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Giovanni Capodicasa

 

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L'eccellente drammaturgo

Diario di una giornata persa

Una banalissima storia di Natale

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- L'eccellente drammaturgo -

 

Sono un eccellente drammaturgo.

Scrivo solo ed esclusivamente drammi per il teatro e non ho reticenza alcuna a definirli perfetti, se non altro per la caratteristica assai rara, anzi unica, che li contraddistingue: una costante e sostenuta intensità sequenziale dei vari accadimenti, i quali scorrono dal primo all’ultimo in un’affabulazione, che li incatena in una teoria tesa, coesa ed uniforme.

Già il volerli distinguere, gli accadimenti intendo, risulta impresa ardua e pressoché sterile, dal momento che quanto rileva maggiormente risiede nell’assoluta mancanza di picchi improvvisi ed esaltanti ovvero, di converso, nella totale estraneità di cadute di pathos nello scialbo e nel banale. Aborro categoricamente qualsiasi fatto risultante superfluo alla dipanazione rappresentativa, in una congerie posticcia quanto inutile.

Mi spiego meglio, laddove fosse il caso.

S’immagini una sbarra in acciaio a sezione circolare con diametro costante e lunghezza qualunque. Sospesa in aria e sempre alla medesima distanza dall’impiantito del palcoscenico.

Va da sé come a livello macroscopico sia assolutamente impercettibile, ad occhio        nudo, cogliere alcune sfumature (che comunque ci sono) tra le tante: varie multiformi cangianti : l’un l ’altra avvolte in una, come dire, matassa non dipanabile.

Però, a guardare dal punto di vista degli spettatori (qualora ve ne fossero) quant’anche dalla prima fila della galleria, si vedrebbe solo e soltanto una barra di metallo che sostanzia la mia ideologia e caratterizza la trattazione dell’argomento drammatico.

Ho posto in essere lavori affascinanti coi quali mi è riuscito fondere, nel crogiolo della genialità artistica e teatrale, il lirico in quanto uomo, l’epico in quanto eroe o piucchéuomo ed, appunto, il drammatico, che, pur sovrastandoli per intensità penetrativa, non depaupera l’intima essenza delle singole qualità vuoi salienti, vuoi secondarie.

Ho approntato una scrittura di ricerca che solo i folli o i geni riescono a concepire; solo le menti eccelse captare e capire.

Ma tant’è.  

Il drammatico è il Supremo. Il drammatico è l’Eterno. Il drammatico è l’Infinito. In altri termini tutto quello che ognuno ha, ma ignora di possedere e non sa comprendere.

E’ ovvio che questo accada nella tragedia esistenziale e, più in là, nell’esserci stesso.

Se così non fosse, mi rendo ben conto come le mie costruzioni ed elaborazioni ardite di drammi discioglierebbero quale neve al sole e la sbarra, simbolo del mio percorso semantico, si abbatterebbe pesantemente sulle assi del palcoscenico col rumore fiacco e fesso di una farsa ridicola. Tutto questo sancirebbe la mia sconfitta, frustrando concezioni sceniche e narrative che ho suffragato e fortificato in periodi lunghissimi di studio ed applicazione , ricerche e sperimentazioni che hanno accresciuto la genialità e la predisposizione verso la trattazione dell’elemento drammatico.

Sembrerà insolito, ma non ho mai rappresentato alcuno dei miei 357 drammi già composti e finiti.

Nessun impresario ha voluto farlo. E quando mi sono offerto di sovvenzionare a mie spese l’intera organizzazione, nessuna compagnia teatrale si è sentita in grado di andare in scena con uno di loro.

Detesto tale vigliaccheria, detesto la mancanza d’intelligenza. Ma, forse, è meglio così. A tali vertiginose altitudini espressive, il timore del baratro, il panico dell’abisso tarpano le ali anche ai più audaci. Stiamo comunque parlando di soggetti che razzolano nella mediocrità e nella pochezza. Certo, non dovrei pretendere che l’altro (io sono io) sia pronto a recepire l’ardito messaggio. Da ciò deduco che neppure il pubblico, anzi sopra tutto quest’ultimo, sarebbe pronto a recepire le mie idee eccellenti.

Nonostante tutto resto sempre un valente drammaturgo, quello per antonomasia, il più grande senza dubbio.

Comunque sia, alle ore 20.30 di venerdì ventotto marzo 1957, ho proceduto a condensare nella mia persona protagonisti e interpreti, l’insuperabile regista, l’autore e gli spettatori. Vale a dire io, poi io, quindi, ancora ed infine io. Tutto in me e in me soltanto.

Autore, regista, scenografo, impresario, attore e spettatore, onnicomprensivamente.

A riempire l’intera sala da cinquecento posti della mia personalità (non ci sono altri al di fuori di me), mi sono seduto, diciamo casualmente, in 5^ fila.

Smoking nero, gambe accavallate, busto comodo, la mano sinistra a reggere il capo lievemente reclinato di lato con accurata non calanche, ho poggiato sulla coscia taccuino e penna, in modo da provare, se possibile, a stendere qualche impressione critica e assumere un tono da intellettuale attento ed avveduto.     

Appunti ,che poi forse leggerò, circa l’andamento (che termine odioso) dello spettacolo.

Alle ore 20 e 30 di venerdì 28 marzo 1957 ho messo in scena il dramma più rappresentativo titolato “La tragedia delle tragedie”. Ho rappresentato la mia morte!

Alle 20 e30 in punto, né un minuto in più né un minuto in meno, il sipario si è aperto.

Silenzio assoluto.

In un cimitero di campagna, all'imbrunire, poca luce. Tempo nuvoloso con minaccia di temporale, lampi in lontananza, vento gelido che spazza foglie secche, bara colore mogano di buona fattura e una fossa metri 2,50 per 1,50, un cumulo di terra smossa da poco posta lateralmente.

Un prete, tre pregamorti: io; moglie ed ex moglie:io; madre, padre io; fratelli e sorelle carissimi: io; amatissimi figlioli e figliole: io; qualche amico: io.

Prendo appunti. Alcuni particolari andranno cambiati, magari in seguito.

La serata è gelida. Hanno tutti freddo, dolore a chiazze e molta fretta: i morti si seppelliscono in fretta. Veloce cerimonia, la solita manciata di terra molle ed umida, sul feretro appena calato ad una profondità di due metri.

(Lo so, in quanto l’ho scritto, perché, da dove sono seduto, potrei solo intuirlo. Dovrò apportare un’altra variante al testo).

poi tutti via, dopo i convenevoli di rito, al riparo nelle autovetture parcheggiate fuori. rapidi verso il cancello, spariscono dalla scena. i becchini, con lauta mancia dell'io fratello generoso in casi simili, finiscono il lavoro in silenzio ed in silenzio se ne vanno anche loro.

La scena è desolatamente deserta, il palcoscenico vuoto.

solo una croce col mio nome, la data di nascita e quella del decesso.

“Quella d’oggi !”, superfluamente scrivo.

Poi, mentre sta per chiudersi il sipario (il pubblico avverte, seppur non lo sa, che calerà in un attimo il sipario), lo spazio scenografico si riempie e qui la narrazione pare mi sfugga di mano; sembra prendere vita autonoma. Appunto tutto ciò sul taccuino: forse (quel forse è pleonastico) ho addirittura superato la perfezione.

Appare il cadavere: involucro d'uomo che mi aveva mantenuto e tormentato con mille fastidi. Si siede sulla la pide con il capo tra le mani e gli occhi al suolo: presumo persi ed annacquati.

Compare l'anima diafana, scolorita, confusa tra il vento e la notte incombente, circondata da un turbinio di foglie secche e poi sempre tanto incerta.

Che seccatura che ciò si capisca, mi vergogno molto, l’avevo tenuta così ben nascosta, l’incertezza dico. Ma aumenta la tensione. Questo lo scrivo nei miei appunti: è importante, è molto importante.

Ed ecco finalmente l'essere: perfetto, preciso, intenso.

Scroscio prolungato di applausi, sono in piedi. Il sipario è chiuso. Dalle labbra escono chiari commenti di approvazione, ed applaudo applaudo applaudo.

Mi risiedo un attimo, come intontito per un  tale successo, sebbene atteso, e medito di apportare alcuni cambiamenti al finale che, come ho già notato, sembra avermi preso un po’ troppo la mano.

No. Sarebbe una sorta di resa. I miei drammi, specie questo, sono perfetti. Va bene così,

va tutto necessariamente bene.

Soddisfatto, accendo il sigaro o quel che di esso rimane,(ho fumato durante la rappresentazione, ma nessuno ha sollevato obiezioni sul suo aroma decisamente intenso) e mi lascio perdere in una nuvola di nulla.

Sempre col sigaro tra le labbra  mi alzo, indosso il paltò, metto in tasca il mio taccuino, esco dal teatro ormai vuoto e me ne torno a casa.

 

 

 

  

 

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