Bacheca (Racconti)

 

 

Giovanni Capodicasa

 

scheda biografica

poesie

Il primo

L'eccellente drammaturgo

Diario di una giornata persa

Una banalissima storia di Natale

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- Il primo -

 

Stavo fuggendo.
Alla fine avevo trovato il coraggio di liberarmi dai lacci ideologici e votivi che mi tenevano avvinto alle elucubrazioni illogiche del primo e andai via.

Ero e sarei stato, sinché non mi avessero scoperto e ripreso per giudicarmi, il secondo del primo, carica che a quel punto non volevo più e detestavo, come l'intero sistema che avevo lasciato, sdegnosamente rinunciando a tutti i miei privilegi.

Un giorno prima il primo mi aveva detto che due soli vicini non davano maggiore luce e calore di un singolo astro, tutt'altro. Si sarebbero bruciati a vicenda. Ne occorreva uno soltanto e un pianeta o anche più, volendo. Non importava poi tanto il numero. Il primo ristorava il secondo o gli altri e ne godeva. Il secondo ricambiava, con un’incondizionata devozione, l'immenso dono ed anch’esso, a sua volta, ne godeva.

Il significato era abbastanza chiaro ed annuì senza rispondere. Mi resi, però, conto che liberandomi dai legami dell'esistenza, non avrei dovuto nulla a nessuno se non a me stesso, ammesso e non concesso che avessi mai voluto prendere una tale decisione; deprecabile e subito scartata in quanto arrecava offesa al primo. Uscimmo in giardino passeggiando con molta calma.

Dentro di me continuavo a riflettere. Oramai le convinzioni, che mi avevano sostenuto per tanti anni, iniziavano a vacillare, senza che riuscissi a capirne la vera ragione, anzi tentando di scacciare simili idee peccaminose ed ingrate nei confronti del primo. Giunsi, così, alla decisione che non sarei entrato mai più in velleitarie pretese individuali, né in piogge di lacrime che impoveriscono le visuali. Sensazioni che si disancorarono dai profondi abissi dell'anima e vennero a galleggiare sotto la luce debole della conoscenza.

Eravamo soli, il primo ed io. Si lamentò, perché guardavo, anche se forse con distrazione, il cielo lezioso ma esaustivo, edulcorato in un pallido color rosa e screziato da lembi di nubi sparse e rade. Ma proprio la sua affermazione mi aveva dato a pensare ed allora capii che quelle sensazioni erano state sollecitate dalle magiche emanazioni dello spettacolo crepuscolare in una dolcissima serata di primavera.
Il primo così parlò col suo tono flebile di voce che, tuttavia, racchiudeva una potenzialità spaventosa, inimmaginabile:
- Quello che occorre è un risoluta fermezza, un potere incoercibile, un ordinamento giuridico inderogabile ed un’amministrazione certa della giustizia. Tutto questo lo possiamo garantire.

Con tali requisiti, infatti, il sistema era stato mantenuto saldo per secoli. Affidabile punto di riferimento, per noi almeno, senza possibilità di devianze, né eccezioni. Non vi erano errori, almeno non irrimediabili, poiché anche quello rientrava nell'emanazione del primo e diveniva parte integrante della legge assoluta. Pertanto l’errore assumeva connotati che non si discostavano dalle norme, per il semplice motivo che divenivano parte integrante di esse. Gli intrighi retorici, i cavilli, su cui riposavano le scappatoie possibili, costituivano un rifugio futile, un labirinto normativo che consentiva soluzioni quanto mai sterili. Velleità interpretative e null'altro, che si infrangevano inesorabilmente contro l'autorità del primo.

Vigeva alla fine la sua sentenza inappellabile, se in tal modo è possibile definire un mero divertimento dialettico chiuso in sé, il quale rendeva inutile ogni accezione degli avvocati di parte. Immancabilmente il tutto si risolveva in un vago esercizio verbale, privo di qualsiasi possibilità di raggiungere risultati che non fossero l'assoluta vittoria del primo il quale considerava la cosa, appunto, una divertente esibizione accademica.
Disse ancora:
- Quando la verità è troppa non significa niente. Un po’ alla volta ne occorre. E mai poi tutta.
Questa affermazione mi disturbò più della prima, anche se l'avevo studiata per anni e conoscevo bene ogni suo più recondito significato.

Mi sovvenne il dubbio che il primo avesse intuito in me qualcosa di cui ancora non mi ero accorto e stesse mettendomi alla prova per saggiare la mia quiddità. Ma subito mi ravvidi e considerai quell’idea alquanto stupida, perché, se il primo avesse avuto simili sentori, avrebbe adottato sistemi assai differenti ed efficaci per sondare il mio spirito. Superata tale preoccupazione, iniziai a pensare, dando fondo alla mia potenzialità cerebrale. Si potrebbe credere che fosse un rischio farlo vicino al primo, ma evidentemente non è ancora chiaro che dispongo di capacità tali da creare, tra altre innumerevoli cose, barriere che neppure il primo può facilmente avvertire o penetrare. Diressi, dunque, tutta la mia energia mentale a formare una catena indefinita di enti pensanti che si riproducevano a vicenda, esaminando unicamente le parole del primo.

Era un'operazione dalla potenza ideativa inaudita. Durò poco, ma questo è un particolare assolutamente trascurabile. Un altro fattore mi distrasse, invece, o, per meglio dire, mi lasciai distrarre da esso.

Mi sentii terribilmente solo, avendo per forza di cose inglobato, fin dalle più sconfinate lontananze, parvenze che avevo creato nella realtà interiore. Fu veramente penoso sentirsi in tale stato. Avevo peccato e recato offesa grande al primo.

Lo guardai, dunque e, fingendo che nulla fosse accaduto, gli rivolsi un cenno di incondizionata approvazione a quanto aveva asserito.

 

***

 

Meditavo supino, con le mani unite dietro la nuca, disteso su un piccolo letto col capo appoggiato ad un sudicio guanciale. Altrettanto lurida era la stanza che avevo preso in affitto, sborsando una quantità eccessiva di denaro contante al disonesto gestore della squallida pensione per prostitute, nello schifoso quartiere della periferia sud - est della metropoli. Forse, ad essere obiettivi, la somma non era poi così grossa, se veniva considerato il gravissimo rischio che correva il farabutto. Il primo non perdonava, perché non conosceva il perdono e, nel dubbio, annientava, in quanto l'ideologia insegnava, anzi imponeva, che era meglio eliminare un presunto innocente che farla fare franca ad un vero oppositore. L'albergatore non possedeva certamente un’intelligenza tale da intendere l'ideologia e poter scegliere da che parte stare ma, altrettanto sicuramente, quei soldi gli servivano ed erano di gran lunga sufficienti a vincere la paura che una incursione gli metteva addosso. Rischiava, non solo per cupidigia, suppongo, ma principalmente per fame. Tutto il popolo aveva fame e non si faceva nulla per cambiare la situazione.

 

Sarebbe bastato che il primo e il sistema rinunciassero ad 1/24.000 delle proprie disponibilità economiche per formare una nazione non dico ricca, eccederei in ottimismo, ma quanto meno in grado di condurre un'esistenza decorosa.
Il rischio, il rischio. Ma chi rischiava ancor di più ero io.

Sì, stavo fuggendo ed ero nell'angoscia mortale della preda inseguita, braccata. Eppure, nel sistema e vicino al primo, ero stato a poche ore dagli dei!

La tensione unita al mio immenso potere mentale (non per nulla ero il secondo) mi rendevano scattante e pronto ad affrontare qualsiasi improvviso pericolo, però, al tempo stesso, annebbiavano la mia capacità di razionalizzare la situazione.

Avevo bisogno di lucidità, di poter prendere decisioni rapide ed agire con precisione estrema. Ero stato per trent'anni nel sistema e lo conoscevo bene.

In minima parte avevo anche io concorso a perfezionarlo, e sapevo come nessuno fosse mai riuscito a scappare. Nonostante ciò, nutrivo ugualmente non so se la speranza o l'illusione di venirne fuori. Avevo, però, bisogno di raggiungere la massima concentrazione e predisporre un piano veloce e particolareggiato a cui non avevo pensato prima, per la fretta di fuggire. Così decisi di concedermi un paio di ore di riposo. Potevo farlo, avevo calcolato che le probabilità di trovare uno come me in 120 minuti erano di una su 1.002.700; abbastanza per stare tranquillo. La stanchezza prevalse su tutto e mi addormentai.

Mi svegliai dopo neppure un quarto d'ora per un impulso dettato dall'istinto, in pieno sonno, un qualcosa di animalesco ed ancestrale, mai conosciuto prima e che debordava dalle cognizioni del sistema: dovevo lasciare quel posto e in fretta. Mi resi conto di stare per commettere un grosso errore che, molto probabilmente, mi avrebbe fatto scoprire e non dovevo concedere al primo la minima probabilità di successo su me. Sarebbe bastato un nonnulla e mi avrebbe ripreso.

Comunque quel quarto d'ora era stato sufficiente a far quadrare le idee. In breve tempo elaborai il mio piano. Era molto accurato, ma proprio questo mi preoccupava, poiché la presunta perfezione vola con la debole ala dei programmi più audaci.

Decisi. Mi sciacquai il volto, presi il mio libro di meditazioni che portavo sempre appresso e scesi giù dall'albergatore. Consegnai le chiavi della stanza e gli intimai, fissandolo negli occhi, di non far parola con nessuno sulla mia presenza in quel posto e, per il suo stesso bene, di scordare di avermi mai veduto, anche se sapevo che, per loro, tale accortezza si sarebbe rivelata assolutamente inutile.

Lessi la paura in quegli occhi annacquati dall’alcool. Sapeva che non scherzavo per niente, perché ero un consacrato e lo capiva non tanto dagli abiti, quanto dal mio sguardo in grado di penetrare gli animi più duri e smuovere quelli più ottusi.

Presi una strada dissestata che costeggiava per un lungo tratto uno steccato fatiscente e poi andava giù fiancheggiando il corso di un binario morto.

La mia anima era un paradiso importante. Ne erano perfettamente consci i pezzi grossi, i quali, anzi, invidiavano la mia posizione di secondo in seno alla gerarchia. Traguardo che avevo raggiunto, come ho già detto, nel periodo di appena trent'anni, superando tanti che erano prima di me. Ma la cosa più rilevante è che avevo ancora margini enormi di miglioramento e la possibilità di affinare le mie doti innate.

 

In parole povere, mentre gli altri dovevano profondere sforzi notevoli per raggiungere e mantenere un dato livello, per me la ruota della dottrina girava quasi da sola, in quanto lo scibile da acquisire pareva calare nel mio intelletto grazie ad una naturale e rarissima predisposizione.

Il primo mi adorava e nelle pieghe più nascoste dei suoi progetti, si mormorava così, e certo non soltanto per malizia, custodiva la volontà di una mia successione sullo scanno del comando supremo. Essere secondo era solo una posizione provvisoria quanto precaria, che poteva cambiare da un momento all’altro. E chiunque, per assurdo anche il decimo, avrebbe potuto succedere al primo.

Non si capiva il motivo per cui non avesse mai palesato, se la cosa era vera, tale suo progetto, visto che non aveva nulla da temere, poiché le successioni avvenivano solo alla morte, o al limite, per impedimento gravissimo.

Smisi di pensare e mi sedetti su un muricciolo sbrecciato.

Avevo percorso un bel po’ di strada ed ora mi trovavo in un posto isolato e tranquillo. Soltanto un labile brusio proveniva dalla miserabile megalopoli che si stagliava alle mie spalle col suo inquietante ed opprimente grigiore. Venne stimato che la abitasse circa mezzo miliardo di individui, poco più che allo stato brado.

Oltre questo ascoltavo, nell'improvvisa quiete e nel silenzio, i pensieri che si intrecciavano nell'etere con le loro ali invisibili, mute stasi del tempo di fuori che io, però, riuscivo a decodificare con facilità, anche se, nella loro moltitudine, formavano un groviglio fortemente intricato.

Guardavo davanti a me, senza fissare lo sguardo su nulla in particolare e mi accorsi che, probabilmente, non c'era in quel luogo nulla che valesse la pena di essere guardato.

Ad un tratto petali di pioggia scesero calmi intorno a me, su di me, fini, radi e con l'odore della buona terra.

Capii, mentre provavo piacere per l’essenza che si manifestava, che il primo mi aveva trovato e non potevo far altro se non attendere che venissero a prendermi per eliminarmi. Non provai alcuna emozione: né paura, né angoscia, né rabbia, né pentimento.

Avvertii, invece, una pace intensa ed una felicità sconfinata.

Mi sentivo pronto alla morte, poiché ero più che mai vicino alla deità; oltre l'idea di me stesso pensante, diffuso in un infinito concepibile, ma inattingibile, privo delle forme di spazio, tempo, causa, pieno solo del mio essente nella sua totalità ed unicità.

Come un sibilo di treno morente, trasportato dalle remote regioni della tramontana, giunse alla mia mente un suono noto, quello del pensiero del primo che mi comunicò:

”Ho disobbedito alla legge per te. Anche se io sono la legge, ho disobbedito. Nessuno ti eliminerà, ritorna. Hai ancora troppo da imparare, prima di diventare il primo. Ho scelto in te il mio successore e così sarà”.

In passato vi erano stati casi di morti impreviste, sì proprio impreviste, che avevano dato adito a lunghe e sanguinose guerre intestine e abominevoli intrighi di palazzo per il diritto all successione.

 

Per tanto, memori di conseguenze che andavano a minare la stessa stabilità del sistema, come ho già avuto modo di accennare, si promulgò una legge, anzi un comandamento, emanazione del primo che governava in quei tempi. Secondo tale norma suprema il primo, entro cinque mesi dalla sua assunzione, procedeva a designare il proprio successore che, ripeto, non doveva essere necessariamente il secondo, anche se tale posizione aveva innegabili vantaggi rispetto agli altri della gerarchia, particolarmente, poi, nel mio caso.

Il nome restava ovviamente segretissimo e custodito nella teca del Santa Santorum, noto solo al primo, tranne in questa eccezione in cui il primo me ne aveva dato notizia, con l'evidente scopo di farmi tornare sui miei passi, non fosse altro per non veder vanificata una decisione di tale importanza.

Che fare? Mi venne naturale deporre tutti i miei propositi che adesso vedevo come iniziative avventate di cui mi vergognavo sinceramente.
Spiegai le ali e scortato, per riguardo e non per altro, volai verso il mio superiore che mi accolse col suo benevolo, quasi paterno, silenzioso assenso e perdono.

Della mia insolita iniziativa non rimase traccia negli annali del sistema.

Eppure, dopo tanti anni, ora che sono io il primo e prossimo, per giunta, a cedere lo scanno supremo al mio successore, ancora mi chiedo perché allora stessi fuggendo e non trovo, stranamente, (a parte la deità) una risposta che mi soddisfi appieno.

 

 

 

  

 

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