La minuscola figura di Paolo
si stagliava già all’alba sui campi
perché il pane di allora
era l’impasto del verbo:
fatica e sudore.
Paolo ha conosciuto i giorni della fame
dei pianti, delle sere silenti di grilli
con lune argentate sui pioppi di ghiaccio.
Paolo bramava i giorni delle glorie
sgranandoli come preghiere
dalla corona del rosario
dai racconti dei nonni
che d’inverno ascoltava attonito
d’intorno al focolare
mentre nell’aia abbaiavano i cani
e libero sibilava il vento.
Paolo ricorda l’infanzia
il battito continuo del pensiero
le giovenche in amore che muggivano
dentro la vecchia stalla rossa,
il profumo dei peschi
il libero volo degli uccelli
e le sue piccole mani
che traevano melodie
da zufoli di salice a primavera.
C’era l’amore del padre e della madre,
l’amicizia della gente semplice
in quella povera terra.
Inonda ora il sole la strada
di campi senza più grano
dove mostri di latta passano veloci
insensibili al pianto dell’anima.
Li ricordo bene i contadini del mio paese
con i loro cori stonati dentro la vecchia osteria
davanti ad un litro di vino o una grappa
per festeggiare la mietitura, la vendemmia
la guerra finita, o per dimenticare
i giorni della fame.
E ridevano pensando al domani
a quella sua terra ricca di promesse
dipinta negli occhi dalla voglia di crederci.
E rivedo mia madre, curva la schiena
per raccogliere le spighe del frumento
rimaste nelle stoppie, o d’inverno
con le mani gelate dalla brina
raccogliere i bruscoli dei rami
per il fuoco del camino.
Corre il pensiero dentro il respiro
lungo i sentieri erbosi dei campi
disegnati di sogni e di corse
dove di noi bambini è rimasta
una storia scritta dall’anima.
Ansante cammina il ricordo delle favole
delle abitudini dimenticate nel vento
che avevano profumo di rose e di rondini vagabonde
nell’aria azzurrata di cielo e d’infanzia.
Sono puntuali a fiorire i papaveri
quando Giugno s’inebria di sole,
piango con la luna la gioventù perduta
intanto che intreccio storie e sentimenti
di memorie amate nella sofferenza
ora nel cuore rimasto bambino.
E ancora odo arrivarmi cori stonati
di vecchi contadini
rimasti memoria all’ombra del tempo
dentro quella vecchia osteria chiusa da anni.
Dai svegliati che è ora di andare a scuola,
urlava mia madre ogni mattina,
dai svegliati bambino mio
manca poco che suoni la campanella.
Le parole della Maestra
da pochi erano udite
dentro gli occhi avevamo tutti la voglia
di corse a perdifiato
tanto che guardando la finestra aperta
ci pareva di sentire
l’odore dei campi verdi
chiamarci a piena gola.
Quando suonava la campanella
per dirci che le lezioni erano finite
sembrava che in scuola si svegliasse il manicomio
tanti erano gli urli, le spinte
per arrivare primi, come se mamma libertà
ci aspettasse appena fuori con le braccia aperte.
Tutti i giorni ad inventare giochi
come farfalle dentro il sole
come aquiloni in braccio al vento
come cavalli pazzi ubriachi di vita.
Troppo veloce è passato il tempo
che neppure ho visto i passi,
sfilacciato ha i miei ricordi,
cancellato tutti i batticuori
della mia gioventù.
Suona la campanella della scuola...
Un bambino, braccia aperte, occhi furbi
mi dice: - Ciao papà -
Sei venuto a prendermi.
Gino Rodi
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