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Recensione "Zoo di Venere" su Il Mucchio Selvaggio (20/26 gennaio 2004)

Nell’area del pop moderno con voce femminile si muovono gli Zoo di Venere, che vivono a Roma, posseggono un’indole più rock e sono giunti solo ora al vero e proprio esordio – dopo molte modifiche di organico e l’ep “Emozioni in overdose”, pubblicato in proprio nel 2000 – con l’omonimo CD marchiato dalla Radiofandango/Wea. Guidato dal chitarrista/produttore Daniele Macchi e dalla cantante Luana Caraffa, entrambi anche autori di testi e musiche, il gruppo sembra essersi allontanato dall’impostazione filo-elettronica dell’ep per imboccare una strada più grintosa e incisiva – ma tuttavia molto attenta all’orecchiabilità – modellata attorno alle esecuzioni potenti, calde ed enfatiche (“teatrali” si potrebbe definirle) della brava “front-woman”; peccato che i risultati, benchè apprezzabili sotto il profilo dell’energia (preservata dalla registrazione in presa diretta), non riescono a convincere appieno, vuoi per l’artificiosità (apparente?) della formula e vuoi per la generale tendenza a “calcare la mano” nella ricerca di soluzioni d’effetto. Con la loro miscela di pop e hard-glam velate di dark, gli Zoo di Venere sembrano insomma una sorta di epigono italiano – in chiave però meno kitsch – di quegli Evanescence gratificati di un clamoroso successo internazionale grazie alla presenza nella colonna sonora di “Daredevil”: un accostamento che il famoso regista australiano Richard Lowenstein, autore del semplice ma seggestivo videoclip in bianco/nero del singolo “Killer (ogni istante è l’ultimo)”, ha in pratica avallato coniando per lo stile della band la spiritosa etichetta “vampire-chic”. Che ognuno, in base al proprio gusto, valuti se ciò pesi sul piatto dei “pro” o su quello dei “contro”.

Federico Guglielmi