Immagini del Cilento nell'opera di Giambattista Vico
(Fernando La Greca)

 


E' noto come Giambattista Vico abbia dimorato per nove anni a Vatolla nel Cilento, come precettore dei figli del marchese Domenico Rocca, dal 1686 al 1695. Nato nel 1668, Vico ebbe dunque questo incarico a 18 anni, lasciandolo a 27 quando ritornò definitivamente a Napoli e vi ottenne poco dopo la nomina di professore di retorica all'Università. Nella quiete del paesello cilentano, Vico "fece il maggior corso degli studi suoi", prediligendo la filosofia, la poesia e il diritto.

Invano però cercheremo notizie estese su questa presenza a Vatolla negli scritti di Vico: ne accenna brevemente solo nella Autobiografia (dove parla di sé in terza persona):

"Andava egli frattanto a perdere la dilicata complessione in mal d'eticìa, ed eran a lui in troppe angustie ridotte le famigliari fortune, ed aveva un ardente desiderio di ozio per seguitare i suoi studi, e l'animo abborriva grandemente dallo strepito del fòro, quando portò la buona occasione che, dentro una libreria, monsignor Geronimo Rocca vescovo d'Ischia, giureconsulto chiarissimo, come le sue opere il dimostrano, ebbe con essolui un ragionamento d'intorno al buon metodo d'insegnare la giurisprudenza. Di che il monsignore restò così soddisfatto che il tentò a volerla andare ad insegnare a' suoi nipoti in un castello del Cilento di bellissimo sito e di perfettissima aria, il quale era in signoria di un suo fratello, signor don Domenico Rocca (che poi sperimentò gentilissimo suo mecenate e che si dilettava parimente della stessa maniera di poesia), perché l'arebbe dello in tutto pari a' suoi figliuoli trattato (come poi in effetti il trattò), ed ivi dalla buon'aria del paese sarebbe restituito in salute ed arebbe tutto l'agio di studiare.

Così egli avvenne, perché quivi avendo dimorato ben nove anni, fece il maggior corso degli studi suoi, profondando in quello delle leggi e dei canoni, al quale il portava la sua obbligazione".

Continua poi descrivendo le sue letture e i suoi studi di diritto, filosofia, poesia, metafisica, il tutto da autodidatta e approfittando di "una libreria de' padri minori osservanti di quel castello". Si tratta della biblioteca del convento di S. Maria della Pietà, poi passata alla famiglia Ventimiglia (vd. Volpe 1988). Più avanti, accenna a studi fatti "verso la fine della sua solitudine, che ben nove anni durò". Infine, "con questa dottrina e con questa erudizione il Vico si ricevé in Napoli come forestiero nella sua patria". Qui, constatando la decadenza della filosofia e delle lettere, non rimpiange il trascorso isolamento:

"Talché, per tutte queste cose, il Vico benedisse non aver lui avuto maestro nelle cui parole avesse egli giurato, e ringraziò quelle selve, fralle quali, dal suo buon genio guidato, aveva fatto il maggior corso dei suoi studi senza niun affetto di setta, e non nella città, nella quale, come moda di vesti, si cangiava ogni due o tre anni gusto di lettere. [...] Per queste ragioni il Vico non solo viveva da straniero nella sua patria, ma anche sconosciuto".

Queste le uniche, poche notizie che ci dà lo stesso Vico sul suo soggiorno a Vatolla, notizie peraltro volontariamente deformate. Probabilmente egli non insegnò giurisprudenza ai figli del marchese Rocca, se non negli ultimi anni della sua permanenza (Nicolini 1932, p. 134); inoltre il soggiorno nel Cilento non fu continuo, in quanto la famiglia Rocca si spostava periodicamente, secondo le esigenze, tra Napoli, Portici e Vatolla (vd. Nicolini 1953, p. 12, note). Ancora, tra questi spostamenti, Vico trovò anche il tempo di laurearsi in diritto, pare, a Salerno, nel 1694 (vd. Nicolini 1932, p. 38; Soccio 1983, p. VII).

L'insistenza sullo studio solitario e indipendente, studio che poi gli varrà la notorietà futura, fa di Vatolla quasi un luogo mitico, individuato unicamente dall'aria salubre, dalle selve e dalla biblioteca. Esigenze di "immagine", ovviamente: Vico dipingeva per i lettori della sua Autobiografia un ideale autoritratto (cfr. Nicolini 1932, p. 98 e p. 118). Abbiamo così un lungo e particolareggiato elenco di autori antichi e moderni da lui studiati a Vatolla, ma non una parola di più sugli abitanti, la vita che vi si svolgeva, il paesaggio. Qualche studioso, occupandosi del soggiorno di Vico a Vatolla, non ha potuto far altro che ripiegare, per una trentina di pagine, su una tradizione locale, riguardante un olivo sotto il quale il filosofo se ne stava a leggere e meditare (Rotunno 1929; su Vatolla alla fine del Seicento, vd. anche Nicolini 1932, pp. 47-59).

 

Certamente non potevamo aspettarci da Vico descrizioni da "inviato speciale", ma nove anni nel Cilento, anche non continui, non possono dimenticarsi facilmente. Quasi per gioco, abbiamo provato a rintracciare nell'opera di Vico passi che potessero, in qualche modo, riferirsi ad immagini ed esperienze di quei nove anni passati a Vatolla, e ne abbiamo trovati veramente tanti. Si tratta di paesaggi, scorci di vita campagnola, agreste, anche appena accennati, presenti specialmente nelle sue poesie e nell'opera maggiore, Scienza Nuova. Facile è l'obiezione: ma in che cosa potevano differire i contadini, i paesaggi dei dintorni di Napoli da quelli del Cilento? La risposta è che la nostra lettura vuole essere solo una ricerca di indizi, sulla base dell'ipotesi che, fra tante immagini, qualcuna dovrà pur riferirsi al Cilento, vista l'importanza e la durata di quel periodo di "solitudine" per Vico, e considerato che la sua vita per il resto si svolse quasi sempre a Napoli, in città, fra la libreria paterna, le scuole, lo studio, e poi gli "strepiti domestici", le lezioni all'università, le lezioni private per sbarcare il lunario e mantenere gli otto figli, la stesura e la stampa dei suoi scritti.

Ora, paesaggi e scene agresti erano di moda in quel periodo: il primo Settecento è indicato in letteratura come l'età dell'Arcadia, dal nome di un'accademia romana, diffusasi in tutta l'Italia. I suoi membri si dissero "pastori" e scrissero componimenti poetici a carattere pastorale, sul mondo dei boschi e dei campi. Ma questa "vita pastorale" fu un'evasione dalla realtà, una convenzione espressiva di aristocratici travestiti da pastori: un gioco sentimentale di galanteria, di musica, di grazia e raffinatezza, di malinconia, ambientato in un paese immaginario, di sogno, che non ha nulla a che fare con la dura vita di pastori e contadini reali.

Anche Vico fu "accolto" nell'Arcadia, ma i suoi pastori sono rudi, vivono di "sudor, fatighe e stenti", il loro amore è "rozzo", la loro caccia "faticosa"; i boschi leggiadri degli arcadi sono per Vico "aspre selve, solinghe, orride e meste". Insomma, Vico mostra un'attenzione maggiore alla realtà, per niente "arcadica", attenzione formatasi dalla lettura di Lucrezio e, forse, secondo la nostra ipotesi, durante i suoi soggiorni nel Cilento.

Una poesia giovanile, Affetti di un disperato, del 1692 (quindi del periodo di Vatolla), intrisa di pessimismo, sembra ricordare elementi del paesaggio cilentano: faggi, lauri, sole, ombra, pastori, selve (vv. 106-109; 118-126; 144-147; cfr. Nicolini 1932, p. 126):

"Mi venne sol da luminosa parte
del cielo una vaghezza di destare
a' piè de' faggi e poi de' lauri a l'ombra
la bella luce che fa l'alme chiare,
[...] Oh inver beati voi, ninfe e pastori,
cui sa ignoranza cagionar contenti,
ch'oblïati sudor, fatighe e stenti
acquetar vi sapete a un dono frale
o di poma o di latte over di fiori;
ed al caldo ed al gel diletto e gioco
vi reca l'ombra fresca e 'l sacro foco;
né altra gioia a voi sembra che piaccia
che rozzo amore o faticosa caccia!
[...] Ma per le pene mie i' giuro a queste
aspre selve, solinghe, orride e meste,
che non mai turberà, mentre respiro,
i lor alti silenzi un mio sospiro".

Nella canzone In morte del Maresciallo Antonio Carafa (scritta nel 1693) troviamo la descrizione di una tempesta, forse una di quelle che (raramente) si abbattono sulle colline cilentane, con cielo scuro, venti che atterrano i pini, neve, tuoni e piogge, mareggiata (vv. 10-20):

"Del mestiero de l'armi
l'onor più grande, il più bel pregio ha tolto:
ond'oscurato 'l ciel da l'altra parte,
coi venti, a' quai l'annoso pin s'atterra,
nevò qua giuso d'ognintorno; e donde
s'abbassa, svegliand'ire in mezo l'onde,
pianse con tuoni e piogge il nostro Marte,
e de l'acque la mente di sotterra
col gran tridente a tal scosse la terra,
che del mondo parea lo spirto stanco,
che 'l desta e nutre, omai venisse manco".

Nell'Epitalamio scritto nel 1694 per le nozze del Principe d'Omignano con Giulia Rocca dei Marchesi di Vatolla, troviamo ancora selve, sorgenti, viole, viti, olmi, e infine il fiume Alento (vv. 52-58; 69-78; 110-113):

"Come a chiara e fresc'onda
in chiuse parti e sole
di sacra selva accolta in fonte vivo,
fanno onor sulle sponde
e ligusti e viole
col venticello crespo e fuggitivo:
tutto lieto e giulivo,
[...] Come vedova vite
nata in non culto piano
giace squallida, umìle, infruttuosa,
che le braccia smarrite
talor inalza invano,
e ratto mesta al suol le gitta e posa;
ma s'all'olmo si sposa,
s'inalza al cielo, e dona
di sé l'uva gradita,
e dolce e colorita,
[...] le virtù de' maggiori,
che in cento e cento lustri
vissero sempre illustri
in riva al chiaro Alete almi signori".

Ancora, nella poesia Giunone in danza, del 1721, una specie di prologo poetico alla Scienza Nuova, Vico sottolinea le fatiche dei contadini, lo sforzo per strappare alle selve terreni da coltivare: "...sempre coltivare i campi a' padri / per solo sostentar l'egra lor vita [...] ...perché guardasse loro / colti i campi e sicuri, / che guardando sicuri erano colti; / e tutto ciò per tema che la terra / non ritornasse alla gran selva antica [...] ...cotesta tua gran falce / [...] non ebbe altr'uso che di mieter biade". Nella canzone, con la stessa tematica, Origine, progresso e caduta della poesia italiana, troviamo un paesaggio estivo non certamente da Arcadia: "...il sole / secca i torrenti e le campagne asseta" (per i testi completi delle poesie citate, vd. Soccio 1983, pp. 93-171).

Questa attenzione alla realtà, oltre che dalle poesie, risalta soprattutto nella Scienza Nuova, quando descrive popoli primitivi o fa paragoni, rapidi e incisivi, con i contadini e i "giornalieri" del suo tempo. Si tratta di flash veloci e sfuggenti, ma illuminanti su elementi del paesaggio e sulla vita quotidiana delle classi sociali subalterne: parole che evidenziano un'esperienza reale, diretta, di vita dura, di stenti e sacrifici (nato in città, Vico proveniva da una famiglia con l'assillante problema del pane quotidiano, e anche in seguito visse nelle angustie economiche: poteva quindi ben capire le condizioni di vita dei contadini). Se, come ipotizziamo, alcune di queste immagini sono ricordi del soggiorno nel Cilento, allora Vatolla non è "in Arcadia", non è quel posto mitico che Vico vorrebbe farci intendere nell'Autobiografia, ed egli stesso, inconsciamente, ci svela molto del suo vero aspetto.

Di tale mancata Arcadia si accorse, da par suo, Cesare Pavese, attento lettore di Vico, incantato dal suo "aggirarsi perpetuo tra il selvaggio e il contadinesco" (Il mestiere di vivere, 19 agosto 1944. Su Pavese e Vico, vd. Mariani 1968, Lanza 1977). In due pagine del suo diario (Il mestiere di vivere, alla data del 5 novembre 1943) raccoglie alcuni passi esemplari (tratti dalla Scienza Nuova del 1744) sul senso della realtà "campagnuola, villereccia" del Vico. Vale la pena di riportare tutto il brano.

"Vico è il solo scrittore italiano che senta la vita rustica, fuori d'Arcadia. Le durezze, le ingenuità della sua frase dànno risalto a questo senso della realtà campagnuola, villereccia. Il fatto stesso che ne tocca sempre di passaggio, in polemica, utilitariamente, è riprova di questa schiettezza.

<<...conforme anch'oggi i nostri contadini, per dire che l'ammalato vive, dicono ch'ancora mangia...>> (Libro II, Sezione VII, Capitolo II).

<<...siccome tuttodì osserviamo i contadini, caparbi, i quali ad ogni motivo di ragion detta loro vi si rimettono; ma, perché sono deboli di riflessione, la ragione che gli aveva rimossi, tosto dalle loro menti sgombrando, si richiamano al loro proposito>> (L. II, S. VII, C. V).

<<...il fuoco... che dovettero gli eroi fare con le pietre focaie ed attaccarlo agli spinai secchi per sopra i monti degli accesi soli dell'està...>> (L. II, S. VIII, C. I).

<<...del frumento (che è l'unica o almeno la maggior cosa per la quale i contadini travagliano tutto l'anno)...>> (L. II, S. X, C. I).

<<...come nasce, piovendo l'està, una ranocchia...>> (L. II, S. X, C. II).

<<...battevano i loro figliuoli fino all'anima, talché cadevano sovente morti, convulsi dal dolore, sotto le bacchette dei padri...>> (L. II, S. V, C. VIII).

<<...la qual mercede, sia o di fatighe o di robe, si costuma tuttavia nei commerzi de' contadini...>> (L. II, S. V, C. II).

<<...proprietà eterna, per la quale ora diciamo i servidori esser nimici pagati de' loro padroni...>> (L. II, S. V, C. I).

<<...e tante caricate alfin di rastrelli, che son stromenti certamente di villa...>> (L. II, S. IV, C. II).

<<...siccome ne' contadi delle nostre più remote provincie si ha... gli ammalati cibarsi di pan di grano, e si dice `l'infermo si ciba di pan di grano' per significare lui essere nell'ultimo di sua vita>> (L.II, S. IV, C. I).

<<...le fontane perenni, che per lo più mettono capo ne' monti, presso alle quali gli uccelli di rapina fanno i loro nidi (onde presso a tali fontane i cacciatori tendono loro le reti)>> (L. II, S. IV, C. I).

<<...i contadini del Lazio dicevano `sitire agros'...>> (L. II, S. II, C. II).

E continuamente gli <<eroi contadini>>, i <<terrazzani>> i <<giornalieri>>, ecc.".

 

Queste le osservazioni di Pavese. Ancora, spigolando qua e là nella Scienza Nuova del 1744, riportiamo altri passi significativi. La numerazione si riferisce ai capoversi dell'edizione curata da Fausto Nicolini (Nicolini 1953).

"Gli uomini ignoranti delle naturali cagioni che producon le cose, ove non le possono spiegare nemmeno per cose simili, essi dànno alle cose la loro propria natura, come il volgo, per esemplio, dice la calamita esser innamorata del ferro" (180).

"...osserviamo nella lingua latina quasi tutto il corpo delle sue voci aver origini selvagge e contadinesche. Come, per cagion d'esemplo, <<lex>>, che dapprima dovett'essere <<raccolta di ghiande>>, da cui crediamo detta <<ilex>>, quasi <<illex>>, l'elce [...], perché l'elce produce la ghianda, alla quale s'uniscon i porci" (240).

"...gli anniegavano in un mar d'usure, che non potendo quelli meschini poi soddisfare, gli tenevano chiusi tutta la vita nelle loro private prigioni, per pagargliele co' lavori e fatighe, e quivi con maniera tirannica gli battevano a spalle nude con le verghe come vilissimi schiavi" (272).

"Gli uomini non s'inducono ad abbandonar affatto le proprie terre, che sono naturalmente care a' natii, che per ultime necessità della vita; o a lasciarle a tempo che o per l'ingordigia d'arricchire co' traffichi, o per gelosia di conservare gli acquisti" (299).

"...che gli uomini a guisa di porci anderebbero a mangiar le ghiande" (337).

"...le madri, come bestie, dovettero lattare solamente i bambini e lasciargli nudi rotolar dentro le fecce loro propie" (369).

"De' quali giganti si sono truovate e tuttavia si truovano, per lo più sopra i monti [...], i vasti teschi e le ossa d'una sformata grandezza, la quale poi con le volgari tradizioni si alterò all'eccesso" (369). Curiosa la consonanza con le tradizioni orali del Cilento (le "volgari tradizioni" di Vico?), che ci narrano dei Vastasi, giganti che abitavano sul Monte della Stella...

"...in ogni lingua le voci ch'abbisognano all'arti colte ed alle scienze riposte hanno contadinesche le loro origini. [...] occhi delle viti [...] dente d'aratro, di rastello, di serra [...] ...e i nostri contadini [dicevano] <<andar in amore le piante>>, <<andar in pazzia le viti>>, <<lagrimare gli orni>>" (404-405).

"...spiegarsi con atti o corpi ch'avessero naturali rapporti all'idee (quanto, per esemplo, lo hanno l'atto di tre volte falciare o tre spighe per significare <<tre anni>>)" (431).

"L'aratro significava aver esso ridutte quelle terre a coltura, e sì averle dome e fatte sue con la forza" (435).

"...d'ogni sasso, d'ogni fonte o ruscello, d'ogni pianta, d'ogni scoglio fecero deitadi" (437).

"Gl'italiani (la qual uniformità di pensare e spiegarsi, fin a' nostri dì conservata, dee recar meraviglia) dicono <<mercare>> il contrasegnare con lettere o con imprese i bestiami o altre robe da mercantare, per distinguere ed accertarne i padroni" (483).

"...e tuttavia da noi le donzelle volgarmente si dicono <<prender sorte>> per <<maritarsi>>" (506).

"...nella somma semplicità e rozzezza di cotal vita, ch'eran contenti de' frutti spontanei della natura, dell'acqua delle fontane e di dormir nelle grotte" (522).

"...dappoi che incominciarono con le loro donne a star fermi, prima nelle spelonche, poi ne' tuguri, presso le fontane perenni [...] e ne' campi, che, ridutti a coltura, davano loro il sostentamento della lor vita" (524).

"...che [i padri] debbano lasciar loro patrimonio in luoghi di buon'aria, con propia acqua perenne, in siti naturalmente forti, ove, nella disperazione delle città, possan aver la ritirata, ed in campi di larghi fondi ove possano mantenere de' poveri contadini, da essi, nella rovina delle città, rifuggiti, con le fatighe de' quali vi si possano mantenere signori" (525). Si tratta forse di "rovine" come quelle di Paestum e di Velia? "Visitò il Vico, da Vatolla, le non lontane rovine di Elea o Velia, della cui scuola, come di tutta l'antica sapienza italica, egli era chiamato a ridestare gli echi [...]? Chi lo sa! Ma non è improbabile. E potente fascino dovette emanare su lui dai meravigliosi avanzi di Pesto, che gli si paravano dinanzi andando e ritornando da Vatolla, [...] infervorandolo e sorreggendolo nelle ardue e profonde investigazioni sulle ininterrotte e ricorrenti vicissitudini - corsi e ricorsi - dell'umanità" (Rotunno 1929, p. 60, nota r).

"Perché si truovaron i forti piantate le loro terre sull'alture de' monti, e quivi in aria ventilata e per questo sana; ed in siti per natura anco forti, che furono le prime <<arces>> del mondo, che poi con le sue regole l'architettura militare fortificò (come in italiano si dissero <<ròcce>> gli scoscesi e ripidi monti onde poi <<ròcche>> se ne dissero le fortezze); e finalmente si truovarono presso alle fontane perenni, che per lo più mettono capo ne' monti, presso alle quali gli uccelli di rapina fanno i lor nidi (onde presso a tali fontane i cacciatori tendono loro le reti)" (525).

"...nella barbarie ricorsa, [...] ne restarono agl'italiani dette <<castella>> tutte le signorie che novellamente vi sursero, perché generalmente s'osserva le città più antiche e quasi tutte le capitali de' popoli essere poste sull'alto de' monti, ed al contrario i villaggi sparsi per le pianure" (525).

"...in Firenze, a' tempi di Giovanni Boccaccio [...], nel principio di ciascun anno il padre di famiglia, assiso nel fuocolaio a capo di un ceppo a cui s'appiccava il fuoco, gli dava l'incenso e vi spargeva del vino; lo che dalla nostra bassa plebe napoletana si osserva la sera della vigilia del santo Natale, che 'l padre di famiglia solennemente deve appiccare il fuoco ad un ceppo sì fatto nel fuocolaio; e per lo Reame di Napoli le famiglie dicono noverarsi per fuochi" (526). Il Nicolini (1953, p. 589) commenta in nota: "Nulla del genere nei descrittori di Napoli". Sarà una usanza cilentana ricordata a memoria da Vico? Sono noti i foquari, falò, accesi nelle piazze, con enormi ceppi, alla mezzanotte del Natale in diversi paesi del Cilento.

"E dicevano con verità queste frasi eroiche: <<noi siamo figliuoli di questa terra>>, <<siamo nati da queste roveri>>" (531).

"...si diedero con molta, lunga dura fatiga a ridurre le terre a coltura e seminarvi il frumento, il quale, brustolito tra gli dumeti e spinai, avevano forse osservato utile per lo nutrimento umano" (539).

"...lo che si fa con afforzare le siepi a' campi; [...] Tali siepi dovettero esser piantate di quelle piante ch'i latini dissero <<sagmina>>, cioè di sanginelli, sambuci, che finoggi ne ritengono e l'uso e 'l nome" (550).

"...il nome, propiamente, altro non suona che <<moltitudine di giornalieri, che coltivano i campi (come tuttavia fanno) per lo vitto diurno>>" (560).

"...onde i contadini e gli uomini della lorda plebe nulla o assai poco s'intendono di bellezza" (565).

"...Sisifo, che spinge sù, il sasso, che gittò Cadmo (la terra dura, che, giunta al colmo, rovescia giù, come restò a' latini <<vertere terram>> per <<coltivarla>> e <<saxum volvere>> per <<far con ardore lunga e aspra fatiga>>)" (583).

"...carattere de' famoli, che da giornalieri coltivano i campi de' padri signori e, con un'ardente brama di desiderio, vogliono da' padri campi per sostentarvisi" (587).

"...e la civetta e l'oliva le furono consagrate, non già perch'ella mediti la notte e legga e scriva al lume della lucerna" (590).

"...si dissero <<coloniae deductae>>, cioè drappelli di contadini giornalieri menati, da su, giù" (595).

"...la prima mercede fu, come dovett'essere, la più semplice e naturale, qual è de' frutti che si raccolgono dalla terra; la qual mercede, sia o di fatighe o di robe, si costuma tuttavia ne' commerzi de' contadini" (606).

"...prima d'ogni altra cosa, vi si vedeva il padre-re, che con lo scettro comanda il bue arrosto dividersi a' mietitori; dappoi vi si vedevano piantare vigne; appresso, armenti, pastori e tuguri; ed in fine di tutto v'erano descritte le danze" (686).

"...ruba Prometeo il fuoco dal sole, che dovettero gli eroi fare con le pietre focaie ed attaccarlo agli spinai secchi per sopra i monti dagli accesi soli d'està" (713).

"... i quali poeti [...] non poterono esser altri ch'uomini idioti che cantassero le favole a gente volgare raccolta in cerchio il dì di festa; [...] essi non ne faranno oziose parafrasi, come osserviamo tuttavia uomini leggere l'Orlando furioso o innamorato o altro romanzo in rima a' vili e larghi cerchi di sfaccendata gente gli dì delle feste, e, recitata ciascuna stanza, spiegarla loro in prosa con più parole" (856).

"...nel tempo della vendemmia diede principio alla satira [...] e tingersi i volti e `l petto di fecce d'uva, ed armar la fronte di corna (onde forse finor, appresso di noi, i vendemmiatori si dicono volgarmente <<cornuti>>) [...] E la satira serbò quest'eterna proprietà, con la quale ella nacque, di dir villanie e ingiurie, perché i contadini, così rozzamente mascherati sopra i carri co' quali portavano l'uve, avevano licenza, la qual ancor oggi hanno i vendemmiatori della nostra Campagna felice, che fu detta <<stanza di Bacco>>, di dire villanie a' signori" (910).

"...a' tempi barbari ritornati riscontrammo quaranta normanni eroi cacciare da Salerno un esercito intiero di saraceni" (1033).

"Quindi nell'Europa in uno sformato numero tante città, terre e castella s'osservavano con nomi di santi; perché in luoghi o erti o riposti, per udire la messa e fare gli altri ufizi di pietà comandati dalla nostra religione, si aprivano picciole chiesiccuole, le quali si possono diffinire essere state in que' tempi i naturali asili de' cristiani, i quali ivi da presso fabbricavano i loro abituri: onde dappertutto le più antiche cose, che si osservano di questa barbarie seconda, sono picciole chiese in sì fatti luoghi, per lo più dirute" (1056). Commenta Nicolini (in nota, p. 839): "probabile allusione al borgo di Vatolla". Vd. anche Nicolini 1932, pp. 54-55, con riferimento alla chiesa parrocchiale di S. Maria delle Grazie a Vatolla.

"...de' nostri pastori non è propio il pascere, ma il guidar e guardare gli armenti e i greggi" (1059).

"...il qual costume ha durato infino alla mia età nel nostro Reame di Napoli, dove i baroni, non coi giudizi civili, ma co' duelli vendicavano gli attentati fatti da altri baroni dentro i territori de' loro feudi" (1074).

 

Riportiamo di seguito qualche brano dalla prima edizione della Scienza Nuova del 1725. Brani, poi modificati o eliminati, che sembrano fare maggior riferimento specifico ai "nostri villani", e maggior attenzione al mondo della natura: fiere, selve, frutti, campi, caproni, serpi, uve e vendemmie, fieno, paglia, topi, papaveri, umili erbette, legni duri curvi per arare, colori (nero, azzurro, verde, oro), fuoco, pavoni, boschetti, ombre, erbe secche, soli estivi, spine, mirto, canne, mete di grano, ed altro. Si tratta ancora di immagini probabilmente a carattere autobiografico, viste, vissute, anche se inserite, nello scritto, in contesti diversi. Il numero è riferito alla pagina dell'edizione originale del 1725, ripresa in stampa anastatica dal Lessico Intellettuale Europeo (Gregory 1979, Duro 1981).

"...le fiere tal volta, o per eccessivi freddi, o inseguite da' Cacciatori, per campare la vita, si riparano ne' luoghi abitati" (p. 53).

"...le quali insomma si riducono alla ferina educazione de' Fanciulli; di lasciargli rotolar nudi nelle loro proprie lordure, fussero anche figliuoli di Principi; e liberi affatto dal timor de' maestri, fossero anche figliuoli de' poveri, lasciargli in lor balìa ad esercitarsi nelle forze del corpo" (p. 72).

"...diedero fuoco alle selve; l'ararono; vi seminarono del frumento: e così posero i termini a' campi" (p. 84).

"...in quella vita semplice e parca, che non di altro era contenta, che de' frutti non compri de' propri campi?" (p. 86).

"...campi, dove sostentassero la loro vita, con pagare parte de' frutti, o contribuire in fatighe, come un censo a' Signori" (p. 101).

"...appo i latini restò propriamente detta protervia, l'atto del caprone, che in amore mira la capra [...] e tale atto abbiano essi osservato più allo spesso nelle bestie mansuete più salaci, e però più proterve, o sfacciate, come i caproni" (p. 164).

"...l'Idra è la gran selva della terra [...] ed Ercole la spense col fuoco, come fanno ancor oggi i nostri villani, ove sboscano le selve" (p. 174).

"...così la serpe [...] ha la spoglia cangiante di nero, verde, e giallo, che ogni anno pur muta al sole" (p. 174).

"...siccome è pur costume de' nostri villani, che naturalmente sono contenti delle loro mogli; onde ne' villaggi non si odono mai, o assai di rado adulterj" (p. 175).

"...e cominciò sì rozzamente, come senza dubbio ci si narra della sua Origine, che villani le facce tinti di fecce d'uve nel tempo delle vendemmie sopra i carri motteggiavano la gente" (p. 181).

"...tetto per la casa: perché per gli primi abituri non bisognava altro, che fieno, o paglia per coprimento" (p. 187).

"...come i topi si fanno le tane nelle terre, dove sono essi nati" (p. 193).

"...deve essere un'impresa Eroica quella di una mano, che con una bacchetta tronca cime di papaveri, che sovrastano ad altre umili erbette" (p. 194).

"...così il più nobile di tutti i colori è l'azzurro, significante il colore del cielo" (p. 197).

"...con legni duri curvi, co' quali dovettero le terre essere arate innanzi di truovarsi l'uso del ferro" (p. 198).

"... o ridotte alla coltura; di cui sono i tre colori, nero nel seminarsi, verde nel germogliare, d'oro nel raccogliere le messi" (p. 201).

"...terra ridotta col fuoco a coltura: come pur'ora i nostri villani col fuoco sboscano le selve, che vogliono seminare" (p. 202).

"...perché si ponga uno stato di huomini semplice, e rozzo, che non curino altro, che `l necessario alla vita, ed altri sien ricchi" (p. 217).

"...il pavone, che con la coda somiglia i colori dell'iride" (p. 242).

"...osservando i boschetti sacri de' loro tempi, come de' nostri, che dilettano con le dense ombre" (p. 246).

"...fuoco dato alle selve, che bisognò avvenire nel tempo d'està, che erano già l'erbe secche dagli accesi Soli" (p. 246).

"...quelle spine, che bruciarono allo `ncendio delle selve" (p. 249).

"...a questa Venere è consacrato il mirto, di fronda meno nobile, che l'alloro: perché di mirto abbondano le terre marittime" (p. 250).

"...suonare la sampogna fatta di canne ne' boschi" (p. 258).

"...canna, pianta poco durevole e vile" (p. 258).

"...trasporto de' frutti della natura, che avevano innanzi colto l'està" (p. 259).

"...e ne' Circi ne restarono le mete; come le mete di grano restarono dette agl'Italiani: che è etimologia più propria di quella, che significhino il cono, il quale descrive nel suo corso dell'anno il Sole" (p. 264).

"...e ne' tempi barbari ritornati, non potevano portar bastone altri, che nobili; il qual costume ancor oggi si conserva nelle picciole terre" (p. 270).

 

Un codicetto di un ignoto discepolo ci conferma l'attenzione quasi da "antropologo" di Vico per il suo ambiente, riportando alcuni scritti relativi alla scuola di retorica che Vico tenne per oltre quarant'anni. Uno di essi, la Collectio phrasium et locutionum..., raccoglie una serie di spiegazioni orali del maestro, nelle quali si evidenzia la sua attenzione "a voci, frasi e costumanze del popolino napoletano", ad "usi e costumi popolari e contadineschi dell'Italia meridionale" (Nicolini 1953, p. 967). Eccone un brano riportato dal Nicolini (1953, p. 968).

"MACTARE: id est magis augere. Perché nei sacrifici non era lecito dire parole di malaugurio, come <<uccidere la vittima>>, <<spargere vino>> sopr'essa e sui sacri altari: cose tutte che s'indicavano con mactare, ossia con <<crescere>>. Costume serbato in qualche modo dal popolo napoletano, il quale non dice: - Hai ucciso il porco? - ma: -Haie cresciuto a santo Martino? - non dice <<aver fatto cascare il vino dal fiasco>>, ma <<crisce crisce!>> (<<cresci cresci!>>, cioè <<abbondanza abbondanza!>>); non dice: Voglio vendere questa gallina, - ma: -Voglio crescerla".

In queste osservazioni, Vico è consapevole che il mondo popolare, rurale, contadino, meglio conserva i costumi e i linguaggi antichi. Ce lo chiarisce lui stesso in una delle operette minori, Discoverta del vero Dante (Nicolini 1953, p. 951): "...non bastava la vita di Dante per apprender le lingue volgari da tanti popoli [...] Onde sarebbe mestieri agli accademici della Crusca che mandassero per l'Italia un catalogo di sì fatte voci e parlari, e dagli ordini bassi delle città, che meglio de' nobili e degli uomini di corte, e molto più da' contadini, che meglio de' più bassi ordini della città conservano i costumi ed i linguaggi antichi, ed indi informarsi quanti e quali ne usassero, e in che significazione l'usassero, per averne essi la vera intelligenza". Ecco quindi l'attenzione di Vico per usi, costumi, usanze "volgari", modi di dire, parole dialettali, come nei brani riportati: il malato "ancora mangia"; il malato si ciba di "pane di grano"; la calamita è "innamorata del ferro"; le viti "vanno in pazzia"; il bestiame si "merca"; le donzelle "prendono sorte"; i mietitori fanno le "mete" di grano; i contadini "crescono" le galline... (sull'importanza della parola in Vico e sul valore "culturale" che egli dava all'etimologia, vd. Aliprandi 1950).

Pertanto, il mondo umano e il mondo naturale della sue esperienze personali costituiscono costantemente in Vico un termine di confronto, di paragone, nell'esposizione dei concetti. Nella stessa Discoverta del vero Dante troviamo un ulteriore esempio (Nicolini 1953, p. 952): "Perché gl'ingegni umani sono a guisa de' terreni, i quali, per lunghi secoli incolti, se finalmente una volta riduconsi alla coltura, dànno sul bel principio frutti e nella perfezione e nella grandezza e nella copia maravigliosi; ma, stanchi di essere tuttavia più e più coltivati, gli dànno pochi, sciapiti e piccioli". Un paragone che evoca anche la fatica incessante dei contadini (dei tempi primitivi e dei suoi) nel disboscare le selve e metterle a coltura, così frequentemente sottolineata nella Scienza nuova. E, fra tante esperienze personali poi riflesse nei suoi scritti, quelle vissute nel Cilento non dovrebbero mancare.

 

Concludiamo ricordando con Benedetto Croce che la più alta poesia di Vico "è non già nei versi, ma nelle prose, e segnatamente nella Scienza nuova. [...] Certo, fossero anche tutte immaginazioni le sue dottrine, quella nascita che egli descrive della società, quella rappresentazione delle età primitive e delle lotte in cui si travagliano e assurgono, splenderebbe ognora, con le sue gigantesche figure, con le sue robuste passioni, col divino immanente in quegli aspri petti, come un mirabile poema [...] Ma quei suoi periodi disordinati, come erano materiati di pensieri originali così sono tutti contesti di frasi possenti, di parole scultorie, di espressioni commosse, d'immagini pittoresche" (Croce 1922, pp. 299-300).

Insomma, l'"oratore" Vico si rivela anche poeta, e del poeta, secondo Nicolini, possedé tutte le caratteristiche: "Tali, fra gli altri, l'elevatezza di tono, la scultoreità di frasi, la lapidarietà, la vivezza d'immagini con la correlativa evidenza di comparazioni, la potenza rappresentativa e descrittiva, la musicalità, l'impeto lirico. [...] Uno scrittore così scultoreo, così lapidario, così concentrato non poteva non avere robustezza e vivezza d'immagini, che si rivelano sopra tutto nella sfolgorante evidenza di certe comparazioni. [...] Deve spiegare criticamente come mai nei poemi omerici si trovino così sovente quelle che i vecchi esegeti chiamavano <<cose vili>>? E gli sgorga dalla penna, stupendo, il paragone (in cui è anche un'inconscia allusione autobiografica) che <<come grande rovinoso torrente non può far di meno di portar seco torbide l'acque e rotolare e sassi e tronchi con la violenza del corso, così sono le `cose vili' dette, che si truovano sì spesse in Omero>>" (Nicolini 1930, pp. 658-661). Pensava Vico ai torrenti che scendono dal Monte della Stella?

Poeta, quindi, anche e soprattutto perché, nel trattare la sua materia, trova modo di metterci tutto se stesso e il mondo di immagini che si porta dentro ("inconsce allusioni autobiografiche" secondo Nicolini), in larga parte, forse, riguardanti il nostro Cilento... Come, pensiamo, anche l'immagine dell'"alta adamantina Rocca" sulla quale afferma di esser salito con la composizione della Scienza Nuova (lettera al padre B. M. Giacchi del 1725, vd. Soccio 1983, pp. 203-205): "...quest'opera mi ha informato di un certo spirito eroico; per lo quale non più mi perturba alcuno timore di morte; [...] Finalmente mi ha fermato, come sopra un'alta adamantina Rocca, il giudizio di Dio; il quale fa giustizia alle opere d'ingegno con la stima de' saggi: i quali sempre, e da per tutto furono pochissimi; [...] sapienti sono, huomini di altissimo intendimento, di erudizione tutta propria, generosi e magnanimi, che non altro studiano, che conferire opere immortali nel comune delle lettere".

 

 

Bibliografia

 

(Aliprandi 1950) GIUSEPPE ALIPRANDI, Vico e l'etimologia, in "Aevum", XXIV, 1950, pp. 423-433.

(Croce 1922) BENEDETTO CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza, 1922.

(Donzelli 1970) MARIA DONZELLI, Natura e humanitas nel giovane Vico, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1970.

(Duro 1981) GIAMBATTISTA VICO, Principj di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, ristampa anastatica dell'edizione Napoli 1725, vol. II, Concordanze e indici di frequenza, a cura di Aldo Duro - Lessico Intellettuale Europeo, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1981.

(Fubini 1965) MARIO FUBINI, Stile e umanità di Giambattista Vico, II ediz., Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1965.

(Gregory 1979) GIAMBATTISTA VICO, Principj di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, vol. I, ristampa anastatica dell'edizione Napoli 1725, a cura di Tullio Gregory - Lessico Intellettuale Europeo, Roma, Edizioni dell'Ateneo & Bizzarri, 1979.

(Lanza 1977) FRANCO LANZA, Pavese e Vico, in AA.VV., Studi di letteratura e di storia in memoria di A. Di Pietro, Milano, Vita e Pensiero, 1977, pp. 394-405.

(Mariani 1968) UMBERTO MARIANI, Vico nella poetica pavesiana, in "Forum Italicum", 1968, pp. 448-469.

(Mazzola 1989) ROBERTO MAZZOLA, MANUELA SANNA (a cura di), Contributo al catalogo vichiano nazionale, Supplemento al "Bollettino di Studi Vichiani", anno XIX, 1989.

(Mazzoni 1931) GUIDO MAZZONI, La giovinezza di G.B. Vico, in "Marzocco", XXXVI, 1931, 41.

(Nicolini 1927) FAUSTO NICOLINI, G. Vico nella vita domestica. La moglie, i figli, la casa, Napoli, Ricciardi, 1927.

(Nicolini 1930) FAUSTO NICOLINI, Il Vico scrittore, in "Pegaso", a. II, 1930, 12, pp. 641-667.

(Nicolini 1932) FAUSTO NICOLINI, La giovinezza di Giambattista Vico (1668-1700). Saggio biografico, Bari, Laterza, 1932.

(Nicolini 1953) GIAMBATTISTA VICO, Opere, a cura di Fausto Nicolini, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1953.

(Pavese 1974) CESARE PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario di un uomo e di uno scrittore, Milano, Il Saggiatore, 1974 (pubblicato postumo, per la prima volta, nel 1952, dall'editore Einaudi di Torino).

(Pizzani 1981) UBALDO PIZZANI, Presenze lucreziane nel giovane Vico, in AA.VV., Letterature comparate. Problemi e metodo. Studi in onore di E. Paratore, Bologna, Patron, 1981, vol. III, pp. 1425-1449.

(Rotunno 1929) ARCANGELO ROTUNNO, Giambattista Vico a Vatolla Cilento e il suo olivo, Napoli, Coop. Tip. Sanitaria, 1929.

(Soccio 1983) GIAMBATTISTA VICO, Autobiografia. Poesie. Scienza Nuova, a cura di Pasquale Soccio, Milano, Garzanti, 1983.

(Volpe 1988) FRANCESCO VOLPE, La biblioteca Ventimiglia, in "Bollettino del Centro Studi per la Storia del Mezzogiorno" (Università degli Studi di Salerno), I, 1988, n. 1, pp. 5-12.

 



Tratto da:
FERNANDO LA GRECA, "Immagini del Cilento nell'opera di Giambattista Vico", Annali Cilentani, n. 9, Luglio-Dicembre 1993, pp. 47-60.


Autobiografia di G.B. Vico - Cap. I Autobiografia di G.B. Vico - Cap. II
Autobiografia di G.B. Vico - Cap. III Autobiografia di G.B. Vico - Cap. IV
Autobiografia di G.B. Vico - Cap. V Autobiografia di G.B. Vico - Cap. VI
Autobiografia di G.B. Vico - Cap. VII Autobiografia di G.B. Vico - Cap. VIII
Il pensiero filosofico di Giambattista Vico


Cilento Cultura
Ritorna alla Home Page