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Giovanni Capodicasa

 

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Diario di una giornata persa

Una banalissima storia di Natale

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- Diario di una giornata persa -

 

Non ho alcuna voglia. Se mi sforzo a cercarne è anche peggio. Solo in casa, vuota come il mio desiderio, passeggio di stanza in stanza, senza neppure chiedermi il perché. Dovrei lavorare, ma già il pensarci mi dà nausea. Forse potrei uscire, scambiare una parola con qualcuno. Ma con chi? Ho già constatato, e da tempo, che siamo una moltitudine di anime perse, bramose di parlare, mal disposte ad ascoltare i discorsi altrui. Ed allora a cosa serve andare fuori? Resto dove sono. Potrei, forse, telefonare a degli amici(ho amici?), ma detesto dare fastidio. E poi, a quest’ora del giorno, staranno tutti lavorando. Credo. Mi viene spontaneo, quindi, chiedermi quali reati io abbia mai commesso per meritare un sacrilego castigo il cui nome m’incute disperazione: depresso! “Ma sì, con un po’ di buona volontà, che diavolo. Anch’io ho avuto i miei problemi. E non li ho bene o male superati?” Come dicevo, non solo si ascolta poco, ma  si parla pure a sproposito di questioni  sulle quali gramigna l’assoluta ignoranza. La volontà, Cristo! Mi fanno andare in bestia. Ma se la depressione colpisce proprio la volontà di fare, di agire, nei casi più gravi, anche di vivere in una allucinante dimensione d’ansia, angoscia e paura generantesi senza palesi motivi. Con questa gente non ci ragiono più. E’ come discutere di Dio. Vogliamo argomentare sul Padreterno? Facciamolo. Allora, chi l’ha mai visto, chi ci ha mai dialogato, chi ne ha mai sentito la divina voce? Ah, ma io credo che non possa non esistere. E la fede, dove vogliamo buttare la fede? Dio è una carta coperta, tu dici che sotto ci sta l’asso, io replico la matta. Possiamo scannarci per giorni, mesi anni. Ma finché non scopriremo la carta, tu non puoi mostrarmi l’asso, né io la matta. Siamo pari amico. Per dirla breve, mi scoccia anche scrivere e se lo faccio è giusto per far passare il tempo. Mai espressione fu più triste e ingrata per un essere umano, in quanto il tempo trascorre da sé e l’unica azione che ci è consentita, forse da quell’asso sotto la carta, o dalla mia matta puramente casuale, ristà nel non sprecarlo, come sto facendo adesso io, per esempio, e per di più, senza che me importi né poco, né niente.

Sto avendo una sensazione, (si dice così?) che non provavo dagli anni dell’Università. In quelle sere di domenica quando, da solo come oggi, in una città non mia come oggi, me ne andavo disperato al cinema per non sapere che altro poter fare. Non v’è cosa che più deprima del vedere un film da soli. Sembrerebbe un paradosso, perché si sta in silenzio, mentre si  guardano le scene proiettate sul grande schermo in una sala vuota, piena, a volte, di persone sole e chiuse nel proprio tegumento di amarezza. Ma non è così e questo appare tanto ovvio che non vale proprio la pena spendere ancora parola: lo sanno tutti che al cinema non si va da soli. Quasi tutti. Per non perdere il filo del discorso, anche se mi è sempre piaciuto andare fuori tema, tracimare dal contesto narrativo, oggi…ho riprovato la noia!

Neppure uno squillo al telefono. Niente di niente  

Potrei, perfino, essere morto oppure morire adesso e nessuno lo saprebbe; nessuno ad assistere a questo evento. Nessuno, neppure io. Ciò è intollerabile, disumano, feroce come l’indifferente o immemore deità. Neppure io,(ma ci pensate?), che dovrei fungere da protagonista. Nessuno.

Quando morrò deponete il mio cuore tra le pagine di un libro, un buon libro. E quando morirò, distruggete ogni mia cosa e tutto il resto di me, in modo che un pensiero mi consoli, forse troppo severo: che in questa vita non ci sono passato affatto. Menzogna! Ma probabilmente riuscirei ad ingannare anche quei pochi che credono alla mia esistenza, che è concetto assolutamente diverso dall’esistenza di Dio. Ma chissà se non potrebbe diventarlo, con un madornale fraintendimento storico. Una bella scritta su un pezzo di marmo, come si avvide Paolo di Tarso. Al Dio sconosciuto! Come dire a tutti ed a nessuno. Così mi piace: passare nell’anonimato totale, ingannando anche quei pochi che credono in me, meglio di un Carneade.

Mi vengono in mente alcuni versi di Baudelaire, che lessi anni addietro, forse quand’ero al Liceo, per mio piacere. Baudelaire, il maledetto che fece della disperazione di stare in questo mondo, in questo modo, un’arte, l’arte dei fiori del male, quando anche i fiori costituiscono una maledizione.

Leggo e copio, con traduzione a fronte, dei suoi versi quelli che mi attraggono in particolar modo ed

ostento un po’ di cultura, arrogandomi competenze che non ho: non conosco una parola di francese, ma in francese viene meglio.

Ha suonato il citofono, qualcuno l’ha fatto gracchiare, è evidente. Sono molto contento e vado con grande solerzia a rispondere.

Hanno sbagliato pulsante!

Dunque dicevo… ah sì.

Au lecteur, ma non a me. Non è scritto ma è così, scommetterei qualunque cifra, tanto ne sono sicuro.

Dans la managerie infames  de nos vices,

Il en est un plus laid, plus mechant, plus immonde!

….C’est l’Ennui!

Il tedio, il tedio, il tedio. La noia, la noia, la noia.

Intanto guardo lo schermo del computer. Scrivo, ormai, sempre al computer. E’ utilissimo per i miei non infrequenti ripensamenti scritturali. In fatti mi verrebbe di cancellare tutto questo insulso vaniloquio che non interessa neppure a me e corre il serio rischio, foss’anche per pietà o per commiserazione, di infiacchire quella voglia di dileguare il mio nome nell’oblio. Neppure un nome scritto nella sabbia, neppure un nome che della cosa(non sono una cosa) almeno dovrebbe restare.

Niente, niente, solo il tedio, solo la noia.

Mi pare di sentire una voce che mi redarguisce.” Non l’ha scritto né questo, né quello; l’hai detto tu”.

E sia. La noia è mia e me ne faccio  carico. Tanto… peggio di così!

Se scosto un po’ il volto, a sinistra dello schermo(che è proprio uno schermo nel senso che mi sta davanti e mi impedisce di vedere altro che sia dietro di esso) alla ricerca di una visuale, riesco a intravedere e ad intuire, attraverso la portafinestra del mio studiolo, un’immensa e sconfinata natura, quella che fu madre di parto e matrigna di volere per Leopardi. Con tante scuse, ma non mi si può assolutamente accusare che sia roba mia e che accidenti. Aggiungo, però, che per me questa realissima natura è stata, ed è tuttora, peggio di una  prostituta. E rimarco peggio, ché a tutti si è concessa , tranne a me. Eppure mica ci andavo gratis.

( Lei, emanazione del divino inattingibile. Sì, mi vengono a dire che tutto parla di Dio .E’ un vero peccato, non una colpa attenzione, in simili casi essere sordo o cieco).

La guardo, la natura intendo, da dietro i vetri, c’è sempre qualcosa per i mezzi, lontana, discosta, tutta sulle sue, nolimetangere, nolimetangere.

Bel cielo, bel sole, belle nubi, bel verde, begli alberi in fiore. Ed io? Cosa ci  sto a fare io in questa scatoletta di mattoni e cemento (poco) al secondo ed ultimo piano di un basso edificio in periferia.

Io. Io faccio, nella più prostrante e meno cattolica possibile abiezione, esistere il mondo. Quanto sono importante! Non prendiamoci per i fondelli, non stavolta almeno, se non fossi un individuo conoscente che rende un giusto fine a tutte quelle belle balle rispetto alle quali, a dire il vero, mi sento un emerito sconosciuto o, peggio ancora, un non gradito intruso, cosa accadrebbe? Semplicemente questo: ci sono miliardi di altri a compiere la mia stessa identica operazione. Il mondo non esisterebbe per me, ma esisterebbe per altri, e non una, ma milioni e milioni di volte. Che me ne importa: affari suoi e loro.

Io qui so solo di essere solo o, meglio, sento solo di stare seduto su una scomoda poltroncina in un cinematografo, lontano dalla mia città, ed è domenica sera e sto guardando un film.

Poiché sono entrato a proiezione già iniziata, chiedo:

“ Scusi, che danno?”

“ Maremma muhaiola, - La natura è vita -”.

“ Caspita roba forte. Ingmar Bergman?”

“ E sta zitto, Madonna digiuna”.

Ma quale Bergman. Le solite considerazioni di un uomo, quello sì, triste e solitario, abbarbicato alla sua noia.

Almeno squillasse il telefono o il postino irrompesse a scaricare una letterina pubblicitaria, perché questo film mi pare proprio di averlo già visto, e di vederlo ancora, non ho proprio voglia.

ultima stesura 05 agosto 2000

 

 

 

  

 

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