Autobiografia di G.B. Vico - Cap. I Autobiografia di G.B. Vico - Cap. II
Autobiografia di G.B. Vico - Cap. III Autobiografia di G.B. Vico - Cap. IV
Autobiografia di G.B. Vico - Cap. V Autobiografia di G.B. Vico - Cap. VI
Autobiografia di G.B. Vico - Cap. VII Autobiografia di G.B. Vico - Cap. VIII
Il pensiero filosofico di Giambattista Vico

Autobiografia di Giambattista Vico
Cap. VIII

 

Frattanto la Scienza nuova si era già fatta celebre per l'Italia, e particolarmente in Venezia, il cui signor residente in Napoli di quel tempo avevasi ritirato tutti gli esemplari ch'erano rimasti a Felice Mosca, che l'aveva stampata, con ingiognergli che quanti ne potesse più avere, tutti gli portasse da essolui, per le molte richieste che ne aveva da quella città, laonde in tre anni era divenuta sì rada che un libretto di dodici fogli in dodicesimo fu comperato da molti due scudi ed ancor di vantaggio; quando finalmente il Vico riseppe che nella posta, la qual non solea frequentare, erano lettere a lui indiritte. Di queste una fu del padre Carlo Lodoli de' Minori osservanti, teologo della serenissima repubblica di Venezia, che gli avea scritto in data de' 15 di gennaio 1728, la qual si era nella posta trattenuta presso a sette ordinari. Con tal lettera egli lo invitava alla ristampa di cotal libro in Venezia nel seguente tenore:

<<Qui in Venezia con indicibil applauso corre per le mani de' valentuomini il di lei profondissimo libro de' Princìpi di una Scienza nuova d'intorno alla natura delle nazioni, e più che 'l van leggendo, più entrano in ammirazione e stima della vostra mente che l'ha composto. Con le lodi e col discorso andandosi sempre più diffondendo la fama, viene più ricercato, e, non trovandosene per città, se ne fa venire da Napoli qualch'esemplare; ma, riuscendo ciò troppo incomodo per la lontananza, son entrati in deliberazione alcuni di farla ristampar in Venezia. Concorrendo ancor io con tal parere, mi è parso proprio di prenderne innanzi lingua da Vostra Signoria, che è l'autore, prima per sapere se questo le fosse a grado, poi per veder ancora se avesse alcuna cosa da aggiungere o da mutare, e se compiacer si volesse benignamente comunicarmelo.>>

Avvalorò il padre cotal sua richiesta con altra acclusa alla sua del signor abate Antonio Conti, nobile veneto, gran metafisico e mattematico, ricco di riposta erudizione e per gli viaggi letterari salito in alta stima di letteratura appo il Newton, il Leibnizio ed altri primi dotti della nostra età, e per la sua tragedia del Cesare famoso nell'ltalia, nella Francia, nell'lnghilterra. Il quale, con cortesia eguale a cotanta nobiltà, dottrina ed erudizione, in data degli 3 di gennaio 1728 così gli scrisse:

Non poteva Vostra Signoria illustrissima ritrovare un corrispondente più versato in ogni genere di studi e più autorevole co' librari di quel che sia il reverendissimo padre Lodoli, che le offre di far stampare il libro dei Princìpi di una Scienza nuova. Son io stato un de' primi a leggerlo, a gustarlo e a farlo gustare agli amici miei, i quali concordemente convengono che dell'italiana favella non abbiamo un libro che contenga più cose erudite e filosofiche, e queste tutte originali della spezie loro. lo ne ho mandato un picciolo estratto in Francia per far conoscere a' francesi che molto può aggiungersi o molto correggersi sull'idee della cronologia e mitologia, non meno che della morale e della iurisprudenza, sulla quale hanno tanto studiato. Gl'inglesi saranno obligati a confessare lo stesso quando vedranno il libro; ma bisogna renderlo più universale con la stampa e con la comodità del carattere. Vostra Signoria illustrissima è a tempo di aggiungervi tutto quello stima più a proposito, sia per accrescere l'erudizione e la dottrina, sia per sviluppare certe idee compendiosamente accennate. lo la consiglierei a mettere alla testa del libro una prefazione ch'esponesse i vari princìpi delle varie materie che tratta e 'l sistema armonico che da essi risulta, sino ad estendersi alle cose future, che tutte dipendono dalle leggi di quell'istoria eterna, della qual è così sublime e così feconda l'idea che ne ha assegnata.>>

L'altra lettera, che giaceva pur alla posta, era del signor conte Gian Artico di Porcìa da noi sopra lodato, che da' 14 dicembre 1727 li aveva così scritto:

<<Mi assicura il padre Lodoli (che col signor abate Conti riverisce Vostra Signoria e l'un l'altro l'accertano della stima ben grande che fanno della di lei virtù) che ritroverà chi stampi la di lei ammirabile opera de' Princìpi della Scienza nuova. Se Vostra Signoria volesse aggiungervi qualche cosa, è in pienissima libertà di farlo.

Insomma Vostra Signoria ha ora un campo di poter dilatarsi in tal libro, in cui gli uomini scienziati affermano di capire da esso molto più di quello si vede espresso e 'l considerano come capo d'opera. Io me ne congratulo con Vostra Signoria, e l'assicuro che ne ho un piacer infinito, vedendo che finalmente produzioni di spirito del nerbo e del fondo di che sono le sue vengon a qualche ora conosciute, e che ad esse non manca fortuna quando non mancano leggitori di discernimento e di mente.>>

A' gentil inviti ed autorevoli conforti di tali e tanti uomini si credette obbligato di acconsentir a cotal ristampa e di scrivervi l'annotazioni ed aggiunte. E dentro il tempo stesso che giugnessero in Venezia le prime risposte del Vico, perché, per la cagion sopra detta, avevano di troppo tardato, il signor abate Antonio Conti, per una particolar affezione inverso del Vico e le sue cose, l'onorò di quest'altra lettera in data de' 10 marzo 1728: <<Scrissi due mesi fa una lettera a Vostra Signoria illustrissima, che le sarà capitata, unita ad un'altra del reverendissimo padre Lodoli. Non avendo veduto alcuna risposta, ardisco d'incomodarla di nuovo, premendomi solamente che Vostra Signoria illustrissima sappia quanto io l'amiro e desidero di profittare de' lumi che Ella abbondantemente sparse nel suo Principio d 'una Nuova Scienza. Appena ritornato di Francia, io lo lessi con sommo piacere, e mi riuscirono le scoperte critiche, istoriche e morali non meno nuove che istruttive. Alcuni vogliono intraprendere la ristampa del medesimo libro ed imprimerlo con carattere più commodo ed in forma più acconcia. Il padre Lodoli aveva questo disegno, e mi disse d'averne a Vostra Signoria illustrissima scritto per suplicarla ad aggiungervi altre disertazioni su la stessa materia o illustrazione de' capitoli del libro stesso, se per aventura ne avesse fatte. Il signor conte di Porcìa mandò allo stesso padre Lodoli la Vita che Ella di se stessa compose, e contiene varie erudizioni spettanti al progresso del sistema istorico e critico stabilito negli altri suoi libri. Quest'edizione è molto desiderata, e molti francesi, a' quali ho data una compendiosa idea del libro istesso, la chiedono con premura. Presso a due anni, prima avvenne che il signor conte di Porcìa, in una occasione la qual non fa qui mestieri narrare, gli scrisse ch'esso voleva stampar un suo Progetto a' signori letterati d 'Italia più distinti o per l'opere date alla luce delle stampe o più chiari per rinomea d'erudizione e dottrina, come si è sopra pur detto, di scriver essi le loro Vite letterarie sopra una tal sua idea con la quale se ne promuovesse un altro metodo più accertato e più efficace da profittare nel corso de' suoi studi la gioventù, e di volervi aggiugnere la sua per saggio, che egli gli aveva di già mandata, perché, delle molte che già glien'erano pervenute in potere, questa sembravagli come di getto caduta sulla forma del suo disegno. Quindi il Vico, il qual aveva creduto ch'esso la stampasse con le Vite di tutti ed in mandandogliela aveva professato che si recava a sommo onore d'esser l'ultimo di tutti in sì gloriosa raccolta, si diede a tutto potere a scongiurarlo che nol facesse a niun patto nel mondo, perché né esso conseguirebbe il suo fine ed il Vico senza sua colpa sarebbe oppresso dall'invidia. Ma, con tutto ciò, essendosi il signor conte fermo in tal suo proponimento, il Vico, oltre di essersene protestato da Roma per una via del signor abate Giuseppe Luigi Esperti, se ne protestò altresì da Venezia per altra di esso padre Lodoli, il qual aveva egli saputo da esso signor conte che vi promoveva la stampa e del di lui Progetto e della Vita di esso Vico; come il padre Calogerà, che l'ha stampato nel primo tomo della sua Raccolta degli opuscoli eruditi, l'ha pubblicato al mondo in una lettera al signor Vallisnieri, che vi tien luogo di prefazione; il quale quanto in ciò ha favorito il Vico, tanto dispiacer gli ha fatto lo stampatore, il quale con tanti errori anco ne' luoghi sostanziali n'ha strappazzato la stampa. Or nel fine del catalogo delle opere del Vico, che va in piedi di essa Vita, si è con le stampe pubblicato: <<Princìpi d'una scienza nuova d'intorno alla natura delle nazioni, che si ristampano con 1'Annotazioni dell'autore in Venezia>>.

Di più, dentro il medesimo tempo avvenne che d'intorno alla Scienza nuova gli fu fatta una vile impostura, la quale sta ricevuta tra le Novelle letterarie degli <<Atti di Lipsia>> del mese di agosto dell'anno 1727. La qual tace il titolo del libro, ch'è il principal dovere de' novellieri letterari (perocché dice solamente <<Scienza nuova>>, né spiega dintorno a qual materia); falsa la forma del libro, che dice esser in ottavo (la qual è in dodicesimo); mentisce l'autore e dice che un lor amico italiano gli accerta che sia un abate>> di casa Vico (il qual è padre e per figliuoli e figliuole ancor avolo); narra che vi tratta un sistema o piuttosto <<favole>> del diritto naturale (né distingue quel delle genti, che ivi ragiona, da quel de' filosofi che ragionano i nostri morali teologi, e come se questa fusse la materia della Scienza nuova, quando egli n'è un corollario); ragguaglia dedursi da princìpi altri da quelli da' quali han soluto finor i filosofi (nello che, non volendo, confessa la verità, perché non sarebbe <<scienza nuova>> quella dalla quale si deducono tai prìncipi); il nota che sia acconcio al gusto della Chiesa catolica romana (come se l'esser fondato sulla provvedenza divina non fusse di tutta la religion cristiana, anzi di ogni religione: nello che ed egli si accusa o epicureo o spinosista, e, 'n vece d'un'accusa, dà la più bella lode, ch'è quella d'esser pio, all'auttore); osserva che molto vi si travaglia ad impugnare le dottrine di Grozio e di Pufendorfio (e tace il Seldeno, che fu il terzo principe di tal dottrina, forse perch'egli era dotto di lingua ebrea); giudica che compiaccia più all'ingegno che alla verità (quivi il Vico fa una digressione, ove tratta degli più profondi princìpi dell'ingegno, del riso e de' detti acuti ed arguti: che l'ingegno sempre si ravvolge dintorno al vero ed è 'l padre de' detti acuti, e che la fantasia debole è la madre dell'argutezze, e pruova che la natura dei derisori sia più che umana, di bestia); racconta che l'autore manca sotto la lunga mole delle sue congetture (e nello stesso tempo confessa esser lunga la mole delle di lui congetture), e che vi lavora con la sua nuova arte critica sopra gli autori delle nazioni (tralle quali appena dopo un mille anni provenendovi gli scrittori, non può ella usarne l'autorità); finalmente conchiude che da essi italiani più con tedio che con applausi era ricevuta quell'opera (la qual dentro tre anni dalla sua stampa si era fatta rarissima per l'Italia e se alcuna se ne ritruovava, comperavasi a carissimo prezzo, come si è sopra narrato; ed un italiano con empia bugia informò i signori letterati protestanti di Lipsia che a tutta la sua nazione dispiaceva un libro che contiene dottrina catolica!). Il Vico con un libricciuolo in dodicesimo, intitolato: Notae in <<Acta lipsiensia>>, vi dovette rispondere nel tempo che, per un'ulcera gangrenosa fattagli nella gola (perché in tal tempo n'ebbe la notizia), egli, essendo vecchio di sessant'anni, fu costretto dal signor Domenico Vitolo, dottissimo e costumatissimo medico, d'abbandonarsi al pericoloso rimedio de' fumi del cinabro, il qual anco a' giovani, se per disgrazia tocca i nervi, porta l'apoplesia. Per molti e rilevanti riguardi, chiama l'orditore di tale impostura a vagabondo sconosciuto>>. Penetra nel fondo di tal laida calonnia e pruova lui averla così tramata per cinque fini: il primo per far cosa che dispiacesse all'auttore; il secondo per rendere i letterati lipsiensi neghittosi di ricercare un libro vano, falso, catolico, d'un auttor sconosciuto; il terzo, se ne venisse lor il talento, col tacere e falsare il titolo, la forma e la condizion dell'auttore, difficilmente il potessero ritruovare; il quarto, se pur mai il truovassero, da tante altre circostanze vere la stimassero opera d'altro auttore; il quinto per seguitare d'esser creduto buon amico da que' signori tedeschi. Tratta i signori giornalisti di Lipsia con civiltà, come si dee con un ordine di letterati uomini d'un'intiera famosa nazione, e gli ammonisce che si guardino per l'avvenire di un tal amico, che rovina coloro co' quali celebra l'amicizia e gli ha messi dentro due pessime circostanze: una, di accusarsi che mettono ne' loro <<Atti>> i rapporti e i giudizi de' libri senza vedergli; l'altra, di giudicare d'un'opera medesima con giudizi tra loro affatto contrari. Fa una grave esortazione a costui, che, poiché peggio tratta con gli amici che co' nimici ed è falso infamatore della nazion sua e vil traditore delle nazioni straniere, esca dal mondo degli uomini e vada a vivere tralle fiere ne' diserti dell'Affrica. Aveva destinato mandare in Lipsia un esemplare con la seguente lettera al signor Burcardo Menckenio, capo di quella assemblea, primo ministro del presente re di Polonia:

<<Praeclarissimo eruditorum lipsiensium collegio eiusque praefecto excellentissimo viro BURCARDO MENCKENIO, IOHANNES BAPTISTA VICUS s. d.

Satis graviter quidem indolui quod mea infelicitas vos quoque, clarissimi viri, in eam adversam fortunam pertraxisset, ut, a vestro simulato amico italo decepti, omnia vana, falsa, iniqua de me meoque libro cui titulus Princìpi d'una Scienza nuova dintorno all'umanità delle nazioni, in vestra eruditorum acta>> referretis; sed dolorem ea mihi consolatio lenivit quod sua naturae sponte ita res nasceretur ut per vestram ipsorum innocentiam, magnanimitatem et bonam fidem, istius malitiam, invidiam perfidiamque punirem; et hic perexiguus liber, quem sd vos mitto, una opera et illius delicta et poenas et ipsas vestras civiles virtutes earumque laudes complecteretur. Cum itaque has Notas bona magnaque ex parte vestra eruditi nominis caussa evulgaverim, eas nedum nullius offensionzs sed multae mihi vobiscum ineundae gratiae occasionem esse daturas spero, tecumque in primis excellentissime Burcarde Menckeni, qui praestantissimae eruditionis merito in isto praeclarissimo eruditorum collegio principem locum obtines. Bene agite plurimum. Dabam Neapoli, XIV kal. novembris anno MDCCXXIX.>>

La qual lettera, quantunque, come si vede, fusse condotta con tutta onorevolezza, però, riflettendo che pur così avrebbe come di faccia a faccia ripreso que' letterati di grandi mancanze nel lor ufizio, e che essi, i quali attendono a far incetta de' libri ch'escono nell'Europa tuttodì dalle stampe, devono sapere principalmente quelli che lor appartengono, per propia gentilezza si ristò di mandare.

Or, per ritornare onde uscì tal ragionamento, dovendo il Vico risponder a' signori giornalisti lipsiani, perché nella risposta gli bisognava far menzione della ristampa che si promoveva di tal suo libro in Venezia, ne scrisse al padre Lodoli per averne il permesso (com'infatti nel riportò); onde nella sua risposta di nuovo con le stampe si pubblicò che i Princìpi della Scienza nuova con le annotazioni di esso autore erano ristampati in Venezia.

E quivi stampatori veneziani sotto maschere di letterati, per lo Gessari e 'l Mosca, l'un libraio, l'altro stampatore napoletani, gli avevano fatto richiedere di tutte l'opere sue, e stampate e inedite, descritte in cotal catalogo, di che volevan adornare i loro musei, com'essi dicevano, ma in fatti per istamparle in un corpo, con la speranza che la Scienza nuova l'arebbe dato facile smaltimento. A' quali per far loro vedere che gli conosceva quali essi erano, il Vico fece intendere che di tutte le deboli opere del suo affannato ingegno arebbe voluto che sola fusse restata al mondo la Scienza nuova, ch'essi potevano sapere che si ristampava in Venezia. Anzi, per una sua generosità, volendo assicurare anco dopo la sua morte lo stampatore di cotal ristampa, offerì al padre Lodoli un suo manoscritto di presso a cinquecento fogli, nel qual era il Vico andato cercando questi Princìpi per via negativa, dal quale se n'arebbe potuto di molto accrescere il libro della Scienza nuova, che 'l signor don Giulio Torno, canonico e dottissimo teologo di questa chiesa napoletana, per una sua altezza d'animo con cui guarda le cose del Vico, voleva far qui stampare con alquanti associati, ma lo stesso Vico priegandolo nel rimosse, avendo di già truovati questi Princìpi per la via positiva.

Finalmente dentro il mese d'ottobre dell'anno 1729 pervenne in Venezia, ricapitato al padre Lodoli, il compimento delle correzioni al libro stampato e dell'annotazioni e commenti, che fanno un manoscritto di presso a trecento fogli.

Or, ritruovandosi pubblicato con le stampe ben due volte che la Scienza nuova si ristampava con l'aggiunte in Venezia, ed essendo colà pervenuto tutto il manoscritto, colui che faceva la mercatanzia di cotal ristampa uscì a trattar col Vico come con uomo che dovesse necessariamente farla ivi stampare. Per la qual cosa, entrato il Vico in un punto di propia stima, richiamò indietro tutto il suo ch'avea colà mandato; la qual restituzione fu fatta finalmente dopo sei mesi, ch'era già stampato più della mettà di quest'opera. E perché, per le testé narrate cagioni, l'opera non ritruovava stampatore né qui in Napoli né altrove che la stampasse a sue spese, il Vico si die' a meditarne un'altra condotta, la qual è forse la propia che doveva ella avere, che senza questa necessità non arebbe altrimente pensato, che, col confronto del libro innanzi stampato apertamente si scorge esser, dall'altra che aveva tenuto, a tutto cielo diversa. Ed in questa tutto ciò che nell'Annotazioni, per seguire il filo di quell'opera, distratto leggevasi e dissipato, ora con assai molto di nuovo aggiunto si osserva con uno spirito comporsi e reggere con uno spirito, con tal forza di ordine (il quale, oltre all'altra ch'è la propietà dello spiegarsi, è una principal cagione della brevità) che 'l libro di già stampato e 'l manoscritto non vi sono cresciuti che solo tre altri fogli di più. Dello che si può far spenenza, come, per cagion d'esempio, sulle propietà del diritto natural delle genti, delle quali col primo metodo nel capo I, [[section]] VII ragionò presso a sei fogli, ed in questa ne discorre con pochi versi.

Ma fu dal Vico lasciato intiero il libro prima stampato per tre luoghi de' quali si truovò pienamente soddisfatto, per gli quali tre luoghi principalmente è necessario il libro della Scienza nuova la prima volta stampato, del quale intende parlare allorché cita la <<Scienza nuova>> o pure <<l'opera con l'Annotazioni>>, a differenza di quanto cita <<altra opera sua>>, che intende per gli tre libri del Diritto universale. Laonde o essa Scienza nuova prima, ove si faccia altra ristampa della seconda, deve stamparlesi appresso, o almeno per non fargli disiderare, vi si devono stampare detti tre luoghi. Anzi, acciocché nemmeno si disiderassero i libri del Diritto universale, de' quali assai meno della Scienza nuova prima, siccome d'un abbozzo di quella, il Vico era contento, e gli stimava solamente necessari per gli due luoghi:--uno della favola d'intorno alla legge delle XII Tavole venuta d'Atene, l'altra d'intorno alla favola della Legge regia di Triboniano,--anco li rapportò in due Ragionamentt, con più unità e maggior nerbo trattati. I quali due sono di quelli errori che 'l signor Giovanni Clerico, nella <<Biblioteca antica e moderna>>, in rapportando que' libri, dice che <<in un gran numero di materie vi si emendano quantità d'errori volgari, a' quali uomini intendentissimi non hanno punto avvertiton.

Né già questo dee sembrar fasto a taluni: che il Vico, non contento de' vantaggiosi giudizi da tali uomini dati alle sue opere, dopo le disappruovi e ne faccia rifiuto, perché questo è argomento della somma venerazione e stima che egli fa di tali uomini anzi che no. Imperciocché i rozzi ed orgogliosi scrittori sostengono le lor opere anche contro le giuste accuse e ragionevoli ammende d'altrui; altri che, per avventura, sono di cuor picciolo, s'empiono de' favorevoli giudizi dati alle loro e, per quelli stessi, non più s'avvanzano a perfezionarle. Ma al Vico le lodi degli uomini grandi ingrandirono l'animo di correggere, supplire ed anco in miglior forma di cangiar questa sua. Così condanna le Annotazioni, le quali per la via niegativa andavano truovando questi Princìpi, perocché quella fa le sue pruove per isconcezze, assurdi, impossibilità, le quali, co' loro brutti aspetti, amareggiano più tosto che pascono l'intendimento, al quale la via positiva si fa sentire soave, ché gli rappresenta l'acconcio, il convenevole, l'uniforme, che fanno la bellezza del vero, del quale unicamente si diletta e pasce la mente umana. Gli dispiacciono i libri del Diritto universale, perché in quelli dalla mente di Platone ed altri chiari filosofi tentava di scendere nelle menti balorde e scempie degli autori della gentilità, quando doveva tener il cammino tutto contrario; onde ivi prese errore in alquante materie. Nella Scienza nuova prima, se non nelle materie, errò certamente nell'ordine, perché trattò de' princìpi dell'idee divisamente da' princìpi delle lingue, ch'erano per natura tra lor uniti, e pur divisamente dagli uni e dagli altri ragionò del metodo con cui si conducessero le materie di questa Scienza, le quali, con altro metodo, dovevano fil filo uscire da entrambi i detti princìpi: onde vi avvennero molti errori nell'ordine.

Tutto ciò fu nella Scienza nuova seconda emendato. Ma il brevissimo tempo, dentro il qual il Vico fu costretto di meditar e scrivere quasi sotto il torchio, quest'opera, con un estro quasi fatale, il quale lo strascino a sì prestamente meditarla ed a scrivere, che l'incominciò la mattina del santo Natale e finì ad ore ventuna della domenica di Pasqua di Resurrezione;--e pure, dopo essersi stampato più della mettà di quest'opera, un ultimo emergente, anco natogli da Venezia, lo costrinse di cangiare quarantatré fogli dello stampato, che contenevano una Novella letteraria (dove intiere e fil filo si rapportavano tutte le lettere e del padre Lodoli e sue d'intorno a cotal affare con le riflessioni che vi convenivano) e, 'n suo luogo, proporre la dipintura al frontispizio di quei libri, e della di lei Spiegazione scrivere altrettanti fogli che empiessero il vuoto di quel picciol volume;--di più, un lungo grave malore contratto dall'epidemia del catarro, ch'allora scorse tutta l'Italia, --e finalmente la solitudine nella quale il Vico vive:--tutte queste cagioni non gli permisero d'usare la diligenza, la qual dee perdersi nel lavorare d'intorno ad argomenti c'hanno della grandezza perocch'ella è una minuta e, perché minuta, anco tarda virtù. Per tutto Ciò non poté avvertire ad alcune espressioni che dovevano o turbate, ordinarsi o, abbozzate, polirsi o, corte, più dilungarsi né ad una gran folla di numeri poetici, che si deon schifar nella prosa; né finalmente ad alquanti trasporti di memoria, i quali però non sono stati ch'errori di vocaboli, che di nulla han nuociuto all'intendimento. Quindi nel fine di quei libri, con le Annotazioni prime insieme con le correzioni degli errori anco della stampa (che, per le suddette cagioni, dovettero accadervi moltissimi), die' con le lettere M ed A i miglioramenti e l'aggiunte; e sieguitò a farlo con le Annotazioni seconde, le quali, pochi giorni dopo esser uscita alla luce quell'opera, vi scrisse con l'occasione che 'l signor don Francesco Spinelli principe di Scalea, sublime filosofo e di colta erudizione particolarmente greca adornato, lo aveva fatto accorto dl tre errori, i quali aveva osservato nello scorrere in tre dì tutta l'opera. Del qual benigno avviso il Vico gli professò generosamente le grazie nella seguente lettera stampata, ivi aggiunta, con cui tacitamente invitò altri dotti uomini a far il medesimo, perché arebbe con grado ricevuto le lor ammende:

<<Io debbo infinite grazie a Vostra Eccellenza, perocché, appena dopo tre giorni che le feci per un mio figliuolo presentar umilmente un esemplare della Scienza nuova ultimamente stampata, Ella, tolto il tempo che preziosamente spende o in sublimi meditazioni filosofiche o in lezioni di gravissimi scrittori particolarmente greci, l'aveva già tutta letta: che per la maravigliosa acutezza del vostro ingegno e per l'alta comprensione del vostro intendimento, tanto egli è stato averla quasi ad un fiato scorsa quanto averla fin al midollo penetrata e 'n tutta la sua estensione compresa. E, passando sotto un modesto silenzio i vantaggiosi giudizi ch'Ella ne diede per un'altezza d'animo propia del vostro alto stato, io mi professo sommamente dalla vostra bontà favorito, perocché Ella si degnò ancor di mostrarmene i seguenti luoghi, ne' quali aveva osservato alcuni errori che Vostra Eccellenza mi consolava essere stati trascorsi di memoria, i quali di nulla nuocevano al proposito delle materie che si trattano, ove son essi avvenuti.>>

Il primo è a p. 313, V. 19, ove io fo Briseide propia d'Agamennone e Criseide d'Achille, e che quegli avesse comandato restituirsi la Criseide a Crise di lei padre, sacerdote di Apollo, che perciò faceva scempio del greco esercito con la peste, e che questi non avesse voluto ubidire; il qual fatto da Omero si narra tutto contrario. Ma cotal error da noi preso era in fatti, senz'avvedercene, un'emenda d'Omero nella parte importantissima del costume: che anzi Achille non avesse voluto ubidire, e che Agamennone per la salvezza dell'esercito l'avesse comandato. Ma Omero in ciò veramente serbò il decoro, che, quale l'aveva fatto saggio, tale finse il suo capitano anco forte, che, avendo renduto Criseide come per forza fattagli da Achille, e stimando esserglici andato del punto suo, per rimettersi in onore tolse ingiustamente ad Achille la sua Briseide, col qual fatto andò a rovinare un'altra gran parte de' greci: talché egli nell'Iliade vien a cantare uno stoltissimo capitano. Laonde cotal nostro errore ci nuoceva veramente in ciò: che non ci aveva fatto vedere quest'altra gran pruova della sapienza del finora creduto, che ci confermava la discoverta del vero Omero. Né pertanto Achille, che Omero con l'aggiunto perpetuo d'<<irreprensibile>> canta a' popoli della Grecia in esemplo dell'eroica virtù, egli entra nell'idea dell'eroe quale 'l diffiniscono i dotti, perché, quantunque fusse giusto il dolor d'Achille, però--dipartendosi con le sue genti dal campo e con le sue navi dalla comun'armata, fa quell'empio voto: ch'Ettorre disfacesse il resto de' greci ch'erano dalla peste campati, e gode esaudirsi (siccome, nel ragionando insieme di queste cose, Vostra Eccellenza mi soggiunge quel luogo dove Achille con Patroclo desidera che morissero tutti i greci e troiani ed essi soli sopravivessero a quella guerra)--era la vendetta scelleratissima.

Il secondo errore è a pag. 314, V. 38, e pag. 315, V. 1, ove mi avvertiste che 'l Manlio, il qual serbò la ròcca del Campidoglio da' Galli, fu il Capitolino, dopo cui venne l'altro che si cognominò Torquato, il qual fece decapitar il figliuolo; e che non questi ma quegli, per aver voluto introdurre conto nuovo a pro della povera plebe, venuto in sospetto de' nobili che col favor popolare volesse farsi tiranno di Roma, condennato, funne fatto precipitare dal monte Tarpeo. Il qual trasporto di memoria sì che ci nuoceva in ciò: che ci aveva tolto questa vigorosa pruova dell'uniformità dello stato aristocratico di Roma antica e di Sparta, ove il valoroso e magnanimo re Agide, qual Manlio Capitolino di Lacedemone, per una stessa legge di conto nuovo, non già per alcuna legge agraria, e per un'altra testamentaria, fu fatto impiccare dagli efori.

Il terzo errore è nel fine del libro quinto, p. 445, V. 37, ove deve dir <<numantini>> (ché tali sono quivi da esso ragionamento circoscritti).

Per gli quali vostri benigni avvisi mi son dato a rilegger l'opera e vi ho scritto le correzioni, miglioramenti ed aggiunte seconde.

Le quali annotazioni prime e seconde, con altre poche ma importantissime, ch'è ito scrivendo interrottamente corne di tempo in tempo ragionava l'opera con amici, potranno incorporarlesi ne' luoghi ove sono chiamate, quando si ristampi la terza volta.

Mentre il Vico scriveva e stampava la Scienza nuova seconda, fu promosso al sommo pontificato il signor cardinal Corsini, al qual era stata la prima, essendo cardinale, dedicata, e si dovette a Sua Santità anco questa dedicarsi. Il quale, essendogli stata presentata, volle, come gli venne scritto, che 'l signor cardinale Neri Corsini, suo nipote, quando ringraziava l'autore dell'esemplare che questi, senza accompagnarlo con lettera, gli aveva mandato, gli rispondesse in suo nome con la seguente:

<<Molto illustre signore

L'opera di Vostra Signoria de' Principi di una Nuova Scienza aveva già esatto tutta la lode nella prima sua edizione da Nostro Signore, essendo allora cardinale; ed ora tornata alle stampe, accresciuta di maggiori lumi ed erudizione dal di lei chiaro ingegno, ha incontrato nel clementissimo animo di Sua Santità tutto il gradimento. Ho voluto dar a lei la consolazione di questa notizia nell'atto istesso che mi muovo a ringraziaría del libro fattomene presentare, del quale ho tutta la considerazione che merita, ed esibendole in ogni congiontura di suo servizio tutta la mia parzialità, prego Dio che la prosperi. Di Vostra Signoria

Roma, gennaio 1731 affez. sempre

N. CARD. CORSINI.>>

Colmato il Vico di tanto onore, non ebbe cosa al mondo più da sperare; onde per l'avvanzata età, logora da tante fatighe, afflitta da tante domestiche cure e tormentata da spasimosi dolori nelle cosce e nelle gambe e da uno stravagante male che gli ha divorato quasi tutti ciò ch'è al di dentro tra l'osso inferior della testa e 'l palato, rinnonziò affatto agli studi. Ed al padre Domenico Lodovici, incomparabile latin poeta elegiaco e di candidissimi costumi, donò il manoscritto delle annotazioni scritte alla Scienza nuova prima con la seguente iscrizione:

Al Tibullo cristiano - padre Domenico Lodovici - questi dell'infelice Scienza nuova - miseri - e per terra e per mare sbattuti- avvanzi- dalla continova tempestosa fortuna - aggitato ed afflitto - come ad ultimo sicuro porto - Giambattista Vico - lacero e stanco -finalmente ritragge.

Egli nel professare la sua facultà fu interessatissimo del profitto de' giovani, e, per disingannargli o non fargli cadere negl'inganni de' falsi dottori, nulla curò di contrarre l'inimicizie de' dotti di professione. Non ragionò mai delle cose dell'eloquenza se non in séguito della sapienza, dicendo che l'eloquenza altro non è che la sapienza che parla, e perciò la sua cattedra esser quella che doveva indirizzare gl'ingegni e fargli universali, e che l'altre attendevano alle parti, questa doveva insegnare l'intiero sapere, per cui le parti ben si corrispondan tra loro e ben s'intendan nel tutto. Onde d'ogni particolar materia dintorno al ben parlare discorreva talmente ch'ella fusse animata, come da uno spirito, da tutte quelle scienze ch'avevan con quella rapporto: ch'era ciò ch'aveva scritto nel libro De ratione studiorum, ch'un Platone, per cagione di chiarissimo esemplo, appo gli antichi era una nostra intiera Università di studi tutta in un sistema accordata. Talché ogni giorno ragionava con tal splendore e profondità di varia erudizione e dottrina, come se si fussero portati nella sua scuola chiari letterati stranieri ad udirlo. Egli peccò nella collera, della quale guardossi a tutto poter nello scrivere; ed in ciò confessava pubblicamente esser difettuoso: che con maniere troppo risentite inveiva contro o gli errori d'ingegno o di dottrina o 'l mal costume de' letterati suoi emoli, che doveva con cristiana carità e da vero filosofo o dissimulare o compatirgli. Però quanto fu acre contro coloro i quali proccuravano di scemargliele, tanto fu ossequioso inverso quelli che di esso e delle sue opere facevano giusta stima, i quali sempre furono i migliori e gli più dotti della città. De' mezzi o falsi, e gli uni e gli altri perché cattivi dotti, la parte più perduta il chiamava pazzo, o, con vocaboli alquanto più civili, il dicevano essere stravagante e d'idee singolari od oscuro. La parte più maliziosa l'oppresse con queste lodi: altri dicevano che 'l Vico era buono ad insegnar a' giovani dopo aver fatto tutto il corso de' loro studi, cioè quando erano stati da essi già resi appagati del lor sapere, come se fusse falso quel voto di Quintiliano, il qual desiderava ch'i figliuoli de' grandi, come Alessandro Magno, da bambini fussero messi in grembo agli Aristotili; altri s'avvanzavano ad una lode quanto più grande tanto più rovinosa: ch'egli valeva a dar buoni indirizzi ad essi maestri. Ma egli tutte queste avversità benediceva come occasioni per le quali esso, come a sua alta inespugnabil ròcca, si ritirava al tavolino per meditar e scriver altre opere, le quali chiamava <<generose vendette de' suoi detrattori>>; le quali finalmente il condussero a ritruovare la Scienza nuova. Dopo la quale, godendo vita, libertà ed onore, si teneva per più fortunato di Socrate, del quale, facendo menzione il buon Fedro, fece quel magnanimo voto:

Cuius non fugio mortem, si famam assequar,
et cedo invidiae, dummodo absolvar cinis.

 



Cilento Cultura
Ritorna alla Home Page