Autobiografia di G.B. Vico - Cap. I

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. II

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. III

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. IV

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. V

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. VI

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. VII

Autobiografia di G.B. Vico - Cap. VIII

Il pensiero filosofico di Giambattista Vico


Autobiografia di Giambattista Vico
Cap. II

 

Andava egli frattanto a perdere la dilicata complessione in mal d'eticìa, ed eran a lui in troppe angustie ridotte le famigliari fortune, ed aveva un ardente desiderio di ozio per seguitare i suoi studi, e l'animo abborriva grandemente dallo strepito del fòro, quando portò la buona occasione che, dentro una libreria, monsignor Geronimo Rocca vescovo d'Ischia, giureconsulto chiarissimo, come le sue opere il dimostrano, ebbe con essolui un ragionamento d'intorno al buon metodo d'insegnare la giurisprudenza. Di che il monsignore restò così soddisfatto che il tentò a volerla andare ad insegnare a' suoi nipoti in un castello del Cilento di bellissimo sito e di perfettissima aria, il quale era in signoria di un suo fratello, signor don Domenico Rocca (che poi sperimentò gentilissimo suo mecenate e che si dilettava parimente della stessa maniera di poesia), perché l'arebbe dello in tutto pari a' suoi figliuoli trattato (come poi in effetto il trattò), ed ivi dalla buon'aria del paese sarebbe restituito in salute ed arebbe tutto l'agio di studiare.

Così egli avvenne, perché quivi avendo dimorato ben nove anni, fece il maggior corso degli studi suoi, profondando in quello delle leggi e de' canoni, al quale il portava la sua obbligazione. E in grazia della ragion canonica inoltratosi a studiar de' dogmi, si ritruovò poi nel giusto mezzo della dottrina cattolica d'intorno alla materia della grazia, particolarmente con la lezion del Ricardo, teologo sorbonico (che per fortuna si aveva seco portato dalla libreria di suo padre), il quale con un metodo geometrico fa vedere la dottrina di sant'Agostino posta in mezzo, come a due estremi, tra la calvinistica e la pelagiana e alle altre sentenze che o all'una di queste due o all'altra si avvicinano. La qual disposizione riuscì a lui efficace a meditar poi un principio di dritto natural delle genti il quale e fosse comodo a spiegare le origini del dritto romano ed ogni altro civile gentilesco per quel che riguarda la storia, e iosse conforme alla sana dottrina della grazia per quel che ne riguarda la morale filosofia. Nel medesimo tempo Lorenzo Valla, con l'occasione che da quello sono ripresi in latina eleganza i romani giureconsulti, il guidò a coltivare lo studio della lingua latina, dandovi incominciamento dalle opere di Cicerone.

Ma, vivendo egli ancora pregiudicato nel poetare, felicemente gli avvenne che in una libreria de' padri minori osservanti di quel castello si prese tra le mani un libro, nel cui fine era una critica, non ben si ricorda, o apologia di un epigramma di un valentuomo, canonico di ordine, Massa cognominato, dove si ragionava dei numeri poetici maravigliosi, spezialmente osservati in Virgilio; e fu sorpreso da tanta ammirazione che s'invogliò di studiare sui poeti latini, da quel principe facendo capo. Quindi, cominciandogli a dispiacere la sua maniera di poetar moderna, si rivolse a coltivare la favella toscana sopra i di lei prìncipi, Boccaccio nella prosa, Dante e Petrarca nel verso; e per vicende di giornate studiava Cicerone o Virgilio overo Orazio, appetto il primo di Boccaccio, il secondo di Dante, il terzo di Petrarca, su questa curiosità di vederne con integrità di giudizio le differenze. E ne apprese di quanto in tutti e tre la latina favella avvanzava l'italiana, leggendo sempre i più colti scrittori con questo ordine tre volte: la prima per comprenderne l'unità dei componimenti, la seconda per veder gli attacchi e 'l séguito delle cose, la terza, più partitamente, per raccórne le belle forme del concepire e dello spiegarsi, le quali esso notava sui libri stessi, non portava in luoghi comuni o frasari; la qual pratica stimava condurre assai per bene usarle ai bisogni, ove le si ricordava ne' luoghi loro: che è l'unica ragione del ben concepire e del bene spiegarsi.

Quindi, leggendo nell'Arte d'Orazio che la suppellettile più doviziosa della poesia ella si proccura con la lezion de' morali filosofi, seriosamente applicò alla morale degli antichi greci, dandovi principio da quella di Aristotile, di cui più soventi fiate su vari princìpi d'instituzioni civili ne aveva letto riferirsi le auttorità. E in sì fatto studio avvertì che la giurisprudenza romana era un'arte di equità insegnata con innumerabili minuti precetti di giusto naturale, indagati da' giureconsulti dentro le ragioni delle leggi e la volontà de' legislatori; ma la scienza del giusto che insegnano i morali filosofi, ella procede da poche verità eterne, dettate in metafisica da una giustizia ideale, che nel lavoro delle città tien luogo d'architetta e comanda alle due giustizie particolari, commutativa e distributiva, come a due fabre divine che misurino le utilità con due misure eterne, aritmetica e geometrica, sì come quelle che sono due proporzioni in mattematica dimostrate. Onde cominciò a conoscere quanto meno della metà si apprenda la disciplina legale con questo metodo di studi comunal che si osserva. Perciò si dovette esso di nuovo portare alla metafisica; ma, non soccorrendolo in ciò quella d'Aristotile, che aveva appresa nel Suarez, né sapendone veder la cagione, guidato dalla sola fama che Platone era il principe de' divini filosofi, si condusse a studiarla da essolui, e, molto dipoi che vi aveva profittato, intese la cagione perché la metafisica d'Aristotile non lo aveva soccorso per gli studi della morale, siccome di nulla soccorse ad Averroe, il cui Comento non fe' più umani e civili gli arabi di quello che erano stati innanzi. Perché la metafisica d'Aristotile conduce a un principio fisico, il quale è materia dalla quale si educono le forme particolari e, sì, fa Iddio un vasellaio che lavori le cose fuori di sé. Ma la metafisica di Platone conduce a un principio fisico, che è la idea eterna che da sé educe e crea la materia medesima, come uno spirito seminale che esso stesso si formi l'uovo: in conformità di questa metafisica, fonda una morale sopra una virtù o giustizia ideale o sia architetta, in conseguenza della quale si diede a meditare una ideale repubblica, alla quale diede con le sue leggi un dritto pur ideale. Tanto che da quel tempo che il Vico non si sentì soddisfatto della metafisica d'Aristotile per bene intendere la morale e si sperimentò addottrinare da quella di Platone, incominciò in lui, senz'avvertirlo, a destarsi il pensiero di meditare un diritto ideale eterno che celebrassesi in una città universale nell'idea o disegno della providenza, sopra la quale idea son poi fondate tutte le repubbliche di tutti i tempi, di tutte le nazioni: che era quella repubblica ideale che, in conseguenza della sua metafisica, doveva meditar Platone, ma, per l'ignoranza del primo uom caduto, nol poté fare.

Ad un medesimo tempo le opere filosofiche di Cicerone, di Aristotile e di Platone, tutte lavorate in ordine a ben regolare l'uomo nella civile società, fecero che egli nulla o assai poco si dilettasse della morale così degli stoici come degli epicurei, siccome quelle che entrambe sono una morale di solitari: degli epicurei, perché di sfaccendati chiusi ne' loro orticelli; degli stoici, perché di meditanti che studiavàno non sentir passione. E 'l salto, che egli aveva dapprima fatto dalla logica alla metafisica, fece che 'l Vico poco poi curasse la fisica d'Aristotile, di Epicuro ed ultimamente di Renato Delle Carte; onde si ritrovò disposto a compiacersi della fisica timaica seguìta da Platone, la quale vuole il mondo fatto di numeri, e ad esser rattenuto di disprezzare la fisica stoica, che vuole il mondo costar di punti, tralle quali due non è nulla di vario in sostanza, come poi si applicò a ristabilirla nel libro De antiquissima italorum sapientia; e finalmente a non ricevere né per giuoco né con serietà le fisiche meccaniche di Epicuro come di Renato, che sono entrambe di falsa posizione.

Però, osservando il Vico così da Aristotile come da Platone usarsi assai sovente pruove mattematiche per dimostrare le cose che ragionano essi in filosofia, egli in ciò si vide difettoso a poter bene intendergli; onde volle applicarsi alla geometria e inoltrarsi fino alla quinta proposizione di Euclide. E, riflettendo che in quella dimostrazione si conteneva insomma una congruenza di triangoli esaminata partitamente per ciascun lato ed angolo di triangolo, che si dimostra con egual distesa combaciarsi con ciascun lato ed angolo dell'altro, pruovava in se stesso cosa più facile l'intendere quelle minute verità tutte insieme, come in un genere metafisico, di quelle particolari quantità geometriche. E a suo costo sperimentò che alle menti già dalla metafisica fatte universali non riesce agevole quello studio propio degli ingegni minuti, e lasciò di seguitarlo, siccome quello che poneva in ceppi ed angustie la sua mente già avezza col molto studio di metafisica a spaziarsi nell'infinito de' generi; e con la spessa lezione di oratori, di storici e di poeti dilettava l'ingegno di osservare tra lontanissime cose nodi che in qualche ragion comune le stringessero insieme, che sono i bei nastri dell'eloquenza che fanno dilettevoli l'acutezze.

Talché con ragione gli antichi stimarono studio propio da applicarvisi i fanciulli quello della geometria e la giudicarono una logica propia di quella tenera età, che quanto apprende bene i particolari e sa fil filo disporgli, tanto difficilmente comprende i generi delle cose; ed Aristotile medesimo, quantunque esso dal metodo usato dalla geometria avesse astratto l'arte sillogistica, pur vi conviene ove afferma che a' fanciulli debbono insegnarsi le lingue, l'istorie e la geometria, come materie più propie da esercitarvi la memoria, la fantasia e l'ingegno. Quindi si può facilmente intendere con quanto guasto, con che coltura della gioventù, oggi da taluni nel metodo di studiare si usano due perniziosissime pratiche. La prima, che a fanciulli appena usciti dalla scuola della gramatica si apre la filosofia sulla logica che si dice <<di Arnaldo>>, tutta ripiena di severissimi giudizi d'intorno a materie riposte, di scienze superiori e tutte lontane dal comun senso volgare; con che si vengono a convellere ne' giovinetti quelle doti della mente giovanile, le quali dovrebbero essere regolate e promosse ciascuna da un'arte propia, come la memoria con lo studio delle lingue, la fantasia con la lezione de' poeti, storici ed oratori, l'ingegno con la geometria lineare, che in un certo modo è una pittura la quale invigorisce la memoria col gran numero de' suoi elementi, ingentilisce la fantasia con le sue delicate figure come con tanti disegni descritti con sottilissime linee, e fa spedito l'ingegno in dover correrle tutte, e tra tutte raccoglier quelle che bisognano per dimostrare la grandezza che si domanda; e tutto ciò per fruttare, a tempo di maturo giudizio, una sapienza ben parlante, viva ed acuta. Ma, con tal logiche, i giovinetti, trasportati innanzi tempo alla critica, che è tanto dire portati a ben giudicare innanzi di ben apprendere, contro il corso natural dell'idee, che prima apprendono, poi giudicano, finalmente ragionano, ne diviene la gioventù arida e secca nello spiegarsi e, senza far mai nulla, vuol giudicar d'ogni cosa. Al contrario, se eglino nell'età dell'ingegno, che è la giovanezza, s'impiegassero nella topica, che è l'arte di ritrovare, che è sol privilegio degl'ingegnosi (come il Vico, fatto accorto da Cicerone, vi s'impiegò nella sua), essi apparecchierebbero la materia per poi ben giudicare, perché non si giudica bene se non si è conosciuto il tutto della cosa, e la topica è l'arte in ciascheduna cosa di ritrovare tutto quanto in quella è; e sì anderebbono dalla natura stessa i giovani a formarsi e filosofi e ben parlanti. L'altra pratica è che si dànno a' giovanetti gli elementi della scienza delle grandezze col metodo algebraico, il quale assidera tutto il più rigoglioso delle indoli giovanili, lor accieca la fantasia, spossa la memoria, infingardisce l'ingegno, rallenta l'intendimento, le quali quattro cose sono necessarissime per la coltura della miglior umanità: la prima per la pittura, scoltura, architettura, musica, poesia ed eloquenza; la seconda per l'erudizione delle lingue e dell'istorie; la terza per le invenzioni; la quarta per la prudenza. E cotesta algebra sembra un ritrovato arabico di ridurre i segni naturali delle grandezze a certe cifre a placito, conforme gli arabi i segni de' numeri, che appo i greci e latini furono le loro lettere, le quali appo entrambi, almen le grandi, sono linee geometriche regolari, essi ridussero in dieci minutissime cifre. E sì con l'algebra si affligge l'ingegno, perché non vede se non quel solo che li sta innanzi i piedi; sbalordisce la memoria, perché, ritruovato il secondo segno, non bada più al primo; abbacina la fantasia, perché non immagina affatto nulla; distrugge l'intendimento, perché professa d'indovinare: talché i giovani, che vi hanno speso molto tempo, nell'uso poi della vita civile, con lor sommo rammarico e pentimento, vi si ritruovano meno atti. Onde, perché recasse alcuna utilità e non facesse niuno di sì gran danni, l'algebra si dovrebbe apprendere per poco tempo nel fine del corso mattematico ed usarla come facevano i romani de' numeri, che nelle immense somme li descrivevano per punti; così, dove, per ritrovare le grandezze che si domandano, si avesse a durare una disperata fatica col nostro umano intendimento per la sintetica, allora corressimo all'oracolo dell'analitica. Perché, per quanto appartiene a ben ragionare con questa spezie di metodo, meglio è farne l'abito con l'analitica metafisica, e in ogni quistione si vada a prendere il vero nell'infinito dell'ente, indi per gli generi della sostanza gradatamente si vada rimovendo ciò che la cosa non è per tutte le spezie de' generi, finché si giunga all'ultima differenza, che costituisca l'essenza della cosa che si desidera di sapere.

Ora, ricevendoci al proposito,--scoverto che egli ebbe tutto l'arcano del metodo geometrico contenersi in ciò: di prima diffinire le voci con le quali s'abbia a ragionare; dipoi stabilire alcune massime comuni, nelle quali colui con chi si ragiona vi convenga; finalmente, se bisogna, dimandare discretamente cosa che per natura Si possa concedere, affin di poter uscire i ragionamenti, che senza una qualche posizione non verrebbero a capo; e con questi princìpi da verità più semplici dimostrate procedere fil filo alle più composte, e le composte non affermare se non prima si esaminino partitamente le parti che le compongono--stimò soltanto utile aver conosciuto come procedano ne' loro ragionamenti i geometri, perché, se mai a lui bisognasse alcuna volta quella maniera di ragionare, il sapesse; come poi severamente l'usò nell'opera De universi iuris uno principio, la quale il signor Giovan Clerico ha giudicato <<esser tessuta con uno stretto metodo mattematico>>, come a suo luogo si narrerà.

Or, per sapere ordinatamente i progressi del Vico nelle filosofie, fa qui bisogno ritornare alquanto indietro: che, nel tempo nel quale egli partì da Napoli, si era cominciata a coltivare la filosofia d'Epicuro sopra Pier Gassendi, e due anni doppo ebbe novella che la gioventù a tutta voga si era data a celebrarla; onde in lui si destò voglia d'intenderla sopra Lucrezio. Nella cui lezione conobbe che Epicuro, perché niegava la mente esser d'altro genere di sostanza che 'l corpo, per difetto di buona metafisica rimasto di mente limitata, dovette porre principio di filosofia il corpo già formato e diviso in parti moltiformi ultime composte di altre parti, le quali, per difetto di vuoto interspersovi, finselesi indivisibili: ch'è una filosofia da soddisfare le menti corte de' fanciulli e le deboli delle donnicciuole. E quantunque egli non sapesse né meno di geometria, con tutto ciò con un buono ordinato séguito di conseguenze vi fabbrica sopra una fisica meccanica, una metafisica tutta del senso, quale sarebbe appunto quella di Giovanni Locke, e una morale del piacere, buona per uomini che debbon vivere in solitudine, come in effetto egli ordinò a coloro che professassero la sua setta; e, per fargli il suo merito, con quanto diletto il Vico vedeva spiegarsi da quello le forme della natura corporea, con altrettanto o riso o compatimento il vedeva posto nella dura necessità di dare in mille inezie e sciocchezze per ispiegare le guise come operi la mente umana. Onde questo solo servì a lui di gran motivo di confermarsi vie più ne' dogmi di Platone, il quale da essa forma della nostra mente umana, senza ipotesi alcuna, stabilisce per principio delle cose tutte l'idea eterna, sulla scienza e coscienza che abbiamo di noi medesimi. Ché nella nostra mente sono certe eterne verità che non possiamo sconoscere o riniegare, e in conseguenza che non sono da noi; ma del rimanente sentiamo in noi una libertà di fare, intendendo, tutte le cose che han dipendenza dal corpo, e perciò le facciamo in tempo, cioè quando vogliamo applicarvi, e tutte in conoscendo le facciamo, e tutte le conteniamo dentro di noi: come le immagini con la fantasia; le reminiscenze con la memoria; con l'appetito le passioni; gli odori, i sapori, i colori, i suoni, i tatti co' sensi; e tutte queste cose le conteniamo dentro di noi. Ma per le verità eterne, che non sono da noi e non hanno dipendenza dal corpo nostro, dobbiamo intendere essere principio delle cose tutte una idea eterna tutta scevera di corpo, che nella sua cognizione, ove voglia, crea tutte le cose in tempo e le contiene dentro di sé e, contenendole, le sostiene. Dal qual principio di filosofia stabilisce, in metafisica, le sostanze astratte aver più di realità che le corpolente; ne deriva una morale tutta ben disposta per la civiltà, onde la scuola di Socrate, e per sé e per gli suoi successori, diede i maggiori lumi della Grecia in entrambe le arti della pace e della guerra; e applaudisce alla fisica timaica, cioè di Pitagora, che vuole il mondo costar di numeri, che sono in un certo modo più astratti de' punti metafisici, ne' quali diede Zenone per ispiegarvi sopra le cose della natura, come poi il Vico nella sua Metafisica il dimostra, per quel che appresso se ne dirà.

A capo di altro poco tempo seppe egli ch'era salita in pregio la fisica sperimentale, per cui si gridava da per tutto Roberto Boyle; la quale quanto egli giudicava esser profittevole per la medicina e per la spargirica, tanto esso la volle da sé lontana, tra perché nulla conferiva alla filosofia dell'uomo, e perché si doveva spiegare con maniere barbare, ed egli principalmente attendeva allo studio delle leggi romane, i cui principali fondamenti sono la filosofia degli- umani costumi e la scienza della lingua e del governo romano, che unicamente si apprende sui latini scrittori.

Verso il fine della sua solitudine, che ben nove anni duro, ebbe notizia aver oscurato la fama di tutte le passate la fisica di Renato Delle Carte, talché s'infiammò di averne contezza; quando per un grazioso inganno egli ne aveva avute di già le notizie, perché esso dalla libreria di suo padre tra gli altri libri ne portò via seco la Filosofia naturale di Errico Regio, sotto la cui maschera il Cartesio l'aveva incominciata a pubblicare in Utrecht. E dopo il Lucrezio avendo preso il Regio a studiare, filosofo di profession medico, che mostrava non aver altra erudizione che di mattematica, il credette uomo non meno ignaro di metafisica di quello ch'era stato Epicuro, che di mattematica non volle già mai sapere. Poiché egli pone in natura un principio pur di falsa posizione--il corpo già formato--, che soltanto differisce da quel di Epicuro, che quello ferma la divisibilità del corpo negli atomi, questo fa i suoi tre elementi divisibili all'infinito; quello pone il moto nel vano, questo nel pieno; quello incomincia a formare i suoi infiniti mondi da una casuale declinazion di atomi dal moto allo ingiù del propio lor peso e gravità, questo incomincia a formare i suoi indefiniti vortici da un impeto impresso a un pezzo di materia inerte e quindi non divisa ancora, la quale con l'impresso moto la divida in quadrelli, e, impedita dalla sua mole, metta in necessità di sforzarsi a muovere a moto retto, e, non potendo per lo suo pieno, incominci, ne' suoi quadrelli divisa, a muoversi circa il suo centro di ciascun quadrello. Onde, come dalla casuale declinazione de' suoi atomi Epicuro permette il mondo alla discrezione del caso, così, dalla necessità di sforzarsi al moto retto i primi corpicelli di Renato, al Vico sembrava che tal sistema sarebbe comodo a coloro che soggettano il mondo al fato. E di tal suo giudizio egli si rallegrò in tempo appresso, che, ricevutosi in Napoli, e risaputo che la fisica del Regio era di Renato, si erano cominciate a coltivare le Meditazioni metafisiche del medesimo. Perché Renato, ambiziosissimo di gloria, sì come--con la sua fisica machinata sopra un disegno simile a quella di Epicuro, fatta comparire la prima volta sulle cattedre di una celebratissima università di Europa, qual è quella di Utrecht, da un fisico medico affettò farsi celebre tra professori di medicina; così poi disegnò alquante prime linee di metafisica alla maniera di Platone--ove s'industria di stabilire due generi di sostanze, una distesa, altra intelligente, per dimostrare un agente sopra la materia che materia non sia, qual egli è 'l <<dio>> di Platone--per avere un giorno il regno anche tra i chiostri, ne' quali era stata introdotta fin dal secolo undecimo la metafisica d'Aristotile. Ché, quantunque, per quello che questo filosofo vi conferì del suo, ella avesse servito innanzi agli empi averroisti, però, essendone la pianta quella di Platone, facilmente la religion cristiana la piegò a' sensi pii del di lui Maestro, onde, come ella resse da principio con la platonica sino all'undecimo secolo, così indi in poi ha retto con la metafisica aristotelica. E, infatti, sul maggior fervore che si celebrava la fisica cartesiana, il Vico, ricevutosi in Napoli, udillo spesse volte dire dal signor Gregorio Calopreso, gran filosofo renatista, a cui il Vico fu molto caro. Ma, nell'unità delle sue parti, di nulla costa in un sistema la filosofia di Renato, perché alla sua fisica converrebbe una metafisica che stabilisse un solo genere di sostanza corporea, operante, come si è detto, per necessità, come a quella di Epicuro un sol genere di sostanza corporea, operante a caso; siccome in ciò ben conviene Renato con Epicuro, che tutte le infinite varie forme de' corpi sono modificazioni della sostanza corporea, che in sostanza son nulla. Né la sua metafisica fruttò punto alcuna morale comoda alla cristiana religione, perché non solo non la compongono le poche cose che egli sparsamente ne ha scritto, e 'l trattato delle Passioni più serve alla medicina che alla morale; ma neanche il padre Malebranche vi seppe lavorare sopra un sistema di moral cristiana, ed i Pensieri del Pascale sono pur lumi sparsi. Né dalla sua metafisica esce una logica propia, perché Arnaldo lavora la sua sulla pianta di quella di Aristotile. Né meno serve alla stessa medicina, perché l'uom di Renato dagli anatomici non si ritruova in natura, tanto che, a petto di quella di Renato, più regge in un sistema la filosofia d'Epicuro, che non seppe nulla di mattematica. Per queste ragioni tutte, le quali avvertì il Vico, egli appresso molto godeva con esso seco che quando con la lezion di Lucrezio si fe' più dalla parte della metafisica platonica, tanto con quella del Regio più vi si confermò.

Queste fisiche erano al Vico come divertimenti dalle meditazioni severe sopra i metafisici platonici, e servivangli per ispaziarvi la fantasia negli usi di poetare, in che si esercitava sovente con lavorar canzoni, durando ancora il primo abito di comporre in italiana favella, ma sull'avvedimento di derivarvi idee luminose latine con la condotta de' migliori poeti toscani. Come sul panegirico tessuto a Pompeo Magno da Cicerone nell'orazion della legge Manilia, della quale non vi ha in tal genere orazione più grave in tutta la lingua latina, egli, ad imitazione delle <<tre sorelle>> del Petrarca, ordì un panegirico, diviso in tre canzoni, In lode dell'elettor Massimiliano di Baviera, le quali vanno nella Scelta de' poeti italiani del signor Lippi, stampata in Lucca l'anno 1709. Ed in quella del signor Acampora de' Poeti napoletani, stampata in Napoli l'anno 1701, va un'altra canzone nelle nozze della signora donna Ippolita Cantelmi de' duchi di Popolis con don Vincenzo Carafa duca di Bruzzano ed or principe di Roccella; la quale esso compose sul confronto del leggiadrissimo carme di Catullo Vesper adest, il quale poi leggé aver imitato innanzi Torquato Tasso con una pur canzone in simigliante subietto, e 'l Vico godé non averne prima avuto contezza, tra per la riverenza di un tale e tanto poeta, e perché, ove avesse saputo che era stato già prevenuto, non arebbe osato né goduto di lavorarla. Oltre a queste sull'idea dell'<<anno massimo>> di Platone, sopra la quale aveva steso Virgilio la dottissima ecloga Sicelides musae, compose il Vico un'altra canzone nelle nozze del signor duca di Baviera con Teresa real di Polonia, la quale va nel primo tomo della Scelta de' poeti napoletani del signor Albano, stampata in Napoli l'anno 1723.

 



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