Autobiografia di G.B. Vico - Cap. I

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. II

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. III

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. IV

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. V

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. VI

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. VII

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. VIII

Il pensiero filosofico di Giambattista Vico


Autobiografia di Giambattista Vico
Cap. III

 

Con questa dottrina e con questa erudizione il Vico si ricevé in Napoli come forestiero nella sua patria, e vi ritruovò sul più bello celebrarsi dagli uomini letterati di conto la fisica di Renato. Quella di Aristotile, e per sé e molto più per le alterazioni eccessive degli scolastici, era già divenuta una favola. La metafisica--che nel Cinquecento aveva allogato nell'ordine più sublime della letteratura i Marsili Ficini, i Pici della Mirandola, amendue gli Augustini e Nifo e Steuchio, i Giacopi Mazzoni, gli Alessandri Piccolomini, i Mattei Acquavivi, i Franceschi Patrizi, ed aveva tanto conferito alla poesia, alla storia, all'eloquenza, che tutta Grecia, nel tempo che fu più dotta e ben parlante, sembrava essere in Italia risurta-- era ella riputata degna di star racchiusa ne' chiostri; e di Platone soltanto si arrecava alcun luogo in uso della poesia, o per ostentare un'erudizion da memoria. Si condannava la logica scolastica, e si appruovava riporsi in di lei luogo gli Elementi di Euclide. La medicina, per le spesse mutazioni de' sistemi di fisica, era decaduta nello scetticismo, ed i medici avevano cominciato a stare sull'acatalepsia o sia incomprendevolità del vero circa la natura dei morbi, e sospendersi sull'epoca o sia sostentazion dell'assenso a darne i giudizi e adoperarvi efficaci rimedi; e la galenica, la quale, coltivata innanzi con la filosofia greca e con la greca lingua, aveva dato tanti medici incomparabili, per la grande ignoranza dei suoi seguaci di questi tempi era andata in un sommo disprezzo. Gl'interpetri antichi della ragion civile erano caduti dall'alta loro riputazione nell'accademia, e salitivi gli eruditi moderni con molto danno del fòro; perché quanto questi sono necessari per la critica delle leggi romane, altrettanto quelli bisognano per la topica legale nelle cause di dubbia equità. Il dottissimo signor don Carlo Buragna aveva riportata la maniera lodevole del poetare; ma l'aveva ristretta in troppe angustie dentro l'imitazione di Giovanni della Casa, non derivando nulla o di delicato o di robusto da' fonti greci o latini o da' limpidi ruscelli delle rime del Petrarca o da' gran torrenti delle canzoni di Dante. L'eruditissimo signor Lionardo da Capova aveva rimessa la buona favella toscana in prosa, vestita tutta di grazia e di leggiadria; ma con queste virtù non udivasi orazione o animata dalla sapienza greca nel maneggiare i costumi o invigorita dalla grandezza romana in commuover gli affetti. E, finalmente, il latinissimo signor Tomaso Cornelio co' suoi purissimi Proginnasmi aveva più tosto sbigottiti gl'ingegni de' giovani che avvalorati a coltivar la lingua latina in appresso. Talché, per tutte queste cose, il Vico benedisse non aver lui avuto maestro nelle cui parole avesse egli giurato, e ringraziò quelle selve, fralle quali, dal suo buon genio guidato, aveva fatto il maggior corso dei suoi studi senza niun affetto di setta, e non nella città, nella quale, come moda di vesti, si cangiava ogni due o tre anni gusto di lettere. E dal comune traccuramento della buona prosa latina si determinò a maggiormente coltivarla. Ed avendo saputo che 'l Cornelio non era valuto in lingua greca, né curato aveva la toscana e nulla o pochissimo si era dilettato di critica--forse perché avvertito aveva che i poliglotti, per la moltiplicità delle lingue che sanno, non ne usano mai una perfettamente, e i critici non consieguono le virtù delle lingue, perché sempre mai si trattengono a notare i difetti sopra gli scrittori--, il Vico deliberò abbandonare la greca, in cui si era avvanzato dai Rudimenti del Gressero, che aveva appreso nella seconda de' gesuiti, e la toscana favella (per la qual ragione non volle mai pur sapere la francesa), e tutto confermarsi nella latina. Ed avendo egli osservato altresì che con uscire alla luce i lessici e i comenti la lingua latina andò in decadenza, si risolvé non prender mai più tal sorta di libri tra le mani, riserbandosi il solo Nomenclatore di Giunio per l'intelligenza delle voci delle arti, e leggere gli auttori latini schietti di note, con una critica filosofica entrando nel di loro spirito, siccome avevan fatto gli scrittori latini del Cinquecento, tra' quali ammirava il Giovio per la facondia e 'l Naugero per la delicatezza, da quel poco che ne lasciò e, per lo di lui gusto troppo elegante, ne fa sospirare la gran perdita che si è fatta della sua Storia. Per queste ragioni il Vico non solo viveva da straniero nella sua patria, ma anche sconosciuto. Non per tanto ch'egli era di questi sensi, di queste pratiche solitarie, non venerava da lontano come numi della sapienza gli uomini vecchi accreditati in iscienza di lettere e ne invidiava con onesto cruccio ad altri giovani la ventura di conversarvi. E, con questa disposizione, che è necessaria alla gioventù per più profittare, e non sul detto de' maestri o maliziosi o ignoranti restare per tutta la vita soddisfatti di un sapere a gusto ed a misura di altrui, venne egli primieramente in notizia a due uomini di conto. Il primo fu il padre don Gaetano di Andrea teatino, che poi morì santissimo vescovo, fratello de' signori Francesco e Gennaio, entrambi di immortal nome; il quale, in un ragionamento che dentro una libreria con essolui tenne il Vico di storia di collezioni di canoni, li domandò se esso avesse menato moglie. E, rispondendogli il Vico che no, quello soggiunse: se egli si volesse far teatino; a cui questo rispondendo che esso non aveva natali nobili, quello replicò che ciò nulla importerebbe perché esso ne arebbe ottenuta dispensa da Roma. Qui, vedendosi il Vico obbligato da tanta onoranza del padre, uscì colà che aveva parenti poveri e vecchi, privi di ogni altra speranza; e pure replicando il padre che gli uomini di lettere erano piuttosto di peso che di utilità alle famiglie, il Vico conchiuse che forse in esso avverrebbe il contrario. Allora il padre finì con dire:-- Non è questa la vostra vocazione.-- L'altro fu il signor don Giuseppe Lucina, uomo di una immensa erudizione greca latina e toscana in tutte le spezie del sapere umano e divino, il quale, avendo sperimentato il giovine quanto valesse, si doleva gentilmente che non se ne facesse alcun buon uso nella città, quando a lui si offerse una bella occasione di promuoverlo: che 'l signor don Nicolò Caravita, per acutezza d'ingegno, per severità di giudizio e per purità di toscano stile avvocato primario de' tribunali e gran favoreggiatore de' letterati, volle fare una raccolta di componimenti in lode del signor conte di Santostefano, viceré di Napoli, nella di lui dipartenza, la quale fu la prima che uscì in Napoli nella nostra memoria, e dentro le angustie di pochi giorni doveva ella essere già stampata. Qui il Lucina, il quale era appo tutti di somma autorità, proposegli il Vico per l'orazione che bisognava andare innanzi agli altri componimenti, e, ricevuto da quello l'impiego, il portò a essolui, mostrandogli l'opportunità di venire con grado in cognizion di un protettor delle lettere, come esso lo sperimentò grandissimo suo, della quale cosa era esso giovane per se stesso desiderosissimo. E sì, perché aveva rinnonziato alle cose toscane, lavorò per quella raccolta una orazion latina sulle stampe medesime di Giuseppe Roselli, l'anno 1696. Quindi egli cominciò a salire in grido di letterato, e tra gli altri il signor Gregorio Calopreso, sopra da noi con onor mentovato, come fu detto di Epicuro, il soleva chiamare l'<<autodidascalo>> o sia il maestro di se medesimo. Dipoi nelle Pompe funerali di donna Caterina d'Aragona, madre del signor duca di Medinaceli, viceré di Napoli, nelle quali l'eruditissimo signor Carlo Rossi la greca, don Emmanuel Cicatelli, celebre orator sacro, la italiana, il Vico scrisse l'orazion latina, che va con gli altri componimenti in un libro in foglio stampato l'anno 1697.

Poco dopo, essendo vacata la cattedra della rettorica per morte del professore, di rendita non più che di cento scudi annui, con l'aggiunta di altra minor incerta somma che si ritragge dai diritti delle fedi con le quali tal professore abilita gli studenti allo studio legale; detto dal signor Caravita che egli illico vi concorresse, ed esso ricusando perché un'altra pretenzione, che pochi mesi innanzi esso aveva fatta, di segretario della città, gli era infelicemente riuscita; il signor don Nicolò, avendolo gentilmente ripreso come uomo di poco spirito (sì come infatti lo è d'intorno alle cose che riguardano le utilità), li disse che egli attendesse solamente a farvi la lezione, perché esso ne farebbe la pretenzione. Così il Vico vi concorse con una lezione di un'ora sopra le prime righe di Fabio Quintiliano nel lunghissimo capo De statibus caussarum, contenendosi dentro l'etimologia e la distinzion dello <<stato>>, ripiena di greca e latina erudizione e critica; per la quale meritò ottenerla con un numero abbondante di voti.

Frattanto il signor duca di Medinaceli viceré aveva restituito in Napoli il lustro delle buone lettere, non mai più veduto fin da' tempi di Alfonso di Aragona, con un'accademia per sua erudizione del fior fiore de' letterati, propostagli da don Federico Pappacoda, cavaliere napoletano di buon gusto di lettere e grande estimatore de' letterati, e da don Nicolò Caravita; onde, perché era cominciata a salire appo l'ordine de' nobili in somma riputazione la più colta letteratura, il Vico, spintovi di più dall'onore di essere stato tra tali accademici annoverato, tutto applicossi a professare umane lettere.

Quindi è che la fortuna si dice esser amica de' giovani, perché eleggono la lor sorta della vita sopra quelle arti o professioni che fioriscono nella loro gioventù; ma, il mondo di sua natura d'anni in anni cangiando gusti, si ritruovan poi, vecchi, valorosi di quel sapere che non più piace e 'n conseguenza non frutta più. Imperciocché ad un tratto si fa un gran rivolgimento di cose letterarie in Napoli, che, quando si credevano dovervisi per lunga età ristabilire tutte le lettere migliori del Cinquecento, con la dipartenza del duca viceré vi surse un altro ordine di cose da mandarle tutte in brievissimo tempo in rovina contro ogni aspettazione; ché que' valenti letterati, i quali due o tre anni avanti dicevano che le metafisiche dovevano star chiuse ne' chiostri, presero essi a tutta voga a coltivarle, non già sopra i Platoni e i Plotini coi Marsili, onde nel Cinquecento fruttarono tanti gran letterati, ma sopra le Meditazioni di Renato Delle Carte, delle quali è séguito il suo libro Del metodo, in cui egli disappruova gli studi delle lingue, degli oratori, degli storici e de' poeti, e ponendo sù solamente la sua metafisica, fisica e mattematica, riduce la letteratura al sapere degli arabi, i quali in tutte e tre queste parti n'ebbero dottissimi, come gli Averroi in metafisica e tanti famosi astronomi e medici che ne hanno nell'una e nell'altra scienza lasciate anche le voci necessarie a spiegarvisi. Quindi ai quantunque dotti e grandi ingegni, perché si eran prima tutti e lungo tempo occupati in fisiche corpuscolari, in esperienze ed in macchine, dovettero le Meditazioni di Renato sembrar astrusissime, perché potessero ritrar da' sensi le menti per meditarvi; onde l'elogio di gran filosofo era:--Costui intende le Meditazioni di Renato.--E in questi tempi, praticando spesso il Vico e 'l signor don Paolo Doria dal signor Caravita, la cui casa era ridotto di uomini di lettere, questo egualmente gran cavalliere e filosofo fu il primo con cui il Vico poté cominciare a ragionar di metafisica; e ciò che il Doria ammirava di sublime, grande e nuovo in Renato, il Vico avvertiva che era vecchio e volgar tra' platonici. Ma da' ragionamenti del Doria egli vi osservava una mente che spesso balenava lumi sfolgoranti di platonica divinità, onde da quel tempo restaron congionti in una fida e signorile amicizia.

Fino a questi tempi il Vico ammirava due soli sopra tutti gli altri dotti, che furono Platone e Tacito; perché con una mente metafisica incomparabile Tacito contempla l'uomo qual è, Platone qual dee essere; e come Platone con quella scienza universale si diffonde in tutte le parti dell'onestà che compiono l'uom sapiente d'idea, così Tacito discende a tutti i consigli dell'utilità, perché tra gl'infiniti irregolari eventi della malizia e della fortuna si conduca a bene l'uom sapiente di pratica. E l'ammirazione con tal aspetto di questi due grandi auttori era nel Vico un abbozzo di quel disegno sul quale egli poi lavorò una storia ideale eterna sulla quale corrésse la storia universale di tutti i tempi, conducendovi, sopra certe eterne propietà delle cose civili, i surgimenti, stati, decadenze di tutte le nazioni, onde se ne formasse il sapiente insieme e di sapienza riposta, qual è quel di Platone, e di sapienza volgare, qual è quello di Tacito. Quando finalmente venne a lui in notizia Francesco Bacone signor di Verulamio, uomo ugualmente d'incomparabile sapienza e volgare e riposta, siccome quello che fu insieme insieme un uomo universale in dottrina ed in pratica, come raro filosofo e gran ministro di stato dell'Inghilterra. E, lasciando da parte stare gli altri suoi libri, nelle cui materie ebbe forse pari e migliori, in quelli De augumentis scientiarum l'apprese tanto che, come Platone è il principe del sapere de' greci e un Tacito non hanno i greci, così un Bacone manca ed a' latini ed a' greci; che un sol uom vedesse quanto vi manchi nel mondo delle lettere che si dovrebbe ritruovare e promuovere, ed in ciò che vi ha, di quanti e quali difetti sia egli necessario emendarsi; né per affezione o di particolar professione o di propia setta, a riserva di poche cose che offendono la cattolica religione, faccia a tutte le scienze giustizia, e a tutte col consiglio che ciascuna conferisca del suo nella somma che costitovisce l'universal repubblica delle lettere. E, propostisi il Vico questi tre singolari auttori da sempre avergli avanti gli occhi nel meditare e nello scrivere, così andò dirozzando i suoi lavori d'ingegno, che poi portarono l'ultima opera De universi iuris uno principio, ecc.

Imperciocché egli nelle sue orazioni fatte nell'aperture degli studi nella regia Università usò sempre la pratica di proporre universali argomenti, scesi dalla metafisica in uso della civile; e con questo aspetto trattò o de' fini degli studi, come nelle prime sei, o del metodo di studiare, come nella seconda parte della sesta e nell'intiera settima. Le prime tre trattano principalmente de' fini convenevoli alla natura umana, le due altre principalmente de' fini politici, la sesta del fine cristiano.

La prima, recitata li diciotto di ottobre 1699, propone che coltiviamo la forza della nostra mente divina in tutte le sue facoltà, su questo argomento: Suam ipsius cognitionem ad omnem dostrinarum orbem brevi absolvendum maximo cuique esse incitamento. E pruova la mente umana in via di proporzione esser il dio dell'uomo, come Iddio è la mente del tutto; dimostra le meraviglie della facoltà della mente partitamente, o sieno sensi o fantasia o memoria o ingegno o raziocinio, come operino con divine forze di speditezza, facilità ed efficacia e ad un medesimo tempo diversissime cose e moltissime; che i fanciulli, vacui di pravi affetti e di vizi, di tre o quattro anni trastullando si ritruovano aver già appresi gl'intieri lessici delle loro lingue native; che Socrate non tanto richiamò la morale filosofia dal cielo quanto esso v'innalzò l'animo nostro, e coloro i quali con le invenzioni furono sollevati in ciel tra gli dèi quelli sono l'ingegno di ciascuno di noi; che sia meraviglia esservi tanti ignoranti, quando, come il fumo agli occhi, la puzza al naso, così sia contrario alla mente il non sapere, l'esser ingannato, il prender errore, onde sia da sommamente vituperarsi la negligenza; che non siamo dottissimi in tutto, unicamente perché non vogliamo esserlo, quando, col sol volere efficace, trasportati da estro, facciamo cose che, dopo fatte, l'ammiriamo come non da noi ma fatte da un dio. E perciò conchiude che, se in pochi anni un giovanetto non ha corso tutto l'orbe delle scienze, sia egli avvenuto o perché egli non ha voluto, o, se ha voluto, sia provvenuto per difetto de' maestri o di buon ordine di studiare o di fine degli studi, altrove collocato che di coltivare una specie di divinità dell'animo nostro.

La seconda orazione, recitata l'anno 1700, contiene che informiamo l'animo delle virtù in conseguenza delle verità della mente, sopra questo argomento: Hostem hosti infensiorem infestioremque quam stultum sibi esse neminem. E fa vedere questo universo una gran città, nella quale con una legge eterna Iddio condanna gli stolti a fare una guerra contro di se medesimi, così concepita: <<Eius legis tot sunt digito omnipotenti perscripta capita, quot sunt rerum omnium naturae. Caput de homine recitemus. Homo mortali corpore, aeterno animo esto. Ad duas res, verum honestumque, sive adeo Mihi uni, nascitor. Mens verum falsumque dignoscito. Sensus menti ne imponunto. Ratio vitae auspicium, ductum imperiumque habeto. Cupiditates rationi parento . . . Bonis animi artibus laudem sibi parato. virtute et constantia humanam felicitatem indipiscitor. Si quis stultus, sive per malam malitiam sive per luxum sive per ignaviam sive adeo per imprudentiam, secus faxit, perduellionis reus ipse secum bellum gerito>>, e vi descrive tragicamente la guerra. Dal qual luogo si vede apertamente che egli agitava fin da questo tempo nell'animo l'argomento, che poi trattò, del Diritto universale.

L'orazion terza, recitata l'anno 1701, è una come appendice pratica delle due innanzi, sopra questo argomento: A litteraria societate omnem malam fraudem abesse oportere, si vos vera non simulata, solida non vana, eruditione ornari studeatis. E dimostra che nella repubblica letteraria bisogna vivere con giustizia, e si condannano i critici a compiacenza, che esiggono con iniquità i tributi di questo erario, gli ostinati delle sètte, che impediscono accrescersi l'erario, gl'impostori, che fraudano le loro contribuzioni all'erario delle lettere.

La quarta orazione, recitata l'anno 1704, propone questo argomento: Si quis ex litterarum studiis maximas utilitates easque semper cum honestate coniunctas percipere velit, is gloriae sive communi bono erudiatur. Ella è contra i falsi dotti che studiano per la sola utilità, per la quale proccurano più di parere che di esser tali, e, conseguita l'utilità propostasi, s'infingardiscono ed usano pessime arti per durare in oppinione di dotti. Aveva il Vico già recitata la metà di questo ragionamento, quando venne il signor don Felice Lanzina Ulloa, presidente del Sacro Consiglio, il Catone de' ministri spagnuoli, in onor di cui egli con molto spirito diede altro torno e più brieve al già detto e attaccollo con ciò che restava a dire. Per una cui simile vivezza d'ingegno, che usò in lingua italiana Clemente undecimo, quando egli era abate nell'accademia degli Umoristi in onore del cardinale d'Etré, suo protettore, cominciò appo Innocenzo decimosecondo le sue fortune, che il portarono al sommo ponteficato.

Nella quinta orazione, recitata l'anno 1705, proponsi: Respublicas tum maxime belli gloria inclytas et rerum imperio potentes, quum maxime litteris floruerunt. E si pruova vigorosamente con buone ragioni, e poi si conferma con questa perpetua successione di esempli. Nell'Assiria sursero i caldei, primi dotti del mondo e vi si stabilì la prima gran monarchia. Quando sfoggiò la Grecia più che in tutti i tempi innanzi in sapere, la monarchia di Persia si rovesciò da Alessandro. Roma stabilì l'imperio del mondo sulle rovine di Cartagine sotto Scipione, che seppe tanto di filosofia, di eloquenza e di poesia quanto il dimostrano le inimitabili commedie di Terenzio, le quali egli insiem col suo amico Lelio lavorò, e, stimandole indegne di uscire sotto il suo gran nome, le fece pubblicare sotto quel di cui vanno, che vi dovette alcuna cosa contribuire del suo. Certamente la monarchia romana si fermò sotto Augusto, nel cui tempo risplendé in Roma tutta la sapienza di Grecia con lo splendore della lingua romana. Il più luminoso regno d'Italia sfolgorò sotto Teodorico col consiglio de' Cassiodori. In Carlo Magno risurse l'imperio romano in Germania, perché le lettere, già affatto morte nelle corti reali d'Occidente, ricominciarono a surgere nella sua con gli Alcuini. Omero fece Alessandro, il quale tutto ardeva di conformarsi in valore all'essemplo di Achille, e Giulio Cesare si destò alle grandi imprese sull'essemplo di esso Alessandro; talché questi due gran capitani, de' quali niuno ardì diffinire la maggioranza, sono scolari d'un eroe d'Omero. Due cardinali, entrambi grandissimi filosofi e teologi, ed uno, di più, grande orator sacro, Simenes e Riscegliù, quello descrisse la pianta della monarchia di Spagna, questo quella di Francia. Il Turco ha fondato un grand'imperio sulla barbarie, ma col consiglio di un Sergio, dotto ed empio monaco cristiano, che allo stupido Maometto diede la legge sopra la quale il fondasse; e, mentre i greci, dall'Asia incominciando e poi dapertutto, erano andati nella barbarie, gli arabi coltivarono le metafisiche, le mattematiche, le astronomie, le medicine, e con questo sapere di dotti, quantunque non della più colta umanità, destarono a una somma gloria di conquiste gli Almanzorri tutti barbari e fieri, e servirono a stabilire al Turco un imperio nel quale fossero vietate tutte le lettere; il quale però, se non fosse per gli perfidi cristiani, prima greci e poi latini, che han loro somministrato di tempo in tempo le arti e i consigli della guerra, sarebbe il loro vasto imperio da se medesimo rovinato.

Nella orazion sesta, recitata l'anno 1707, tratta questo argomento mescolato di fine degli studi e di ordine di studiare: Corruptae hominum naturae cognitio ad universum ingenuarum artium scientiarumque absolvendum orbem invitat incitatque, ac rectum, facilem ac perpetuum in iis perdiscendis ordinem proponit exponitque. Qui egli fa entrar gli uditori in una meditazion di se medesimi, che l'uomo in pena del peccato è diviso dall'uomo con la lingua, con la mente e col cuore: con la lingua, che spesso non soccorre e spesso tradisce l'idee per le quali l'uomo vorrebbe e non può unirsi con l'uomo; con la mente, per la varietà delle opinioni nate dalla diversità de' gusti de' sensi, ne' quali uom non conviene con altr'uomo; e finalmente col cuore, per lo quale, corrotto, nemmeno l'uniformità de' vizi concilia l'uomo con l'uomo. Onde pruova che la pena della nostra corruzione si debba emendare con la virtù, con la scienza, con l'eloquenza, per le quali tre cose unicamente l'uomo sente lo stesso che altr'uomo. E ciò, per quello s'attiene al fine degli studi. Per quello riguarda l'ordine di studiare, pruova che, siccome le lingue furono il più potente mezzo di fermare l'umana società, così dalle lingue deono incominciarsi gli studi, poiché elle tutte s'attengono alla memoria, nella quale vale mirabilmente la fanciullezza. L'età de' fanciulli, debole di raziocinio, non con altro si regola che con gli essempli, che devono apprendersi con vivezza di fantasia per commuovere, nella quale la fanciullezza è meravigliosa; quindi i fanciulli si devono trattenere nella lezion della storia così favolosa come vera. È ragionevole la età de' fanciulli, ma non ha materia di ragionare: s'addestrino all'arte del buon raziocinio nelle scienze delle misure, che vogliono memoria e fantasia e, insieme insieme, spossan loro la corpolenta facoltà dell'immaginativa, che, robusta, è la madre di tutti i nostri errori e miserie. Nella prima gioventù prevagliono i sensi e ne trascinano la mente pura: si applichino alle fisiche, che portano alla contemplazione dell'universo de' corpi ed han bisogno delle mattematiche per la scienza del sistema mondano. Quindi dalle vaste idee corpolente fisiche e dalle delicate delle linee e de' numeri si dispongano ad intendere l'infinito astratto in metafisica con la scienza dell'ente e dell'uno, nella quale conoscendo i giovani la lor mente, si dispongano a ravvisare il loro animo, e in séguito di eterne verità il vedan corrotto, per potersi disporre ad emendarlo naturalmente con la morale in età che già han fatto alcuna sperienza quanto mal conducano le passioni, le quali sono in fanciullezza violentissime. Ed ove conoscano che naturalmente la morale pagana non basti perché ammansisca e domi la filautia o sia l'amor proprio, ed avendo in metafisica sperimentato intender essi più certo l'infinito che il finito, la mente che 'l corpo, Iddio che l'uomo, il quale non sa le guise come esso si muova, come senta, come conosca, si dispongano con l'intelletto umiliato a ricevere la rivelata teologia, in conseguenza di cui discendano alla cristiana morale, e, così purgati si portino finalmente alla cristiana giurisprudenza.

 



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