo. Letto il libro e assorbitolo in tutte le sfumature, alla fine, in una piccola nota inconsistente e marginale possiamo benignamente rilevare un qualche vezzo di manierismo, pur trascurabile. La vera metamorfosi antropologica riguarda solo gli assassini che per continuare ad essere uomini dovevano "scarnificarsi", cioè uccidere se stessi perdendo i segni che sono posti oltre l'esistenza del singolo. Noi tributiamo ad Escobar grande onore, per essere riuscito a organizzare sul niente e dal non visto un discorso sottile e persuasivo. Di Placido apprezziamo la fattura dei suoi autocompiacenti elzeviri, ma spesso è una scrittura che non sa dove andare a parare: giornalisticamente ineccepibile, teoreticamente deboluccio.

Valeriano Massimi

 

 

 

Paul Virilio, La bomba informatica, Milano, R. Cortina, 2000

Nessuno sa cosa sarà "reale" per gli uomini al termine delle guerre che cominciano ora.

Werner Heisemberg

Proseguendo idealmente la riflessione aperta con una precedente recensione, vorrei proporre la lettura di quest’opera di Virilio, urbanista e filosofo francese contemporaneo, opera che rappresenta un interessante punto di vista critico circa quella catastrofe culturale ed antropologica che da più parti si paventa come uno degli esiti possibili della crisi cui sembra essere pervenuta la modernità.

In questo senso, La bomba informatica raccoglie una serie di interessanti interventi, alcuni dei quali apparsi già su alcune riviste a Francoforte, Zurigo e Vienna, caratterizzati da una lucida analisi unita ad una forte critica di quell’"impero dell’immagine e del virtuale" che già in un altro suo libro (Velocità e politica), era stato denunciato dall’autore come uno dei tratti distintivi le società del benessere, impero che tenderebbe a sostituirsi alla "esperienza della realtà" nella coscienza dell’uomo contemporaneo.

Accompagnati da una prosa accattivante e sicuramente d’effetto, i diversi capitoli del libro prendono spesso l’avvio da fatti di cronaca i quali forniscono l’occasione per perlustrare le radici profonde di questo diffuso "disagio della civiltà" che Freud aveva descritto come "stato dell’anima" dominante in coloro che erano usciti dall’esperienza della II guerra mondiale.

Ecco allora comparire sulla scena i tratti di questo volto tragico della modernità: la militarizzazione della scienza, il suicidio assistito tramite computer, il fallimento della frontiera dell’aeronautica spaziale come fine del sogno della "grande fuga cosmica" dell’uomo, la diffusione di internet con la sua introspezione collettivistica, l’indifferenza verso le sofferenze intollerabili di molta parte dell’umanità, il disturbo del processo di maturazione che sembra bloccare folle di individui in un’eterna infanzia, la caduta del senso dell’arte che distrugge i punti di riferimento nella valutazione della produzione contemporanea, l’abbandono dello spazio ‘reale’ (visibile anche nella forma della devastazione ambientale) in favore della vita in uno spazio sempre più virtuale, l’estrema difficoltà a tracciare una "storia" delle comunità e degli individui, la colonizzazione della materia vivente da parte delle tecnoscienze, i nuovi esperti nel campo delle scienze dell’educazione i quali suggeriranno, per esempio, come il testo scritto vada evitato perché la lettura implica un rallentamento che offre troppe chance al tempo della riflessione, e altro ancora.

Leggendo queste pagine risulta interessante notare come la cultura francese contemporanea (cui appartiene Virilio) abbia trovato più di un autore disposto a vedere una certa ‘sotterranea continuità’ tra la grande macchina propagandistica che aveva consentito l’ascesa del totalitarismo nazista, e quanto poi hanno messo in campo le potenze vincitrici il secondo conflitto mondiale, cioè la determinazione a governare e orientare le coscienze tramite una curata ‘guerra’ tecnologica e mediatica, dove, tra l’altro, le nuove aggressioni andrebbero giustificate in nome della difesa della democrazia (e, a tal proposito, il richiamo all’attualità rischia di avere il sapore amaro della profezia…). Tesi, questa, senza dubbio per alcuni versi estrema, ma che volutamente anche in Virilio si serve di metafore forti per provocare a pensare in profondità le ragioni che hanno portato e portano a quella "sterminazione del senso della realtà" da parte dei media sempre in agguato nell’universo dell’informazione, con tutto il peso e le implicazioni che questo fenomeno ha sulla formazione soprattutto delle giovani generazioni.

A volte, leggendo questo libro, come anche altri dello stesso autore, si ha l’impressione che egli veda "nel virtuale una specie di incarnazione del male", osserva nella postfazione Carlo Formenti, un’accesa condanna morale da parte della vecchia Europa alla giovane America. Certo, in molte pagine questo atteggiamento non permette di cogliere anche le potenzialità libertarie e di sviluppo umano insite nella rivoluzione informatica, e come spesso una risorsa si connoti positivamente o meno a seconda dell’uso che se ne faccia. Resta, comunque, il fatto che anche il pensiero di Virilio costituisce un buon antidoto per piantare il seme del dubbio nella mente di folle di fedeli, che troppo volentieri si inginocchiano davanti ai nuovi altari dell’informazione in tempo reale e della tecnologia al suo servizio, in ‘religioso ossequio’.

Giuliano Burbello

 

 

 

Notizie

 

 

 

Seminari, ritiri e incontri presso la casa di Galgagnano (Lodi)

 

1. Seminario di studio condotto da p. Luciano Mazzocchi e da Jiso Forzani: Questo tempo e il cammino religioso

 

Ogni seminario ha inizio il venerdì sera e termina la domenica con il pranzo di mezzogiorno. Sabato: pratica mattutina e serale, studio e lavoro; Domenica mattina: solo pratica (zazen e Vangelo - eucaristia). Per adesioni tel. 0371.68461 o 0371424801. Si sono già svolti i primi tre incontri. La partecipazione è aperta.

 

IV° Incontro (30 maggio – 1 giugno): Vivere creativamente nella propria interiorità i segni di questo tempo e la domanda religiosa: quale cammino?

V° Incontro (4 – 9 agosto): La Grande Legge delle religioni e la ricerca della libertà nell’uomo contemporaneo ". (N.B. il seminario di agosto dura una settimana e, oltre al ritiro, comprende il tempo dedicato allo studio e al confronto).

 

  1. Ritiri e corsi condotti da p. Luciano Mazzocchi, missionario saveriano

 

Il ritiro (zazen – Vangelo – lavoro – studio – eucaristia) inizia il venerdì sera e termina con il pranzo della domenica; si raccomanda la prenotazione (tel. 0371.68461).

Periodo ritiri: ogni fine settimana che precede la prima domenica del mese e non già occupato dai seminari (vedi sopra): 4/6 aprile; 2 /4 maggio.

Date particolari per accoglienza: 15/20 aprile.

 

     3.   Ritiri condotti da Jiso Forzani, missionario zen

 

 

Il ritiro inizia il venerdì sera e termine con il pranzo della domenica; si raccomanda la prenotazione (tel. 0371.424801).

Periodo ritiri: ogni fine settimana che precede la terza domenica del mese (eccetto dicembre e aprile):

16/18 maggio; 13/15 giugno; 18 /20 luglio.

 

HOME

 

 

*