" Lungo i sentieri della follia" |
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Dopo
la riforma Basaglia Poco integrate nei movimenti
politici ed ideologici degli anni ‘70, nonostante la dirompente presenza a
livello locale del movimento studentesco, le strutture sanitarie trentine hanno
accolto con diffidenza-indifferenza la riforma psichiatrica prevista dalla legge
180 del ‘78, anche perché alcuni dettami legislativi erano già in fase di
attuazione (ridimensionamento dell’ex O.P., apertura di Centri di salute
mentale, di S.P.D.C...), magari secondo ottiche autonomistiche e per lo più
scoordinate tra loro e con il resto dell’organizzazione sanitaria provinciale. Dal
luglio del ‘78 vengono aperti 4
servizi psichiatrici di diagnosi e cura negli ospedali di Trento, Arco, Borgo e
Mezzolombardo per un complessivo di 60 posti letto. Qui i pazienti possono
trovare solo risposte temporanee e di necessità parziali. Si forma così una
piccola schiera di pazienti che entrano ed escono dai reparti ed un altro gruppo
che passa sempre più tempo negli ospedali, che rischiano di diventare
parcheggi di lungodegenti. Negli
anni successivi, solo alcuni gruppi di lavoro dell’ente pubblico e del privato
sociale, in base alle proprie convinzioni ideologiche o terapeutiche, alle
diverse condizioni socio-culturali o ambientali in cui operavano, alla
sensibilità o contrattualità delle singole U.S.L., sono riusciti a darsi
un’organizzazione ed a creare una rete complessiva che può essere considerata
efficiente, specie se confrontata con altri servizi psichiatrici nazionali.
Tutto questo però si era venuto a creare senza un progetto condiviso a livello
provinciale, senza un significativo confronto tra singole realtà operative, con
celate conflittualità tra i differenti servizi pubblici e del privato sociale o
del volontariato. In questa situazione, il
manicomio di Pergine venne “chiuso”, nel senso che non fu più possibile
ammettere nuovi ingressi. Alcuni pazienti vennero dimessi, ma una cospicua parte
rimane tuttora ricoverata per assenza di alternative. I vari centri di salute
mentale, intesi come riferimento e filtro per l’urgenza e per la gestione
domiciliare della malattia, fanno tuttora fatica a decollare; e così strutture
alternative intermedie. Difficile è stato il passaggio da un’assistenza
centrata sul manicomio a una centrata sulla costruzione di una rete di servizi
territoriali, sia per motivi politici o ideologici, ma anche culturali. Il
manicomio era in fondo il contenitore, oltre che dei malati, anche di ciò che
essi rappresentavano nell’immaginario collettivo. La psichiatria manicomiale
aveva come competenza una rassicurante funzione di controllo sulla devianza e di
difesa della società da possibili comportamenti devianti. Non a caso il
ricovero veniva ordinato dalla autorità giudiziaria e menzionato sul
certificato penale. Dal primo gennaio 1982,
l’assistenza psichiatrica subisce un notevole decentramento: la competenza
passa dalla Provincia alle Unità Sanitarie Locali. Vengono individuati i vari
Settori di Salute Mentale a loro volta suddivisi in Unità Operative (U.O.) In questi anni molti
progressi sono stati effettuati da parte del privato sociale: con la creazione e
l’attivazione di servizi, strutture intermedie, associazioni, cooperative
sociali, che hanno cercato di rispondere a bisogni diversi inevasi dai servizi
pubblici; ma tutto questo non è ancora sufficiente per rispondere ai bisogni
dei familiari o di quei malati che vivono in condizioni di isolamento sociale. Allo stato attuale le U.O.
del Dipartimento di Psichiatria sono 5: Ø
Mezzolombardo; Ø
Trento; Ø
Borgo Valsugana; Ø
Rovereto; Ø
Arco. Mi
sembra importante evidenziare che la chiusura dei manicomi non ha cancellato il
problema tanto discusso dell’istituzionalizzazione, perché i residui
manicomiali sono ancora attivi (non sono
stati più possibili dal ‘78 nuovi ingressi, tranne qualche temporanea
eccezione relativa a soggetti provenienti dall’Ospedale Giudiziario). Attualmente nell’ex
ospedale psichiatrico di Pergine ci sono ancora 192 malati ricoverati da molti
anni, per i quali non è stato possibile l’inserimento in strutture
alternative e per alcuni dei quali è previsto un inserimento in R.S.A.
(residenze sanitarie assistite) collocate all’interno della stessa struttura
ospedaliera e destinate alle persone con problemi psichiatrici cronicizzati
associati a patologie di tipo geriatrico, non autosufficienti. Altri degenti
dell’ex O.P. sono o verranno trasferiti in altri reparti, riconvertiti in
casa-famiglia, per favorire l’autonomia e offrire un ambiente più accogliente
e dignitoso. Con la Legge 724/94 (Finanziaria ’94) furono emanati i provvedimenti finanziari a
supporto dell’obiettivo della definitiva chiusura degli ex ospedali
psichiatrici. Al vuoto lasciato dalla “chiusura” dell’ospedale di Pergine
si è trovata un’alternativa con l’apertura della Comunità Maso S. Pietro
che, in questo articolato panorama, si colloca come tentativo di risposta a
nuovi bisogni emergenti. Essa si propone in posizione complementare rispetto ad
altre strutture intermedie, ed in continuità rispetto ai Servizi Psichiatrici
di Diagnosi e Cura; come sostegno alle famiglie alle prese con casi difficili da
gestire, la cui particolare complessità provoca situazioni di ulteriore disagio
ed emarginazione. Fondata nel 1985, la Comunità
di Maso S. Pietro nasce come struttura programmata dall’U.S.L. C/4 “Alta
Valsugana” nel contesto dei Servizi psichiatrici e si configura da
subito come una struttura intermedia tra il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e
Cura (S.P.D.C.) e il territorio; essa costituisce quindi una risorsa attivata
nell’ambito della riforma psichiatrica disposta dalla legge 180, per la
riabilitazione psico-sociale del malato mentale in vista del suo reinserimento
socio-familiare. La Comunità accoglie per un periodo prefissato e a termine, secondo un piano di
intervento concordato con gli operatori dei Servizi psichiatrici territoriali,
soggetti, maschi e femmine, psicotici (schizofrenici) o affetti disturbi di
personalità, di età non inferiore ai 18 anni. Il massimo di ospiti era 32 in
residenzialità a tempo pieno e di sei in
residenzialità diurna provenienti dai vari distretti dell’Azienda Provinciale
per i Servizi Sanitari della Provincia di Trento. La gestione
della Comunità è affidata
ai Padri Camilliani dell’Ente Religioso Provincia Lombardo-Veneta, con i quali
l’Azienda ha stipulato una convenzione che regola i reciproci rapporti di
carattere normativo ed economico. La Comunità ha sede in due
edifici completamente ristrutturati. Il primo è Maso S. Pietro, un edificio che
accoglie venti ospiti in residenzialità completa (dalle ore 9.00 alle ore 17.00
dal lunedì al venerdì) e due ospiti in residenzialità diurna
in orario e giornate
stabiliti con l’ospite, con i familiari e con l’équipe curante. L’età
media dei soggetti è di circa 35 anni, con
diagnosi prevalente di schizofrenia; altri pochi casi
presentano disturbi di personalità
su base oligofrenica o border-line (una buona percentuale di essi
frequenta la Comunità da oltre dieci
anni). Il secondo è il Maso Tre Castagni, operativo dal gennaio 1996, che
accoglie invece dodici ospiti in residenzialità completa (per tutto l’arco
della settimana) e due in residenzialità diurna. Le due strutture costituiscono
due diverse linee di attività dell’organizzazione della Comunità nel suo
complesso. La cronicità della patologia e l’età degli ospiti, di media
superiore ai Tre Castagni rispetto al gruppo di ospiti del Maso S. Pietro, è
l’elemento che contraddistingue le due strutture e, di conseguenza, anche gli
interventi terapeutico-riabilitativi si diversificano in considerazione di tali
elementi. Le
risorse logistiche della struttura sono completate da un piccolo appartamento,
sito nella frazione di Zivignago e assegnato in comodato alla Comunità dal
Comune di Pergine. In questa struttura vengono accolti due ospiti per il fine
settimana, uno dei quali è
presente per più giorni a settimana. I
valori fondamentali che caratterizzano la Comunità Terapeutica sono quelli
del rispetto dell’individualità, in contrapposizione a quelli che
erano i principi della manicomializzazione. La Comunità
si impegna ad offrire un ambiente accogliente ed ospitale, dove gli
ospiti si sentano bene accetti, riducano il peso delle loro tensioni
psicologiche e siano incoraggiati al dialogo e alla chiarificazione dei loro
bisogni per un più adeguato sviluppo delle capacità relazionali e di
socializzazione nella convinzione che: “..ciò che definisce una comunità
terapeutica è il clima che si riesce a creare nel suo interno: non si tratta
solo di proteggere il paziente, ma soprattutto di offrirgli un campo vivo di
esperienze sociali accettabili, una disponibilità emotiva ed affettiva, una
valorizzazione dei comportamenti adeguati, una misura dei comportamenti anormali
e regressivi, un crescente esercizio del senso di responsabilità personale..”[1]. In questi anni si è perciò
molto insistito sulla necessità di riuscire a creare spazi condivisi in cui
sperimentare un livello più stretto di relazione interpersonale a partire dalla
convivenza, dallo scambio e dal continuo confronto tra ospiti e operatori.
Presupposto per tale obiettivo è il lavoro in équipe tra gli operatori e gli ospiti, caratterizzato da riunioni giornaliere e da
incontri periodici con gli operatori e medici psichiatri territoriali. La
Comunità offre agli ospiti
il senso di appartenenza ad un gruppo, la sicurezza psicologica che possono
gradualmente interiorizzare nel tempo. Essa si impegna a favorire
l’attivazione delle potenzialità umane e creative degli ospiti e
l’acquisizione di una loro
maggiore autonomia operativa e
contrattuale. Per
ciò ogni progetto è personalizzato in considerazione
dell’individualità e della soggettività di ognuno. |
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