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Il suicidio nella filosofia


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Friedrich Nietzsche

Il suicidio nell'età classica 

Il tema del suicidio è stato presente in campo filosofico fin dai tempi dell'antica Grecia. Che il suicidio sia lecito o addirittura consigliabile è tesi che si presenta più d'una volta nel corso dell'etica classica. Il suicidio si ritrova spesso in molte tragedie greche dove è norma che il protagonista anche dopo aver trionfato si uccida. D'altro canto Platone nel Fedone condanna il suicidio come fuga da quel carcere corporeo in cui si è stati giustamente rinchiusi dalla divinità. Platone invita sì a desiderare la morte ma ritiene necessario che l'uomo soffra nella sua vita terrena per espiare le colpe di esistenze anteriori e ritornar degno della beatitudine oltremondana. E analoga, naturalmente, è la condanna del suicidio che si manifesta poi in tutta l'etica cristiana
Gli antichi filosofi greci consideravano il suicida un disertore dalla vita, e la legislazione ateniese ne esponeva pubblicamente la salma al vilipendio della cittadinanza.

 

La dottrina stoica 

Del tutto antitetica è invece la posizione della filosofia stoica, che più di ogni altra difende il diritto al suicidio. Qui, infatti, il rifiuto della vita rappresenta la conclusione ultima di quel processo di affrancamento da ogni attrattiva delle cose in cui lo stoicismo vede la libertà. Cicerone ad esempio, rifiutò l'aiuto dei suoi schiavi che volevano proteggerlo, preferendo offrirsi ai suoi sicari. L'indifferenza per la vita trova espressione completa nel suicidio, non a caso furono molti quelli che condannati a morte, preferirono suicidarsi, mantenendo fino all'ultimo la dignità e il controllo di sé. L’influenza dello stoicismo indusse gli antichi romani a considerare il suicidio un’azione legittima, talvolta ritenuta degna d’onore.Durante la dinastia Giulio-Claudia il suicidio era una sorta di privilegio, e oltre a Nerone morirono in questo modo i tre scrittori più importanti
Seneca, Petronio e Lucano, condannati a morte per aver preso parte alla congiura dei Pisoni.
Per Seneca il suicidio era espressione di estrema libertà. Fra le sue opere poetiche il suicidio risulta importante nelle dieci tragedie che si richiamano ai miti greci e, almeno le prime quattro, attingono a Euripide. Queste ebbero, in età prerinascimentale e rinascimentale, una profonda influenza sullo sviluppo del teatro in Italia, in Francia e in Inghilterra. Le trame che sovente sono pura invenzione derivano dall'interesse per gli aspetti umani, psicologici e realistici, che le storie esemplari e simboliche del mito non potevano soddisfare. La tragedia di Seneca è esperienza totale del male, ed il suicidio non è il maggior bene, la via di uscita che la situazione offre al saggio e che il saggio intraprende stoicamente come definitivo compimento della propria vita virtuosa: il suicidio è visto come il minor male, l'ultima via di uscita che la situazione offre al criminale per non continuare ad essere tale, l'ultima opportunità offerta dalla ragione allo schiavo dell'irrazionale.

 

La posizione delle religioni monoteistiche 

La religione ebraica negava invece al suicida gli onori funebri, mentre fin dalle origini il cristianesimo lo condannò, a meno che non fosse compiuto in stato di malattia mentale. Nel Medioevo cristiano si confiscavano addirittura i beni dei suicidi, e le loro salme venivano umiliate. Un esempio della posizione della religione cristiana riguardo al suicidio può essere ripreso dalla Divina commedia di Dante. Nel settimo girone dell'inferno (canto 13) trovano posto infatti i suicidi, trasformati in orrende piante, senza fronde verdi, dai rami nodosi, senza frutti e ricoperte da spine velenose. Il peccato dei dannati è stato quello di rifiutare il corpo e di valutare più importante la terra dell'al di là. Si crea così una dissociazione fra lo spirito e il corpo che la giustizia di Dio sancisce per l'eternità: chi si è privato del proprio corpo non lo riavrà più, ne avrà invece uno inferiore, vegetale. Diventerà un mostro formato dalla ibridazione di anima umana e corpo vegetale che sarà straziato dalle Arpie, come i suicidi stessi straziarono il loro corpo. L'ibridismo è segno di questa degradazione dell'uomo perché è violenza contro la natura, come il gesto stesso del suicidio, contro una legge divina, ma anche un istinto naturale di sopravvivenza. Il destino dell'anima del suicida è di riprendere il suo corpo nel giorno del giudizio, ma non per riaversene, dato che se ne è privato con la violenza, ma per appenderlo ai rami del proprio albero. Alla base dell'idea di questi alberi maledetti e della scena dei corpi appesi a questi sta il prototipo del suicida secondo il cristianesimo, Giuda, il peccatore che ha disperato della salvezza. Il canto dei suicidi oltre a essere il più lugubre della Divina Commedia è tutto dominato dalla caratteristica della stranezza che è lo specchio della innaturalità del peccato del suicidio. La stranezza viene espressa da Dante oltre che dalla scena stessa, ambientata nella selva, anche tramite il linguaggio aulico e retorico, esprimendo così la propria valutazione morale a proposito del suicidio, peccato contro di sé e contro la collettività. Dante introduce inoltre anche quell'aspetto politico che caratterizza l'intera opera: la critica a Firenze. Il secondo suicida incontrato nel settimo girone dell'inferno, di cui non si sa il nome, è infatti vittima e simbolo di questa città. Egli compendia in sé tutti i fiorentini suicidi, ma anche «Firenze stessa che continuamente si suicida, abbandonandosi alle guerre intestine» (L. Spitzer).    
Ancora oggi il cristianesimo, l’ebraismo e l’Islam condannano il suicidio.


Schopenhauer 

L'unico caso importante in cui sia stato affrontato il problema del suicidio nel pensiero moderno è quello di Schopenhauer. Il filosofo si oppone nella sua visione del mondo alle correnti di pensiero a lui contemporanee: idealismo, marxismo e positivismo sono accomunati dalla fiducia nel progresso e nella razionalità, e dalla visione della conoscenza come "sistema" esaustivo: la storia e la società hanno una struttura unitaria, comprensibile e prevedibile. Queste filosofie esprimono, anche se in modi diversi per i diversi contesti in cui sono nate e hanno trovato sviluppo, lo spirito innovativo e di cambiamento della rivoluzione industriale. Insieme con il progresso tecnologico e con le trasformazioni politiche, la rivoluzione industriale ha prodotto anche situazioni problematiche, come l'inurbamento incontrollato, il lavoro minorile, l'aumento, almeno nell'immediato, del pauperismo e della degradazione, fenomeni che ritroviamo descritti in molta della letteratura ottocentesca, da Hugo e daDickens, e più tardi dai fratelli Goncourt o da Zola, e ai quali farà costante riferimento il pensiero socialista, in particolare quello marxiano.

Accanto a questa realtà, di cui si trova cenno in alcune pagine di Schopenhauer ma che rimane ancora, nella prima metà dell'Ottocento, presente soltanto sporadicamente nel mondo tedesco (Marx escluso), la trasformazione sociale produce altre situazioni problematiche, che più direttamente influenzano il pensiero di Schopenhauer e di Kierkegaard. La nuova realtà provoca inoltre un'accelerazione del cambiamento, una crisi dei valori tradizionali, una perdita di punti di riferimento e una spersonalizzazione che più tardi Durkheim denominerà "anomia". Di qui un recupero del singolo, della dimensione esistenziale, al di là di "sistemi" o di riferimenti universali sempre più problematici.  E' questo il tratto caratteristico dell'opera di Schopenhauer e Kierkegaard, che muovono un'aspra critica a Hegel e all'idealismo, sostenuta da un rinnovato interesse per l'uomo in situazione, per l'individuo e per le concrete dinamiche che ne caratterizzano l'esistenza. I due filosofi abbandonano la fiducia hegeliana nella ragione, per indagare gli aspetti irrazionali dell'uomo, l'inconscio al di là della coscienza, distinguendo il piano delle giustificazioni del comportamento da quello delle dinamiche nascoste che invece lo determinano, anche se i loro percorsi sono differenziati e per alcuni aspetti inconciliabili.
Come detto Schopenahauer si interessa particolarmente ai problemi della vita umana: l'esistenza è vista tragicamente dal filosofo, ed è infelicità e sofferenza. La causa di questa sofferenza intrinseca dell'uomo è determinata dal fatto che l'individuo è in realtà l'oggettivazione della volontà. Così egli tende all'appagamento dei suoi desideri, ma la felicità che ne deriva però risulta di breve durata e insoddisfacente. Subito nascono di nuovi desideri, mentre ciò a cui tendevamo una volta raggiunto non soddisfa più la nostra volontà. Di  fronte a questa esistenza l'uomo può scegliere due soli comportamenti etici: o afferma la vita accettando che la volontà (sinonimo di vita) è l'unica realtà o la nega rinuncindovi come l'asceta. Il
suicidio non è una soluzione perchè la volontà di vivere è immortale e non è annullata da un gesto che ne tocca solo il fenomeno.

    

Sigmund Freud: la lotta tra Eros e Thanatos 

Nel saggio Il disagio della civiltà Freud propone una chiave di lettura di uno dei fenomeni più evidenti del vivere in organizzazioni sociali sempre più vaste ed evolute. Si tratta dell'insoddisfazione diffusa , del disagio che sembra avere una diretta relazione con il progredire della civilizzazione. L'analisi effettuata da Freud lascia emergere che nell'uomo vi è sempre un conflitto insanabile tra il principio di sapere e quello di realtà, tra le pulsioni sessuali e quelle dell'Io.

 

Il suicidio rituale 

Sono esistiti alcuni casi nei quali il suicidio ha assunto una funzione rituale. In Giappone, ad esempio, fino alla metà del XX secolo, chi si riteneva colpevole di un fallimento o veniva meno ai propri doveri era tenuto a praticare l’harakiri, il suicidio rituale, squarciandosi il ventre con una lama, secondo una cerimonia consolidata dalla tradizione. Durante la seconda guerra mondiale, poi, alcuni piloti giapponesi, i kamikaze, andavano volontariamente incontro alla morte gettandosi con i propri aerei sugli obiettivi militari nemici. In India, invece, fino all’Ottocento veniva considerato un onore il suttee, crudele rito in cui le vedove erano arse vive accanto ai cadaveri dei mariti.

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