Autobiografia di G.B. Vico - Cap. I

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. II

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. III

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. IV

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. V

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Autobiografia di G.B. Vico - Cap. VII

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. VIII

Il pensiero filosofico di Giambattista Vico


Autobiografia di Giambattista Vico
Cap. IV

 

Fin dal tempo della prima orazione che si è rapportata, e per quella e per tutte l'altre seguenti, e più di tutte per quest'ultima, apertamente si vede che 'l Vico agitava un qualche argomento e nuovo e grande nell'animo, che in principio unisse egli tutto il sapere umano e divino; ma tutti questi da lui trattati n'eran troppo lontani. Ond'egli godé non aver dato alla luce queste orazioni, perché stimò non doversi gravare di più libri la repubblica delle lettere, la quale per la tanta lor mole non regge, e solamente dovervi portare in mezzo libri d'importanti discoverte e di utilissirni ritrovati. Ma nell'anno 1708, avendo la regia Università determinato fare un'apertura di studi pubblica solenne e dedicarla al re con un'orazione da dirsi alla presenza del cardinal Grimani, viceré di Napoli, e che perciò si doveva dare alle stampe, venne felicemente fatto al Vico di meditare un argomento che portasse alcuna nuova scoverta ed utile al mondo delle lettere, che sarebbe stato un desiderio degno da esser noverato tra gli altri del Bacone nel suo Nuovo organo delle scienze. Egli si raggira d'intorno a' vantaggi e disvantaggi della maniera di studiare nostra, messa al confronto di quella degli antichi in tutte le spezie del sapere, e quali svantaggi della nostra e con quali ragioni si potessero schivare, e quelli che schivar non si possono con quai vantaggi degli antichi si potessero compensare, tanto che un'intiera università di oggidì fosse, per essemplo, un solo Platone con tutto il di più che noi godemo sopra gli antichi; perché tutto il sapere umano e divino reggesse dapertutto con uno spirito e costasse in tutte le parti sue, sì che si dassero le scienze l'un'all'altra la mano, né alcuna fusse d'impedimento a nessuna. La dissertazione uscì l'istesso anno in dodicesimo dalle stampe di Felice Mosca. Il quale argomento, in fatti, e un abbozzo dell'opera che poi lavorò: De universi iuris uno principio ecc., di cui è appendice l'altra De constantia iurisprudentis.

E perché egli il Vico sempre aveva la mira a farsi merito con l'università nella giurisprudenza per altra via che di leggerla a giovinetti, vi trattò molto dell'arcano delle leggi degli antichi giurisprudenti romani, e diede un saggio di un sistema di giurisprudenza d'interpretare le leggi, quantunque private, con l'aspetto della ragione del governo romano. Circa la qual parte monsignor Vincenzo Vidania, prefetto de' Regi Studi, uomo dottissimo delle antichità romane, specialmente intorno alle leggi, che in quei tempi era in Barcellona, con una onorevolissima dissertazione gli oppose in ciò che il Vico aveva fermo: che i giureconsulti romani antichi fossero stati tutti patrizi; alla quale il Vico allora privatamente rispose e poi soddisfece pubblicamente con l'opera De universi iuris ecc., a' cui piedi si legge la dissertazione dell'illustrissimo Vidania con le risposte del Vico. Ma il signor Errico Brenckman, dottissimo giureconsulto olandese, molto si compiacque delle cose dal Vico meditate circa la giurisprudenza; e, mentre dimorava in Firenze a rileggere i Pandetti fiorentini, ne tenne onorevoli ragionamenti col signor Antonio di Rinaldo, da Napoli colà portato a patrocinarvi una causa di un napoletano magnate. Questa dissertazione uscita alla luce, accresciuta di ciò che non si poté dire alla presenza del cardinal viceré per non abusarsi del tempo, che molto bisogna a' prìncipi, fu ella cagione che 'l signor Domenico d'Aulisio, lettor primario vespertino di leggi, uomo universale delle lingue e delle scienze (il quale fino a quell'ora aveva mal visto il Vico nell'università, non già per suo merito, ma perché egli era amico di que' letterati i quali erano stati del partito del Capova contro di lui in una gran contesa litteraria, la quale molto innanzi aveva brucciato in Napoli, che qui non fa uopo di riferire), un giorno di pubblica funzione di concorsi di cattedre, a sé chiamò il Vico, invitandolo a sedere presso lui; a cui disse aver esso letto <<quel libricciuolo>> (perché egli, per contesa di precedenza col lettor primario de' canoni, non interveniva nelle aperture), <<e lo stimava di uomo che non voltava indici e del quale ogni pagina potrebbe dare altrui motivo di lavorare ampi volumi>>. Il quale atto sì cortese e giudizio così benigno di uomo per altro nel costume anzi aspro che no ed assai parco di lodi, appruovò al Vico una singolar grandezza d'animo di quello verso di lui; dal qual giorno vi contrasse una strettissima amicizia, la quale egli continovò finché visse questo gran letterato.

Frattanto il Vico, con la lezione del più ingegnoso e dotto che vero trattato di Bacone da Verulamio De sapientia veterum, si destò a ricercarne più in là i princìpi che nelle favole de' poeti, muovendolo a far ciò l'auttorità di Platone, ch'era andato nel Cratilo ad investigargli dentro le origini della lingua greca; e, promuovendolo la disposizione, nella quale era già entrato, che l'incominciavano a dispiacere l'etimologie de' gramatici, s'applicò a rintracciargli dentro le origini delle voci latine, quando certamente il sapere della setta italica fiorì assai innanzi, nella scuola di Pittagora, più profondo di quello che poi cominciò nella medesima Grecia.

E dalla voce <<coelum>>, che significa egualmente il <<bolino>> e 'l <<gran corpo dell'aria>>, congetturava non forse gli egizi, da cui Pittagora aveva appreso, avessero oppinato che l'istromento, con cui la natura lavora tutto, egli sia il cuneo, e che ciò vollero significare gli egizi con le loro piramidi. E i latini la <<natura>> dissero <<ingenium>>, di cui è principal propietà l'acutezza; sì che la natura formi e sformi ogni forma col bolino dell'aria; e che formi, leggiermente incavando, la materia; la sformi, profondandovi il suo bolino col quale l'aria depreda tutto; e la mano che muova questo istromento sia l'etere, la cui mente fu creduta da tutti Giove. E i latini l'<<aria>> dissero <<anima>>, come principio onde l'universo abbia il moto e la vita, sopra cui, come femmina, operi come maschio l'etere, che, insinuato nell'animale, da' latini fu detto <<animus>>, onde è quella volgar differenza di latine propietà: <<anima vivimus>>, <<animo sentimus>>; talché l'anima, o l'aria, insinuata nel sangue sia nell'uomo principio della vita, l'etere insinuato ne' nervi sia principio del senso; ed a quella proporzione che l'etere e più attivo dell'aria, così gli spiriti animali sieno più mobili e presti che i vitali; e come sopra l'anima opera l'animo, così sopra l'animo operi quella che da' latini si dice <<mens>>, che tanto vale quanto <<pensiero>>, onde restò a' latini detta <<mens animi>>- e che 'l pensiero o mente sia agli uomini mandato da Giove, che è la mente dell'etere. Ché se egli fosse così, il principio operante di tutte le cose in natura dovrebbero essere corpicelli di figura piramidali; e certamente l'etere unito e fuoco. E su tali princìpi un giorno, in casa del signor don Lucio di Sangro, il Vico ne tenne ragionamento col signor Doria: che forse quello che i fisici ammirano strani effetti nella calamita, eglino non si riflettono che sono assai volgari nel fuoco; de' fenomeni della calamita tre essere i più meravigliosi, l'attrazione del ferro, la comunicazione al ferro della virtù magnetica e l'addrizzamento al polo; e niuna cosa essere più volgare che 'l fomento in proporzionata distanza concepisce il foco e, in arruotarsi, la fiamma, che ci comunica il lume, e che la fiamma s'addrizza al vertice del suo cielo: tanto che, se la calamita fosse rada come la fiamma e la fiamma spessa come la calamita, questa non si addrizzarebbe al polo ma al suo zenit, e la fiamma si addrizzarebbe al polo, non al suo vertice: che sarebbe se la calamita per ciò si addrizzi al polo perché quella sia la più alta parte del cielo verso cui ella possa sforzarsi? Come apertamente si osserva nelle calamite poste in punte ad aghi alquanto lunghe, che, mentre s'addrizzano al polo, elleno apertamente si vedono sforzarsi d'ergere verso il zenit; talché forse la calamita osservata con questo aspetto, determinata da viaggiatori in qualche luogo dove ella più che altrove si ergesse, potrebbe dare la misura certa delle larghezze delle terre, che cotanto si va cercando per portare alla sua perfezione la geografia.

Questo pensiero piacque sommamente al signor Doria, onde il Vico si diede a portarlo più inoltre in uso della medicina, perché de' medesimi egizi, i quali significarono la natura con la piramide, fu particolar medicina meccanica quella del lasco e dello stretto, che 'l dottissimo Prospero Alpino con somma dottrina ed erudizione adornò. E vedendo altresì il Vico che niun medico aveva fatto uso del caldo e del freddo quali li diffinisce il Cartesio:-- che 'l freddo sia moto da fuori in dentro, il caldo, a rovescio, moto da dentro in fuori--fu mosso a fondarvi sopra un sistema di medicina; non forse le febbri ardenti sieno d'aria nelle vene dal centro del cuore alla periferia, che più di quel che conviene a star bene dilarghi i diametri de' vasi sanguigni turati dalla parte opposta al di fuori; ed al contrario le febbri maligne sieno moto d'aria ne' vasi sanguigni da fuori in dentro, che ne dilarghi oltre di quel che conviene a star bene i diametri de' vasi turati nella parte opposta al di dentro; onde, mancando al cuore, ch'è 'l centro del corpo animato, l'aria che bisogna tanto muoverlo quanto convenga a star bene, infievolendosi il moto del cuore, se ne rappigli il sangue, in che principalmente le febbri acute consistono; e questo sia quello quid divini>> che Ippocrate diceva cagionare tai febbri. Vi concorrono da tutta la natura ragionevoli congetture, perché egualmente il freddo e 'l caldo conferiscono alla generazion delle cose: il freddo a germogliare le semenze delle biade e ne' cadaveri alla ingenerazione de' vermini, ne' luoghi umidi e oscuri a quella d'altri animali, e l'eccessivo freddo egualmente che 'l foco cagiona delle gangrene, ed in Isvezia le gangrene si curan col ghiaccio; vi concorrono i segni, nelle maligne, del tatto freddo e de' sudori colliquativi, che dànno a divedere un gran dilargamento de' vasi escretori; nelle ardenti, il tatto infocato ed aspro, che con l'asprezza significa troppo al di fuori essersi i vasi corrugati e stretti. Che sarebbe se quindi restò a' latini, che riducessero tutti i morbi a questo sommo genere: <<ruttum>>, che vi fosse stata una antica medicina in Italia, che stimasse tutti i mali cominciassero da vizio di solidi e che portino finalmente a quello che dicono i medesimi latini <<corruptum>> ?

Quindi, per le ragioni arrecate in quel libricciuolo che poi ne diede alla luce, s'innalzò il Vico a stabilire questa fisica sopra una metafisica propia; e con la stessa condotta delle origini de' latini favellari ripurgò i punti di Zenone dagli alterati rapporti di Aristotile, e mostrò che i punti zenonistici sieno l'unica ipotesi da scendere dalle cose astratte alle corpolente, siccome la geometria è l'unica via da portarsi con iscienza dalle cose corpolente alle cose astratte, di che costano i corpi;-- e, diffinito il punto quello che non ha parti (che è tanto dire quanto fondare un principio infinito dell'estensione astratta), come il punto, che non è disteso, con un escorso, faccia l'estension della linea, così vi sia una sostanza infinita che con un suo come escorso, che sarebbe la generazione, dia forma alle cose finite;--e come Pitagora, che vuole per ciò il mondo costar di numeri, che sono in un certo modo delle linee più astratti, perché l'uno non è numero e genera il numero ed in ogni numero dissuguale vi sta dentro indivisibilmente (onde Aristotile disse l'essenze essere indivisibili siccome i numeri, ch'è tanto dividergli quanto distruggergli), così il punto, che sta egualmente sotto linee distese ineguali (onde la diagonale con la laterale del quadrato, per esemplo, che sono altrimente linee incommensurabili, si tagliano ne' medesimi punti), sia egli un'ipotesi di una sostanza inestensa, che sotto corpi dissuguali vi stia egualmente sotto ed egualmente li sostenga. Alla qual metafisica anderebbero di séguito così la logica degli stoici, nella quale d'addottrinavano a ragionare col sorite, che era una lor propia maniera di argomentare quasi con un metodo geometrico; come la fisica, la quale ponga per principio di tutte le forme corporee il cuneo, in quella guisa che la prima figura composta, che s'ingenera in geometria, è 'l triangolo, siccome la prima semplice è 'l cerchio, simbolo del perfettissimo Dio. E così ne uscirebbe comodamente la fisica degli egizi, che intesero la natura una piramide, che è un solido di quattro facce triangolari, e vi si accomoderebbe la medicina egiziana del lasco e dello stretto. Della quale egli un libro di pochi fogli col titolo De aequilibrio corporis animantis ne scrisse al signor Domenico d'Aulisio, dottissimo quant'altri mai delle cose di medicina- e ne tenne altresì spessi ragionamenti col signor Lucantonio Porzio, onde Si conciliò appo questi un sommo credito congionto ad una stretta amicizia, la quale coltivò egli infino alla morte di questo ultimo filosofo italiano della scuola di Galileo, il quale soleva dir spesso con gli amici che le cose meditate dal Vico, per usare il suo detto, il ponevano in soggezione. Ma la Metafisica sola fu stampata in Napoli in dodicesimo l'anno 1710 presso Felice Mosca, indrizzata al signor don Paolo Doria, per primo libro del De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus engenda. E vi si attaccò la contesa tra' signori giornalisti di Vinegia e l'auttore, di cui ne vanno stampate in Napoli in dodicesimo pur dal Mosca una Risposta l'anno 1711 e una Replica l'anno 1712; la qual contesa da ambe le parti e onorevolmente si trattò, e con molta buona grazia si compose. Ma il dispiacimento delle etimologie gramatiche, che era incominciato a farsi sentire nel Vico, era un indizio di ciò onde poi, nell'opere ultime, ritruovò le origini delle lingue tratte da un principio di natura comune a tutte, sopra il quale stabilisce i princìpi d'un etimologico universale da dar l'origini a tutte le lingue morte e viventi. E 'l poco compiacimento del libro del Verulamio, ove si dà a rintracciare la sapienza degli antichi dalle favole de' poeti, fu un altro segno di quello onde il Vico, pur nell'ultime sue opere, ritruovò altri princìpi della poesia di quelli che i greci e i latini e gli altri dopoi hanno finor creduto, sopra cui ne stabilisce altri di mitologia, co' quali le favole unicamente portarono significati storici delle prime antichissime repubbliche greche, e ne spiega tutta la storia favolosa delle repubbliche eroiche.

Poco dopoi, fu onorevolmente richiesto dal signor don Adriano Caraffa duca di Traetto, nella cui erudizione era stato molti anni impiegato, che egli scrivesse la vita del maresciallo Antonio Caraffa suo zio; e 'l Vico, che aveva formato l'animo verace, ricevé il comando perché ébbene pronta dal duca una sformata copia di buone e sincere notizie, che 'l duca ne conservava. E dal tempo degli esercizi diurni rimanevagli la sola notte per lavorarla, e vi spese due anni, uno a disporne da quelle molto sparse e confuse notizie i comentari, un altro a tesserne l'istoria, in tutto il qual tempo fu travagliato da crudelissimi spasimi ippocondriaci nel braccio sinistro. E, come poteva ogniun vederlo, la sera, per tutto il tempo che la scrisse non ebbe giammai altro innanzi sul tavolino che i comentari, come se scrivesse in lingua nativa, ed in mezzo agli strepiti domestici e spesso in conversazion degli amici; e sì lavorolla temprata di onore del subbietto, di riverenza verso i prìncipi e di giustizia che si dee aver per la verità. L'opera uscì magnifica dalle stampe di Felice Mosca in quarto foglio in un giusto volume l'anno 1716 e fu il primo libro che con gusto di quelle di Olanda uscì dalle stampe di Napoli; e, mandata dal duca al sommo pontefice Clemente undecimo, in un brieve, con cui la gradì, meritò l'elogio di <<storia immortale>>, e di più conciliò al Vico la stima e l'amicizia di un chiarissimo letterato d'Italia, signor Gianvincenzo Gravina, col quale coltivò stretta corrispondenza infino che egli morì.

Nell'apparecchiarsi a scrivere questa vita, il Vico si vide in obbligo di leggere Ugon Grozio, De iure belli et pacis. E qui vide il quarto auttore da aggiugnersi agli tre altri che egli si aveva proposti. Perché Platone adorna più tosto che ferma la sua sapienza riposta con la volgare di Omero; Tacito sparge la sua metafisica, morale e politica per gli fatti, come da' tempi ad essolui vengono innanzi sparsi e confusi senza sistema; Bacone vede tutto il saper umano e divino, che vi era, doversi supplire in ciò che non ha ed emendare in ciò che ha, ma, intorno alle leggi, egli co' suoi canoni non s'innalzò troppo all'universo delle città ed alla scorsa di tutti i tempi né alla distesa di tutte le nazioni. Ma Ugon Grozio pone in sistema di un dritto universale tutta la filosofia e la filologia in entrambe le parti di questa ultima, sì della storia delle cose o favolosa o certa, sì della storia delle tre lingue, ebrea, greca e latina, che sono le tre lingue dotte antiche che ci son pervenute per mano della cristiana religione. Ed egli molto più poi si fe' addentro in quest'opera del Grozio, quando, avendosi ella a ristampare, fu richiesto che vi scrivesse alcune note, che 'l Vico cominciò a scrivere, più che al Grozio, in riprensione di quelle che vi aveva scritte il Gronovio, il quale le vi appiccòl più per compiacere a' governi liberi che per far merito alla giustizia; e già ne aveva scorso il primo libro e la metà del secondo, delle quali poi si rimase, sulla riflessione che non conveniva ad uom cattolico di religione adornare di note opera di auttore eretico.

 



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