IL POETA PRECURSORE

di Francesco Pedrina

DE MARIA E  MARINETTI

Come siciliano, Federico De Maria è un portento. Per incominciare, in gioventù deve essere stato biondo (un "Lyon" appassionato e romantico) e ancor oggi ha occhi chiari a seconda dell'ora, del luogo, della momentanea euforia o fisica o sentimentale. Poi delle glorie isolane non riconosce e non inchina che le secolari e lontane. Per i contemporanei, benché già legato d'amicizia con Borgese e Pirandello ai tempi della goliardia spavalda, non à particolari culti e quanto al Rapisardi, suscitatore tra i conterranei di non ancor sopiti entusiasmi, si dolse in cuor suo, sinceramente, di vederlo anfanare per stringer nei suoi poemi cielo e terra, uomini e dei, ere passate e future, quando avrebbe dovuto confortare col buon volere e non deviare a pretese messianiche l'indubbio afflato lirico che è nelle giovanili Ricordanze e che riaffiora potente nelle tarde Poesie religiose e nell'Empedocle.

Ma dalla Sicilia, non ancora ventenne, anzi appena uscito di puerizia, Federico De Maria allargò lo sguardo a tutta Italia, e plaudì solo in parte ad Enotrio, e non tubò con Giovannino e non s 'imparadisò con Gabriele. Egli parve consumare in sé l'esperienza di tutti costoro e già a sedici anni, prima che uscissero le Laudi dannunziane, dava uno spontaneissimo e ancor oggi mirabile esempio di verso libero nel Canto dell'usignolo (1901).

Tutti, chi più chi meno, incomininciano imitatori: perfino i grandi. Tra i moderni, il Carducci si vantò scudiero dei classici, Pascoli e D'Annunzio mossero dapprima sulle orme  carducciane: De Maria, questo illustre ignoto per quarant'anni agli stessi compilatori di storie letterarie (e chi scrive fu, almeno per vent'anni, della schiera), fa un sol fascio di tutti, brucia le tappe, e precorre nettamente il Marinetti - il grande usurpatore - nell'auspicare una nuova poesia consona al dinamismo della vita moderna. La Fronda, la rivista nata sotto il segno di Federico De Maria, uscì a Palermo nel 1905; il Manifesto del Futurismo a Parigi nel 1909.

Nel primo numero de La Fronda si legge fra l'altro: « Da un pezzo suoniamo l'organino. Il bagaglio della poesia è sempre la chincaglieria vecchia di venticinque secoli che ogni tanto qualcuno è riuscito a spolverare e a ritingere. . . Possibile che i poeti d'Italia e di tutta la latinità ora non siano buoni che a frugare, rimestando, tra le morte ceneri della  tradizione? Siano allora buttate a mare queste tradizioni e queste glorie del passato, quando non servono che a incepparci invece d'esserci fari in un libero cammino, o diamo meglio uno sgambetto a tutti coloro i quali sanno metterci innanzi agli occhi che il passato, il passato, quest'eterno passato!».

LE TENDENZE PASSATISTE, PRESENTISTE  
AVVENIRISTE

E riprendendo  il tema due anni più tardi, con più ampio sguardo all’umanità in cammino verso le sue mete fatali:

«Che cosa è stata l’arte attraverso le ére, attraverso la vita dei popoli se non la fisionomia spirituale d’ogni epoca, la storia morale di ogni popolo ?.. Noi non camminiamo più coi lenti passi dell'evoluzione, ma procediamo, si può dire, di rivoluzione in rivoluzione. Ciò è dovuto ai mezzi di produzione, di scambio, di trasporto: al vapore e all'elettricità. L'età nostra è eminentemente meccanica: la macchina à mutato la nostra vita esteriore e in gran parte anche i sentimenti e gl'ideali...».

«La grande rinascita generale da tempo si disegna nell'aria torbida di avvenimenti. Le tre
tendenze: passatista, presentista e avvenerista, si incontrano ovunque, ove fuse, ove separate.
L'ultima, cui fu araldo Walt Withman, comincia ad avere la sua arte. Guardatela quest'arte
nuova, specialmente nell'architettura in cui già trionfa; guardate i grandi edifici che ci parlano
gia dell'avvenire le fabbriche gigantesche, i
quais e i doks anneriti dal fumo, grandi come
città, i palazzi a trenta piani dalle ossature di acciaio, i ponti inauditi sull'oceano, le torri che toccano le nuvole; edifici a stile semplice, che hanno la bellezza della forza e dell'utilità razionale.
Dissoluzione rielaborazione. L'antico uomo si dissolve, si dissolvono le antiche società. Tutto ciò che
fu cerchio chiuso, piccolo aggregato, si sfascia, si sfasciano le nazioni e gli stati; pochi decenni
ancora, forse, e assisteremo allo sfasciamento di potenze fondate su vecchi ordinamenti che
sembrano oggi di bronzo (1); pochi secoli forse, e non più nazioni, ma l'umanità, non più stati, ma il
mondo - e infine di nuovo l'Uomo.
»

«E' certo che a questa mèta noi muoviamo dal giorno che vide nascere la prima creatura
umana. Dalla libertà individuale, solitaria e minacciata da tutte le parti, de tempi preistorici, l'uomo mira alla libertà individuale in seno ai grandi aggregati; l'uomo partì libero dalle caverne per poter giungere libero poter giungere libero al palazzo col termosifone, con l'illuminazione elettrica e col garage
».

BISOGNO DI ARTE CHE RISPECCHI LA VITA

«.. Dateci oggi l'arte che rispecchi la vita, questa vita protesa verso l'avvenire: ogni opera d'arte deve essere come una pietra piccola o enorme, che viene aggiunta all'interminabile edificio della civiltà. Chi fa arte oggi, deve essere uomo d'oggi, figlio di questi due ultimi secoli ardenti di luce meravigliosa, fratello di coloro che han dato all'umanità il vapore, le macchine elettriche, il telefono senza fili e mille fulgide promesse per l'avvenire». ("La Fronda", 25 maggio 1905, "L'Ora",11 novembre 1907).

C'è da fregarsi gli occhi. Che cosa aggiunse Marinetti al suo Manifesto? Quasi si sarebbe tentati di rispondere: nient'altro che l'aeroplano, che nel frattempo cominciò a volare. Pareva furibondo d'ira sovvertitrice e scopiazzava! E della scopiazzatura si purgava con una letterina a De Maria: «Ti mando il Manifesto del futurismo, nel quale, come già ti scrissi, abbiamo riassunto tutte le nostre sparpagliate agitazioni demolitrici e innovatrici; ti prego accordargli la tua ampia adesione... Avanti, caro amico!». E' come riportare il figlio al padre e dirgli: «Vedi di volergli bene». Ma quel figlio era un poco sfigurato per eccesso di pose gladiatorie: nelle parole del De Maria c'era un equilibrio e un senso del futuro, non solo poetico, ma storico, che nel Manifesto, mancavano. Il Manifesto è oggi poco più di un documento, mentre nella pagine di F. De Maria si chiude una delle gradi profezie dell'età moderna.

Un altro iconoclasta a freddo s'incontro nei suoi giovani anni con De Maria: Massimo Bontempelli, il futuro banditore del "novecentismo" e del "realismo magico", e ci fece la figura del parruccone. Partito insalutato ospite da Palermo, inviò all'amico allora conosciuto un saluto nella odiata forma del sonetto: «Il sonetto che odii, o Federico, naviga a te con un sì dolce addio...», a cui De Maria rispose con le stesse rime, ma invitando a sua volta l'amico, se davvero si proponeva di cantare le bellezze della Conca d'Oro, di usare «il poema - che, libero nel ciel l'ampie ali stende; - e al palpito del vento ed al sorriso - dei campi e alla canzon del mar che trema - sa involare il sonoro impeto, e ascende». Il Bontempelli e tutti coloro che s'ostinavano a pensare che le varie forme metriche fossero preordinate dall'Eterno, o quasi, erano serviti: per De Maria, fin d'allora - e ne fece oggetto d'una conferenza pubblica, Prima esegesi del metro libero (1906)- il ritmo e il metro nascevano insieme con l'ispirazione poetica, onde la cosidetta libertà non era che intima adesione al motivo e sola vera disciplina artistica.

Dotato di un senso così intimamente innovatore, ma alieno dalle rodomontate reclamistiche, é chiaro che De Maria non poteva esser tirato fuori strada neppur da Marinetti. Aderì al futurismo; poi, quando questo s'inferocì a voler tutto stritolare, lo mandò al diavolo. Rivoluzionario, De Maria, ma pur memore del detto antico: "Est modus in rebus" e fedele a questa sua massima: "L'arte comporta freno e legge, anche quando questo freno e questa legge è l'artista stesso a crearseli e imporseli" (dalla citata conferenza, con la quale, ventunenne, reclamava un brevetto di priorità che non ha trovato ancora chi glielo registri).

LE NOZZE D'ORO CON LA MUSA

Un superatore consapevole, dunque, il De Maria e - quel che più conta - che non si é fatto mai superare. Tant'è vero che già consumate le nozze d'oro con la Musa (1901-1951), in Sillabe (ed. Berben, 1949) e in Incantesimo del Fuoco, testé uscito a Milano (ed. Corbaccio), egli mostra di procedere spedito, a fianco e in testa ai modernissimi con una continuità di evoluzione e di spiriti che rivela in lui un humus particolarmente fecondo alla germinazione spontanea del candido fiore della poesia.

Ma non precorriamo i tempi. C'è altro da dire, altro che deve essere conosciuto dal pubblico dei lettori. I quali sono convinti, nella stragrande maggioranza, che i siciliani facciano ai gomiti e pestino i calli per farsi ammirare in prima fila: e qui ne abbiamo uno che in prima fila avrebbe dovuto figurare spesso e poi non fu riconosciuto neanche nell'ultima. E lo strano si è che Federico De Maria è accolto nei circoli intellettuali d'oltr'alpe come uno dei pochi veri poeti d'Italia e ultimamente vi fu coronato (Grand Prix de la Mediteranèe, ottobre 1951). Ma in casa nostra le cose vanno altrimenti. Qui, ai primi vagiti, nei quali pur si chiude l'unica sua originalità poetica, Ungaretti fu illustre e sballottato dalla fama: De Maria, all'indomani d'ogni apparizione, posto sempre nel dimenticatoio. Oh se avesse collaborato con qualche scrittarello alla Voce o a Lacerba, e poi fosse rimasto in tronco, come una di quelle farfalle che non riescono a liberarsi interamente dal bozzolo! Nessuna storia letteraria avrebbe dimenticato quel suo primo malcerto batter di ali. Dal bozzolo invece F. De Maria è uscito d'impeto, con un solo colpo d'ala, precorrendo gli stessi "vociani", e fu di esempio ad altri a sbozzolarsi (oh, non ai soli Marinetti e Bontempelli!) e volò per mezzo secolo e vola ancora, ma se aprite il Momigliano e il Sapegno - per citare le storie letterarie che vanno per la maggiore - di De Maria non troverete traccia. Avvenne così ch'egli, non petulante, tacque spesso; e per decenni: finché la Musa lo traeva ancora a sé con le sue lusinghe, ed egli faceva riudire la sua voce e la gente plaudiva ("Premio Fusinato" 1932), per la raccolta La ritornata: poi di nuovo silenzio. Una singolare fatica di Sisifo.

Diede con Santa Maria della Spina (1911) uno dei primi esempi di romanzo psicologico, di scavo. Pochi anni dopo il romanzo riappariva sotto il nome di un altro autore: più che un plagiario, un miserabile ladruncolo. Un noto critico denunziò il furto, ma - ahimè! non avvertì lo "scavo". Si limitò a fare il poliziotto e si lasciò scappare l'occasione di rivelare agli italiani un'opera nuova, precorritrice di tanta parte della narrativa moderna che con Proust e Joyce fa del monologo interiore la sua insegna.

Uscirono nel 1939 le Liriche dei tempi (editore Reber), forse la più bella raccolta di liriche dopo le sillogi operate da commentatori del Carducci, Pascoli, D'Annunzio, e la gente non ebbe orecchie che per l'eco lugubre delle cannonate sparate in Polonia - Marte è un dio avverso a F. De Maria. Da ogni guerra se n'è uscito con le ossa "poeticamente" rotte (e non solo quelle); al contrario di certi altri vati che dalla guerra uscirono giganti e v'erano entrati pigmei. Umana sorte ! -

"L'UOMO CHE SALI' AL CIELO"

Nel '44 l'editore Montuoro stampava a Venezia un romanzo avventuroso e picaresco, Le avventure dei tre don Giovanni. Andò a ruba, con un tutto esaurito nel più breve lasso di tempo; ma De Maria, che non vide neppure le bozze, attende ancora il più distratto riconoscimento da parte della critica. Eppure il Don Giovanni demariano, moralizzatore e risparmiatore delle sue vittime, è personaggio nuovo e vitale: quasi si direbbe un autoritratto, perché De Maria ama la vita, anche le donne, ma ne sente la fragilità e ne compiange il destino doloroso.

La sorpresa più grossa è chiusa nell'Uomo che salì al cielo (ed. Le Monnier, 1939): una grandiosa fantasia drammatica in varii quadri, che, dopo un inizio pacato e non privo di sali amari, si leva a volo con tale un crescendo di liricità e di pathos umano da far ben sentire la presenza di un sovrano poeta. Pochi l'anno letta? E che perciò? Un bell'ingegno di Francia, Francis Geux Gastambide, l'ha tradotta nei primi mesi del 1953 nella scorsa estate fu rappresentata, in occasione del Festival International dramatique, alle Arènes de Lutèce di Parigi con grande successo. E meglio ancora se una grande casa cinematografica, ricca di mezzi, ne renderà popolare l'argomento fermato in scene che ora ànno l'intimità dei dolci convegni d'amore, ora lo aspro sapore dell'umanità affranta sotto la sferza di Caino, ora la grandiosità degli eventi decisivi della storia, quelli voluti da Dio, o della natura sorpresa nelle sue solitudini più vaste e arcane.

DALLE "CANZONI ROSSE" A "INCANTESIMO DEL FUOCO"


Questo excurcus tra polemico e rievocatore era necessario per avvivare i lineamenti di una fisionomia d'uomo e d'artista appannati anzi tempo da un oblio quasi inesplicabile, ove non si pensi a quelli che volgarmente si chiamano "scherzi della fama", sui quali meditava lo stesso Dante nel canto di Oderisi da Gubbio con un senso quasi tragico del travaglio dell'artista che vuoi lasciare un segno di sé nel tempo: " Oh vana gloria de l'umane posse ! - com' poco verde in su la cima dura, - se non è giunta da l'etati grosse!". E quasi dubitando del suo stesso nome di poeta presso i futuri: "Non il mondan rumore altro ch'un fiato - di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi, - e muta nome perchè muta lato" (Purg. Xl, vv. 91-93 e 100-102). Agli inizi del secolo Federico De Maria levava bella voce di sé e il giovane Pastonchi dedicava a lui poeta un elzeviro del Corriere della Sera: il vento spirava allora dalla Sicilia al continente; poi, almeno per De Maria, spirò in senso inverso e finì col mescolarsi al ghibli africano, senza più echi nella penisola se non a grandi intervalli.

Ma è ora di accostarsi al poeta e guardarlo nel complesso della sua produzione.

Ciò che più stupisce nello scorrere le varie raccolte di F. De Maria dalle prime Voci e Canzoni Rosse (1903 e 1905), alla Leggenda della vita (1909) e poi, a gran distanza, da La Ritornata (1932) all'Estate di San Martino (1935), da Liriche dei tempi (1939) a Sillabe (1949) e a Incantesimo del Fuoco (1952) - è la varietà dei motivi nella fedeltà per la limpida espressione, per la parola viva, per l'immagine o sbalzata nel bronzo o sfumata come un pastello; ed è meraviglia come Federico De Maria sappia fondere insieme in una stessa lirica, o in una breve successione di liriche, il tono alato e il tono conversevole, l'intimità confidente e lo slancio passionale, il pensiero torbido e il sogno trasvolante, il vento che squassa e "il gentil fiato d'aprile", il fiore odoroso e la saetta attossicata. E sorprendono poi certi balzi della fantasia, certi liberi voli fra orizzonti lontani e nel tempo e nello spazio, o la spontaneità impetuosa con cui il poeta si cala in un antico mito per trarne una superba figurazione dell'anelito della sua anima d'uomo moderno. Alludiamo specialmente a Io, Ulisse, la lirica che più d'ogni altra forse dà la misura della sua vocazione apollinea. E davanti ad un mondo lirico che non conosce involuzioni e fratture e già fin dagli inizi à un timbro suo, inconfondibile, non è tanto da parlare, come pur noi abbiamo fatto, di una perenne evoluzione di spiriti e di forme che farebbe di F. De Maria, per più decenni, un "precursore di atteggiamenti,di sensibilità, di metrica" (R. R. Petitto), ma corre l'obbligo di essere più precisi e dire che il giovane animatore della Fronda si acquisto d'un balzo tale originalità e prese
tanto vantaggio, precorrendo il gusto poetico moderno, che di quel vantaggio egli oggi vive ancora. E in vero reazione alla grande triade - Carducci-Pascoli-D'Annunzio in liriche or meditative or "frammentistiche", ora in forma di monologhi drammatici, spesso su toni bassi e "discorsivi" nettamente antitradizionali, De Maria precorse i "vociani", precorse i "crepuscolari", ma non fu interamente vociano né interamente crepuscolare, ma soltanto lui, raggiungendo in versi liberi, e talora liberissimi, quel "limite dell'ideale" di cui parla il De Sanctis e che, per esser tale, non è superabile. Qualche esempio che ci permetta di penetrare più da vicino nei segreti dell'arte del poeta palermitano, di affacciarsi al suo spirito e insieme di ammirarne la scioltezza formale, quella spontaneità di getto che dalle prime prove non à mai conosciuto intoppi.

MALINCONIA D'UN TRAMONTO

Ecco Malinconia d'un tramonto. E' fra le poesie intimistiche dei diciannove anni in versi liberi assai bene orchestrati, su netta prevalenza del novenario:

Che voli di rondini in cielo!
S’inseguono a stormi, trillando
attorno ai comignoli, agli alti
abbaini ove l’ultima luce
ancora tremola: qualcuna
-
solitaria - intesse i suoi
ratti voli, incerta, con brevi
suoi zirli chiamando. Lontano,
a sciami, come moscerini,
brulicano nell’oro effuso
del crepuscolo. A l’oriente
s’affaccia la sera sul queto
specchio del mar che si dislaga
oltre il porto, candido come
latte, venato di turchino.
L’orizzonte sbadiglia nebbie
e il cielo s’imbruna. Le file
dei platani verdi ed inerti
dilungansi a perdita d’occhio
per l’ampio viale. Le cose
si tacciono tutte: è nell’aria
come uno stupor religioso.
Quel pescatore che ritorna
a riva nella sua barchetta
remeggiando tacitamente
pare lontanissimo. Quella
carrozza che brontola a pena
scorrendo sul lastrico, pare
lontanissima. Io stesso sento
ora qualche cosa di me
assai lontana. Uniche voci
nell’immensa torpida calma,
le rondini passan trillando;
monotona e fioca una stanca
campana lontana lontana
s'affanna, s’affanna a sonare...

Dove si coglie la propensione, già abbastanza frequente nel De Maria giovane e poi predominante nella aurea stagione di Sillabe (1949) a staccarsi da sé, dalla propria vita e contemplarsi con attonito distacco. E quando, come in questo caso, il poeta è in uno stato d'animo che possiamo dire contemplativo e non resta soggetto alla passione in atto (amore e lussuria; orgoglio), le parole gli obbediscono con docilità, la tecnica del verso libero è pienamente posseduta, ed egli ha un segno ugualmente fermo nel dire le sue malinconie complesse e mutevoli, le sue tristezze, i suoi dissidi, o, al contrario, le sue fiducie ed i suoi impulsi volitivi, fidenti, talora quasi "eroici". Ambedue le facce, insomma, del contrasto romantico che anima tutta l'arte sua. E quanto alle malinconie, va subito notato come il De Maria si differenzi dai crepuscolari: in lui la mestizia e lo scontento di sé, quando sorgono, non s'aggrappano né alle piccole cose né all'ironia; non si semioccultano, e spesso tendono, anzi, ad attingere una loro solennità. Egli non si vergogna, parlandone in sordina, de' suoi sentimenti, non si vergogna della impetuosità o della contraddittorietà della sua vita passionale, bensì ne ha, in certo modo, il culto. Figura che, per questo lato, potrebbe immaginarsi, senza stonatura, nell'epoca prima del maturo romanticismo, ai tempi dei Byron, degli Hugo, dei Lamartine, dei Manzoni, dei Vigny...: ma che nello stesso tempo aderisce con fervido interesse alle vicende del tempo suo, precorre le sue nuove tecniche, segna la strada, come si è visto, a Marinetti, e da ultimo, con pessimismo virile, si colloca fra gli esponenti della lirica meditativa e di scavo.

IL "GIOBBE"

Poiché, se il giovane poeta delle Canzoni Rosse, in Malinconia d'un tramonto s'appoggia sul principio che un paesaggio è uno stato d'animo e ottiene il suo effetto guardandosi intorno e valendosi d'accenti più descrittivi che riflessivi, ecco che in Giobbe mostra un ricchissimo sostrato cogitativo, abbinando il motivo tragico d'una intima rivolta verso lo strapotere divino, che par crudele nel pesare sullo uomo debole e inerme, al motivo dell'istintiva capacità umana di appagarsi ai beni più elementari, quando tutte le sovrastrutture sono crollate.
Il primo è un motivo che può far pensare a certe tragedie greche col loro senso del Fato; ma il secondo, così consapevolmente espresso, è tutto moderno, implica le estreme esperienze psicologiche recenti, la sapienza del maturo Ottocento nel saper leggere anche nelle pieghe oscure del proprio animo:

Giobbe, putrido in un letamaio,
consunto dalla lebbra, a poco a poco
si spegneva; e, volgendo
gli occhi velati al cielo, con un roco
guaito non cessava d'implorare
lo Spirito tremendo:
- Jehova, dal fondo d'ogni mio guaio,
senti almeno l'ultima preghiera:
Tu che sei tutto quello che nasce
e che s'estingue, l'aurora e la sera,
tu che spargi sulle tue creature
le gioie e le ambasce
senza numero, se sazio
non sei ancora di tanto mio strazio,
annientami pure.
ma odi, per essere giusto:
Tu m'ài distrutto col fuoco
perfino ogni più strema capanna,
ogni più tenero fusto;
m'ai ucciso gli armenti;
m'ài inghiottito con gli uragani
i pingui navigli;
m'ài orbato dei figli;
m'ài ridotto a raccoglier per cibo
quel che sdegnavano i miei cani...
e sempre l'infinita
tua possa struggitrice ò benedetto.
Ma ormai questo poveretto
che ti fa? che ti fa? Nulla egli vuole
per lo straccio di vita
che gli rimane, fuor che di tenersi
e benedire
le ricchezze comuni che non vide
quando credeva d'aver tutto: un alito
della tua aria, un raggio del tuo sole.

Questa bella e nitida, e non certo convenzionale raffigurazione di Giobbe, non nasce anch'essa dal senso del mistero? Hanno qualcosa d'incomprensibile le forze ineluttabili che seminano la vita e la morte, che creano la ventura e la sventura. Che ci siano mendichi ridotti all'abbiezione di contendere il pasto ai cani, che la nobiltà e complessità della natura umana possa venire così torturata dalla sorte (e che l'uomo possa accettare la vita anche a questi patti) è un aspetto del mistero; e anche qui il De Maria, sia pure per un'altra strada, si protende all'orlo di esso, come quando in Czolgocz, allucinatamente, s'immagina gli ultimi istanti di un assassino condannato all'elettroesecuzione.

ALLA MANIERA DI FEDERICO DE MARIA

Czolgocz è la poesia dei sedici anni, Giobbe dei ventidue: e fra l'una e l'altra una copiosa fioritura di liriche che ànno sempre un andamento caratteristico, "alla maniera di Federico De Maria", come dice il titolo di una di esse, e un tratto almeno dove il motivo affiora con un tremito, una improvvisa accensione subito avvertita dal lettore. Ora, se da quelle lontane liriche passiamo alle più recenti, a La ritornata, a Estate di San Martino, a Sillabe, a Incantesimo del Fuoco, noi ci accorgiamo che la tecnica del verso libero non è mutata, che permane l'antica scioltezza nell'abbrivo dei temi e il quasi sotterraneo salire della commozione tra un più consapevole ripiegarsi dei ricordi e un depurarsi di certi antichi scatti di passionalità pratica e immediata: poeta più veramente spinto ora dal declino dei giorni a un dettar meditativo e cosmico quasi per un appagamento dell'intimo anelito dell'anima che sente già vicino l'ultimo approdo.

IL PRIMO ED IL SECONDO DE MARIA

Curioso è poi notare come fra il primo e il secondo De Maria corra più di un ventennio di silenzio: dal 1909, l'anno in cui appare la Leggenda della vita, al 1932 in cui con altro vello ritornò poeta ed anche con altra voce, se badiamo al volume, all'eco irrobustita, al suo fluire solenne e grandioso:

La notte. La spaventosa e magnifica
notte. Respiro le sue acque nere
e impalpabili: m'imbevo del lor gelo...
Talvolta odo il tacito vento
del vasto rotare
che passa in alto e squassa
gli astri: gli astri stormiscono
come foglie lucenti d'una immensa selva buia

Fantasia grandiosa, e tanto più in quanto non tradisce alcuno sforzo, né si affida alle dubbie immagini degli ermetici. Qui anche i baleni degli astri nel buiore infinito assumono la chiara parvenza di foglie stormenti per entro la notturna selva senza confini:

Buio: ma in cui stormirà
tacita, al vento della rotante
vita eterna, qualche foglia
della gran selva: nelle grandi acque nere.
goccèra qualche luce d'astro.

(Nox ,da Estate di San Martino, agosto 1934)

Nello sterminato paesaggio notturno già prima evocato la nuova suggestione qui viene dal piovere d'una pallida luce d'astro nelle grandi acque nere. E' quella lontana luce, filtrante goccia a goccia, che dà il senso, oltre che di lontananze favolose, delle ombre dappertutto incombenti.

L'ULTIMO DE MARIA

Con la voce si è irrobustito nell'ultimo De Maria anche il pathos umano. Basti a testimoniarlo la figurazione tragica dell'Io, Ulisse. Già è tratto originalissimo quel calarsi nel naufrago eroe, là, dai millenni, e pur non spento ancora ed è bello che nel soffio di vita che rimane ancora legato a quel corpo immondo viva l'inesausto, andante desiderio d'un bene già invano cercato dal mitico navigatore per tanti mari e popoli sconosciuti; ed è intuizione di poeta far proprio quel desiderio e dar così forma fantastica tutta nuova a un vecchio motivo.

Io vedo - uomo fuori del mio corpo
e dell'anima mia - vedo il travaglio
della piccola nave
che mi portava, dopo la bonaccia,
nei giorni accesi e sotto i firmamenti
brulicanti di fiamme
vive, tra le onde divenute a un tratto
branchi di fiere canute e ululanti,
bramose di me solo nell'immenso
deserto. Vedo il naufragio, già in vista
della terra sperata,
me divelto dall'ultimo relitto
che mi reggeva, la persona mia
inerte rotolata dai marosi,
scagliata
priva di sensi su la spiaggia, e lì
rimasta presso la quieta foce
del fiume, fra i detriti della terra
e del mare...

E sono lì da allora.
E fuori di me stesso,
ecco, mi vedo pesto e sfigurato,
come un cetaceo esangue, tra la melma
e i fuchi marci, non ancora morto
ma cadavere più che uomo malvivo.
E sento di morire
d'ora in ora, legato
nelle membra e nei sensi dal torpore
e dal gelo. Ma so che la salvezza
può venire, se lei,
la giovinetta dalle bianche braccia,
udrà il muto richiamo
del mio spirito già presso a svanire.
O Nausicaa, Nausicaa,
l'ultimo filo
di vita già si spezza: accorri, tergi
il corpo immondo del naufrago, rischiara
la brancolante anima già ricinta
dalla tenebra: ancora
qualche giorno di piena luce fa
su lui che cercò il bene
supremo, e che tuttora lì, morente,
l'attende. Accorri, accorri,
Nausicaa, amata amante
della fine: altra nave
con bianche vele appresterai domani
al suo viaggio per la sterminata notte, - ma che l'affronti e vi dilegui
egli, portando seco
l'oblio di tutto e solo l'immortale
desiderio di te, non posseduta!

Del momentaneo collasso dell'eroe il poeta ha fatto il suo torpore secolare (di queste trovate fantastiche si nutre la vera poesia) e come dal suo spirito già presso a svanire sale l'invocazione suprema: "o Nausicaa, o Nausicaa,...") tutto mondo di bellezza ti si avviva intorno e la giovinetta dalle bianche braccia assurge senza sforzo a simbolo dell'attesa folgorazione, per cui l'anima intravede, senza attingerla la felicità suprema. Dopo di che il poeta potrà avviarsi tranquillo alle prode deserte della notte perpetua, recando seco, sacro lume della misera vita, il ricordo della serenante visione e il suo rimpianto. Ma non è il solo afflato poetico che rende singolare questa lirica, ma anche il suo pregio formale, che è poi una cosa sola con quello. Il grido a Nausicaa
si prolunga, sale d'intensità, riveste un attimo la luce del sogno, si fa preghiera, voto, e il ritmo s'adegua ai moti della anima, sale anch'esso e rifluisce come onda sospinta da un soffio uguale e potente.

IL SUO ESTRO DRAMMATICO

La rievocazione storica è fra le possibilità positive di F. De Maria, ma per solito egli si vale del suo estro drammatico per darle concretezza di monologo o dialogo. "Petöfy", "Marescialla di Mirepoix", rispettivamente del 1904 e del 1907, sono chiare testimonianze di questo nuovo atteggiarsi del lirismo demariano che, ovunque si volga, non solo evita le derivazioni troppo scoperte, ma appare lontanissimo da analoghi tentativi, per es., del Carducci, nel quale - sia detto di passaggio - il poeta elegante ha quasi costantemente dietro a sé un linguaggio e una tradizione, mentre nel De Maria non senti mai la letteratura o, come dicevano i nostri vecchi, la lucerna, e tanto meno il compiacimento del bel pezzo in sé. In lui la rievocazione storica non è quasi mai fine a se stessa, ma un mezzo per riversarvi la sua esperienza umana, il suo anelito del momento.

L'ORA DEL DIVINO POSSESSO

Protagonista di Sunamita è, per es., David; ma sotto le vesti del vecchio re biblico senti la presenza del poeta cui gli animi premono, ma per fargli più acuto il fascino della donna in boccio, come se, trascorsa la giovinezza solita a irrompere "pari a tauro... ove a la cieca più Venere piace" questa fosse veramente l'ora del divino possesso. E oserei dire che questo "amoroso canto" non ci poteva venire che dalla terra del sole dove non è rara l'apparizione di Sunamite "dagli a occhi accesi e pur languidi" - e da un poeta come Federico De Maria la cui scioltezza e il cui caldo alito di sensualità meravigliosamente operano qui a dar moderno respiro all'immaginoso eloquio dei Salmi e dei Cantici per sollevarsi nella chiusa ("Da' tu pieni giorni di vita a chi vide oltre la vita...") a una sintesi lirica dove ogni parola ha il timbro della voce delle Pimplee quando fan lieti del loro canto i deserti.

«Dio sia teco, donna di Sunam. Abisag, tua figlia, conviene
a David, re d'Israele, colui che vide e cantò Dio e i cieli.
Noi veniamo dalla parte di lui, per cercar nel suo regno
e più lontano, se occorra, un farmaco per il suo male.
Infermo è il grande re David, d'un'infermità uguale e fatale
per gli uomini tutti, ma che non si confà al suo alato
spirito, ancora aperto ai sogni e alle divine visioni.
David ora à bianchi i capelli, tremante la curva persona
che ieri s'ergea come palma, fredde le membra ed il cuore.
Né vino d'Engaddi, né fuoco di rovere v'à che lo scaldi:
si vuole ormai calore di vita, che passi da pubescenti
carni alle sue risecchite fibre, al suo lento sangue da linfe
rigogliose, alla sua virilità smorta da un seno sbocciante,
da un grembo appena rorido del primo fertile umore.
Si vuole, a svegliare i suoi estri, purezza di forme, che siano
musiche mute, caste e procaci, di quell'eterna e assoluta
bellezza che è della fanciulla e del giovinetto ad un tempo;
ad urgergli il cuore si vuole un fiato odoroso, una bocca
di miele e di rose, occhi accesi e pur languidi, morbidi e densi
capelli. - Abisag sunamita, gazzella che appena à brucato
il serpillo, sei dolce e perfetta, sei come una divinità
di giovinezza; sei fatta per trasfondere vita anche dove
s'agguata la morte. Il re grande t'aspetta. Egli si ridesterà
al profumo di nardo e di cinnamo delle tue tepide ascelle,
al tocco dei tuoi seni, soavi al tatto come gardenie,
alla carezza delle tue dita e dei tuoi piccoli piedi
simili a fiori di loto, esperti alla danza che incanta.
Da' tu pieni giorni di vita a chi vide oltre la vita.

Dopo, sarai contesa da re e da principi a sposa.
Ma niuno, neppure il più giovane ed il più bello, potrà
colmarti di sovrumana grazia come il vecchio sublime! ».


Non è la solita chiusa epigrammatica, ma il cuore stesso della lirica, il motivo che ne riscatta la diffusa sensualità. Or immaginate di vedere sotto questa lirica la firma del Carducci o dei Pascoli o del D'Annunzio. Non esitereste a gridare: "Bella!" E subito la vostra fantasia tornerebbe a tante altre stupende immagini evocate da quei grandi. Ma il lettore che s'entusiasma solo alla visione della firma non è un buon lettore. Il buon lettore di poesia, nelle ore di grazia, è come il viandante fantasioso che si sperde lungo sentieri solitari l'accoglie con un grido o un intimo sussulto la vista di un fiore sui suoi passi, o più lungi, tra verdi margini: e non è necessario che quel fiore abbia un'etichetta, sia un colchico o la solita da primula o la violetta vereconda per antica voce.

Ma l'attribuzione al Carducci - o al Pascoli o al D'Annunzio - di questa Sunamita si potrebbe fare di proposito, per sentire con più evidenza e per via di contrasto come essa costituirebbe una nota nuova nel concerto pur vario e grandioso di quei poeti, come se ciascuno si fosse spogliato della sua maniera per assumere un ritmo e un linguaggio più sciolti da residui personali, un'aderenza d'immagini in cui la fantasia o la passione si risolvono con un soffio pacato e sicuro, senza le usate risonanze, raggiungendo per tal via insolita quello stesso nobile alato dettare altra volta attinto con un timbro proprio nell'Odi barbare o nei Poemi conviviali o nelle Elegie romane. Opere insigni di poesia, queste, senza dubbio; ma se di esse e de' loro autori le nostre storie letterarie tengono gran conto, come mai tacciono di questi poeti che pur ci ànno dato creazioni di altrettanta bellezza? O che forse sono sorti altri giganti che con la loro ombra aduggiano questi, al loro confronto, minori, ma che pur legittimamente possono coronarsi dell'"amato alloro?".

DE MARIA: UN NOBILE ATLETA DAL LARGO PETTO

Per quanto si guardi ne' meandri dell'odierno Parnaso,di giganti non se ne scorgono e si vede piuttosto la gente far ressa intorno a pigmei deformi e striduli, che tentano occultare la loro balbuzie facendola insegna e veicolo di non so che enigmi: e ai nobili atleti dal largo petto e dalla chiara voce come Federico De Maria nessuno bada: e se lenta, assai lenta è anche la giustizia che dovrebbe venire da quel tribunale legittimo che è la storia letteraria della Nazione, tanto che questa carenza è deprecabile.

Federico De Maria è nato a Palermo nel 1883; porta dunque sulle spalle sei buone croci; e va per la settima. Inevitabile tramonto? Scorrendo le liriche di Incantesimo del Fuoco (1950-51) non parrebbe, che anzi ve n'è una dove ricorre un fenomeno di sdoppiamento dovuto ad uno specchio che ha un lontano precedente in una lirica del 1904, Adagio di Beèthoven, e lo supera per intensità e forza drammatica. Pur nella giovanile lirica era ben resa la vibrazione dello amore che subitamente diviene "presaga di caducità e di morte" dal fatto che il poeta lascia cadere l'occhio in uno specchio dove la sua donna è riflessa, il volto pallido e quasi irrigidito funebremente dall'emozione musicale: "visione - immobile, rigida, senza - né sguardo nè voce... - lontana nella trasparenza - dello specchio, come oltre una porta - d'abisso".

Nella nuova lirica - a un cinquantennio quasi di distanza - muta lo stato d'animo, non il modo della visione, che nasce dalla vena più segreta e perenne del poeta:

All'offesa del nemico
io balzai — dura e vibrante volontà
di stritolano, a vendetta.
E tosto vidi balzarmi di fronte,
non più lui che si ritraeva
sgomento, ma me stesso
— furente ed orribile.
Un attimo, ed in costui riconobbi
la fiera originaria, ridesta
in me da lontananze di millenni:
quell'entità celata
nella mia scorza
mondana, quella che si fa ragione
con le unghie e coi denti o che inventa
l'arme perfetta, quella
che non accorda quartiere al fratello nemico.

Quella? Ed io che avevo elevato
il mio pensiero alle sfere più eccelse
dei cieli, io che avevo parlato con Dio,
ero anche colui
che imbestia, pronto alla violenza?
Io, sublime in un'opera bella,
in una parola d'amore,
ero anche l'efferata
belva che dà in un attimo la morte?

Ed allora ebbi paura
del violento che s'era scatenato
in me, e chiesi perdono di me stesso
al mio sognante spirito deluso.

Uno sdoppiamento perfettamente drammatizzato, due personaggi posti di fronte di cui l'uno inorridisce dell'altro, e sono una persona sola. A questo genere di sdoppiamento ci aveva abituati Pirandello, ma negli eterni e spesso convulsi dibattiti de' suoi personaggi, che non vivono ma si guardano a vivere, difficile trovare un passo di tanta chiarezza e perspicuità. E non è un fatuo problema di cerebrale psicologia che qui si pone, ma l'eterna capacità di rimordimento - come bene nota il Capasso - acuità dalla secolare educazione cristiana.

Un altro componimento, Solitudine nella foresta, appartiene al De Maria più musicale e fuso, più aperto alle mille voci e ai mille aspetti del creato, ma se non si sapesse che è incluso nell'ultima raccolta, lo si potrebbe facilmente attribuire al periodo più felice vena della giovinezza, mentre Incantesimo del Fuoco, la lirica che dà il titolo alla raccolta, è ben intrisa della tristezza di chi si sente prossimo e "al passo che Omero ellenico - e il cristiano Dante passarono". Come l'alba, anche il tramonto ha la sua poesia; e pur velato dalla
luce vespertina o arriso dalla luce ferma dell'al di là, il canto, quale che sia l'ora in cui sgorga, attinge sempre la giovinezza dell'eterno. Per questi ritorni d'estro mi vien spontaneo ripetere quel che affettuosamente in altra volta ebbi a dire del De Maria: come un vecchio nodoso ulivo della sua terra, anch'egli vi rigermoglia, ma a distanza di lustri, quasi che per lui la misura del tempo e il corso delle stagioni abbiano un ritmo più lento e solenne. E davanti a questa persistenza dell'ispirazione poetica saremmo quasi tentati a definire Federico De Maria "un duro a morire": lode non piccola se si pensa che nel reame delle Muse, dove si respira un'aria sottile, rarefatta, quasi sempre di eccezione, frequenti sono le crisi di sviluppo (vedi Ungaretti, vedi Montale) o le morti precoci (vedi Rimbaud) o le lunghe agonie senza più un guizzo di vita (gl'infiniti poeti che non seppero o non sanno tacere a tempo).

 

DE MARIA ROMANZIERE

"LA VITA AL VENTO"

Della vitalità fantastica di Federico De Maria, indubbiamente alimentata da quella fisica con copioso scambio di impulsi e di motivi, quasi tutti i critici, più o meno consciamente, si sono accorti. Anche a proposito di opere sulle quali noi abbiamo sorvolato, come L'Aquila del Vespro (poema drammatico vincitore del concorso nazionale del 1911), La conquista del mondo (poemetto, 1926), La spada di Orlando (poema scenico, 1929), per le quali il De Maria fu salutato come uno "dei più dotati e più gagliardi scrittori italiani contemporanei" (Carlo Weidlich), "un signore della fantasia" (Guglielmo Lo Curzio), capace d'imporsi "per simpatica esuberanza di poesia e per vigorosa drammaticità" (i Commissari del concorso nazionale fra cui Alfredo Testoni, Lucio d'Ambra, Ercole Rivalta ecc.), ed anche di salire a "una potente espressione cosmica nelle sue forme bibliche" (Niccolo Sigillino, a proposito della Conquista del mondo).

Ma i colpi d'ala, gli èmpiti, gli "eroici furori" di Federico De Maria hanno questa caratteristica, che non vanno mai disgiunti dalla spontaneità, da non so che afflato o vento intimo che spazza via bolle e vecchi detriti e non tende continuamente ai fragori dell'uragano o alla foga messianica, per esempio, d'un Rapisardi - turbine che al più sollevava egli innocui mulinelli - e neppure a quella del Monti, i cui versi, come ebbe a dire con pittoresca enfasi il Carducci "corsero il bello italo regno abbaglianti d'èmpito e di splendore, come gli squadroni di cavalleria di re Murat". Immagine che è tutta a favore dell'autore dell'ode Per la liberazione d'Italia e del traduttore dell'Iliade, ma che non s'adegua pienamente perché all'impeto reale degli squadroni galoppanti al grido e dietro il volo dell'Achille della Francia napoleonica risponde un èmpito che è più di testa che di cuore, o comunque uno slancio tutto fantastico e sonoro non mai sul pulito di tradursi in atto.

Il Monti, il Rapisardi, in una parola, furono uomini libreschi, inclini ad accapigliarsi con la penna, non mai con la spada, dominati dalla bile letteraria più che da quella umana, laddove il De Maria ha fatto il suo ingresso nella vita con la fierezza un po' spavalda e i balzi e 1e ritorsioni del siciliano puro sangue, e la penna usò subito come arme di battaglia, pronto a lasciarla, quando gli argomenti non servivano più, per impugnare la sciabola, e, in mancanza di questa, se preso alla sprovvista, anche una seggiola o un tavolino. Più di una volta si trovò allo sbaraglio e poteva uscirne male, come quando a Tunisi, per delle semplici guardatacce dei "buli" locali, provoco nel cabaret ove danzava la "canora Zakya", l'ispiratrice de Il ricordo più bello, un tafferuglio indescrivibile, rimanendo da ultimo padrone del campo e della deliziosa fanciulla (e qui un diavoletto subsannando mi suggerisce che le donne, il Monti e il Rapisardi, se le lasciarono portar via, cosa che avrebbe potuto costar cara a qualcuno se il loro impeto, come s'è detto, non fosse stato soltanto di testa). La mosca al naso il De Maria non se l'è mai lasciata posare e di donne ne ha portate via parecchie per fermarle poi nell'arte con istantanee bellissime, se vogliam credere alla realtà biografica de La vita al vento ed. (Corbaccio, 1933), un romanzo vivo come un'avventura vissuta di ora in ora -"uno dei pochi, come notava Silvio Benco, nei quali, senza eccessivi squilibri e senza finzioni inverosimili, un autore italiano trovi la ricca vena narrativa necessaria a far cavalcare una vita nelle avventure" (il Piccolo, 15-2-1934). In Bruno Soveria, il protagonista, si intuisce subito la stretta parentela con l'animatore della Fronda e con il lyon appassionato e romantico da noi su ricordato: ed è straordinario l'interesse che subito si avviva intorno al siculo hidalgo dell'ideale amatorio e della avventura a sfondo politico, con colpi di mano e sogni che avrebbero dovuto dare un indirizzo diverso alla Nazione e altro alla storia (2). e che frattanto coglie della vita quel che la vita gli offre: una donna dopo l'altra e una più dell'altra viva nel ricordo e nella trasfigurazione artistica, si che ai tanti volti "fascinanti e turbativi" e che il Tommaseo ritrasse nel romanzo, anch'esso a suo modo autobiografico Fede e Bellezza, si possono contrapporre questi della Vita al vento, ognuno a sé, ognuno originale e conturbante o riposante o enigmatico, così come la vita e non la letteratura li offre. Ognuno fermato con tocchi sicuri ed agili, alla Boldini, o con un solo tratto nervoso. Ecco zia Flavia, la predatrice beffarda, che affronta il giovincello quindicenne dandogli del moccioso e lo lascia gridando al citrullo, ma che intanto ci ha fatto su la sua passione, o il suo capriccio, e sparisce irata "nel buio, da cui, buia e corruscante, era venuta".

Ecco Myriam, la Pisana ammaliatrice del romanzo, ma più capricciosa e sensuale, senza ritorni d'innocenza, odiosamata e respinta: "Bella creatura, magnifica, invadente, di ventitrè o ventiquattro anni: due enormi occhi ora verdi ora neri, con riflessi ora di sole ora d'incendio. E attorno al viso il fiammeggiare di una chioma di rame.... Intorno a lei uno stato maggiore di giovanotti, i più in vista di Tunisi, avevano l'aria di cagnolini al guinzaglio".

Ecco la raziocinante e tragica Fraulein Katscha Graberg, vergine già rotta a lesbiche libidini, incontrata in una pensione parigina: "Con un gran cappellone di paglia inchiodato in capo, sotto il quale mostrava un musetto umido di fama, la tedeschina alta e smilza durante i posti perdeva più tempo a discutere che a mangiare. - Ecutè‚ mossiû... Ecutè‚ matam... .- a dritta e a manca, più alta di due toni sul diapason generale, la sua vocetta acuta dalla pronuncia aspramente alemanna s'imponeva e si faceva ascoltare. Una vivacità poco nordica accendeva le sue parole smozzicate e veloci e il musetto mordente che s'intravedeva sotto le falde del grande cappello sgarbato".

Ed ecco una scena d'alcova che non è delle solite, perché ha il garbo di un fresco pastello e perché riesce ad una notazione psicologica che ferma per sempre un carattere, una figura: "Sorrise; si distese lunga su lui supino, aderendo gli col seno e col grembo, bocca su bocca, indugiandosi a fargli cento piccole carezze che la divertivano. Era bianchissima e dolce al tatto. Egli riusciva quasi, premendo un poco, a cingerle la vita con le due meni: ma i fianchi s'arrotondavano in curva soda e il tronco ne scaturiva alto, agile, forte. I capelli, che nelle ore d'amore soleva sciogliere, scorrendo ad ogni sua mossa, titillavano il petto, il collo e il viso di lui che se ne schermiva. E Katscha rideva, mentre Bruno notava per la prima volta che essa non si era mai interessata al piacere di lui, ma soltanto al proprio".

Basta una pagina come questa per avvertire la singolarità d'uno scrittore che disegna netto e arioso e pur non senza morbidezze voluttuose, con una musica verbale che è tutta di vena, fresca e ruscellante per intima adesione. La quale musica par che varii e assuma toni più caldi e cupi, secondo la varietà del fascino. Ecco l'adescatrice d'alto bordo, "dal sorriso calmo di dea", che tiene salotto a Parigi e si alleva e lancia gli aquilotti, valendosi delle alte amicizie. Primo momento: la dea riflessa nello specchio: "Mentre parlavano così, Bruno aveva agio di guardarla tutta nella maestosa persona riflessa da un immenso specchio che le stava a tergo. Era più alta di lui, perfetta nelle linee statuarie, bianchissima nelle braccia e nella scollatura del seno, fiammeggiante nella capigliatura del più bel rosso tizianesco. I suoi occhi fulvi, leggermente adombrati di bistro nelle palpebre dalle ciglia lunghe, pareva sorridessero come la bocca un po' grande ma dalle linee impeccabili".

Secondo momento: la dea incede: "Lo precedé di sala in sala, col suo passo muto e quasi sorvolante sui tappeti spessi.: alta, eretta, imponente, quasi portando in trionfo le nudità poderosa, provocatrice e sicura delle sue spalle e delle sue braccia. Il fruscio della faglia del suo lungo strascico produceva sui sensi di Bruno l'effetto di una carezza sopra una ferita".

Terzo momento: la tentazione: "Presero il caffè e fumarono. I servi andarono via chiudendo la porta. La signora, allungata su un'ottomana ricoperta da un'immensa pelle d'orso nera, riprese il suo argomento favorito, quello dello avvenire immediato e lontano del suo protetto; il quale per non concentrava quanto dopo il pasto e le libazioni gli era rimasto di possibilità d'attenzione, che sulle braccia e il seno, ed ora anche su un piede una gamba, sbadatamente scoperta, dalla sua ospite.

Egli cominciò a pregustare quel che certamente sarebbe avvenuto fra breve e che, dal caso, pareva così ben predisposto. Quella pelle d'orso nera e lucida lo eccitava straordinariamente e, già tremava di gioia pensando che, nient'altro avrebbe potuto essere giaciglio più degno della maestosa nudità rosea di Edmea Griffith".

Ma La vita al vento offre tale una galleria di ritratti femminili (o potremmo anche dire di caratteri in azione, perché la varia indole e le secrete schermaglie sono calate interamente nella pittura) che non è possibile soffermarsi a guardarli tutti e pur spiace lasciarne indietro qualcuno, che salta fuori spesso anche da un semplice incontro, come quello sulle rive del Reno con le forosette Ilse e Gretchen: "Si accorse di avere dormito quando già l'aria cominciava tra gli alberi a diventare come una sottile fumea. Scorse, ritte accanto a sé, due giovani donne che lo consideravano, tra angustiate e benevole. Erano vestite dimessamente, calzate di zoccoli di legno e a capo nudo; l'una adolescente e bellissima, aveva grandi occhi celesti e due grosse trecce bionde pendenti lungo il petto fino ai ginocchi".

E fatta un po' d'amicizia e avviati alla casa delle due fanciulle: "Parlava un po' Ilse, un po' Gretchen; ma Gretchen soprattutto lo guardava con un senso di pena e, quando anche lui la fissava, gli sorrideva. Pareva, con quel sorriso, dargli tutto ciò che poteva di sé per renderlo più forte, per vederlo camminare più spedito e sicuro. Apparteneva, Gretchen, a quelle creature che sono belle per beneficare, per dare un senso puro e amplissimo della vita, che sono e rimangono pure anche quando si concedono tutte, come la luce e l'acqua delle sorgenti; come la musica, come l'arte, come il mare e il cielo notturno". E qui scorrono vere note di rossiniana pastorale.

La cosa più gentile del romanzo è indubbiamente l'idillio con Alba, la bimbetta che Bruno ritrovava accanto alla sua mamma ad ogni ritorno in famiglia, via via più grandicella e penosa. E' il momento del miglior garbo del De Maria narratore, della più delicata sensibilità; un indizio delle sue grandi possibilità anche in questo campo: e più che un indizio, una prova. Del resto un'analisi approfondita di De Maria romanziere potrebbe portare a conclusioni impensate, specie se si considera che nel recente congresso per la narrativa siciliana di lui non si è fatto probabilmente il nome o non si è trattato di proposito, mentre, per la serena obbiettività storica oltre che per certa legge dei compensi, se proprio era necessario buttar giù dal suo seggio di narratore il Borgese - come s'è fatto a corna basse quasi che il malcapitato Rubè‚ agitasse sbadatamente un panno rosso - si doveva almeno offrire un modesto scanno a Federico De Maria e riconoscere i titoli indubbi ch'egli ha, oltre che nella lirica e nella drammatica, anche nella narrativa, e per quel brano romanzo di scavo, Santa Maria della Spina, e per quest'ultimo romanzo tra biografico e fantastico, di varia iniziazione amorosa e politica che è La vita al vento, dove è calata tanta esperienza della narrativa moderna, ma con un taglio e un freno e un estro proprii. Perché un De Maria senza uno spunto personale, è impossibile immaginarlo; ed anche senza una misura propria, quella che a volta a volta egli stesso s'impone, come libero freno artistico; né c'è moda che lo renda succube, anche se a quella moda ha dato in qualche modo egli medesimo la spinta. Basti questo particolare: nel suo romanzo giovanile, Santa Maria della Spina, egli precorre la narrativa realistica e angosciosa, quasi esistenzialistica di vari decenni dopo - vi studia, infatti, con penna agile e analisi fredda, un caso di psicopatia -. Orbene, egli non si tenne legato neppure a quella sua prima esperienza, e se là faceva già uso, tra i primissimi in Italia e in Europa, della tecnica del monologo interiore, in La vita al vento di tale tecnica si serve con parsimonia, non badando alla moda ormai quasi trionfante, ma a ciò che avviene realmente nella vita, che non si trascorre sempre parlando con se stessi o strologando al vento.

 

SANTA MARIA DELLA SPINA

A questo romanzo siamo tornati quasi senza volerlo: forse in segno che troppo sbrigativamente ce ne eravamo occupati. E poi che di esso si parla come dell'araba fenice - di bravo chi ne pesca una copia! trascriverò qui alcune note critiche, tuttora inedite, che l'autore del Dramma a Guayaqui - competente se altri mai in questo campo - mi ha fornito per una mia scelta antologica della narrativa di scavo (quando posso, io rendo giustizia e voglio che anche altri mi dia una mano: credo sia il mio modo di pregare).

Aldo Capasso, adunque, nel breve profilo su Federico De Maria, accennato al "poeta, la cui attività, svolta esattamente dall'inizio del secolo ad oggi, si è sempre mantenuta autonoma di fronte alle varie mode poetiche susseguitesi via via su la Penisola, in una splendid isolation che a poco a poco ha fatto di essa un modello capace d'influenzare, se influenzare non si era lasciata", prosegue così: 

"Analoga parte di precursore ha recitata Federico De Maria nella storia del romanzo italiano ed europeo, con Santa Maria della Spina, il suo primo e singolare libro narrativo. La vita al vento sarà poi - nonostante l'ottimismo alquanto voluto del finale - un molto efficace romanzo creante un carattere protagonistico ben vivo e rilevato: ma in forme che possiamo dire tradizionali. E L'avventura dei tre Don Giovanni, leggiadra e delicata favola di melanconico significato, romantica in luce crepuscolare, sarà piuttosto una esigua commedia narrativa che un vero e proprio romanzo. Per converso, Santa Maria della Spina si colloca nella genuina narrativa «di scavo», e nella prima fase di essa, prima di Proust e prima di Joyce. Né si può tacere che vari elementi di essa precorrono manifestamente la psicologia freudiana.

L'assunto che il De Maria si propone già nel 1902 (il romanzo è scritto nel 1902-4, rimaneggiato nel 1908, pubblicato la prima volta nel 1911 (edizione Bordandini, Forlì. Seguiranno le edizioni del 1912 - presso il Romagna di Bologna - e del 1920 - presso il Lattes di Torino) è quello di dipingere ogni moto portandone in piena luce il ritratto di un pazzo e coglierlo nella fase più artisticamente ardua: quello in cui esso va verso lo squilibrio totale, per gradi, partendo da una relativa normalità. Per ottenere questo risultato, il narratore (ignaro allora, naturalmente, di Svevo) non ha esitato a seguire l'azione dal di dentro del protagonista, riferendone anche qualche breve monologo interno, mostrandosi, quale narratore, così come nel campo della lirica, privo di pregiudizi e pronto a qualsiasi innovazione formale, purché dotata di un concreto significato. Il pazzo presentato dal De Maria diventerà sempre più ostile agli altri uomini, sempre più convinto che essi lo odiino e desiderino nuocergli: ma da principio questo atteggiamento, perfettamente controllato nelle sue manifestazioni, assume un aspetto ancora normale: ed è egoismo, scarsità di affetto e di gratitudine, sagace malevolenza nell'osservare gli altri... Apparentemente l'amore per una donna (una sua bella cugina) sopravviene per salvarlo da questa solitudine dura e cattiva. In realtà, la sua passione è ben più fisica che affettiva; e troppo povera di bontà, e presto egli arrogherà di giudicare aspramente le debolezze di quella donna, senza tener conto che proprio egli ne ha tratto profitto, e ne è stato complice danneggiando terze persone (essa aveva un marito). Ne consegue che egli può, da questa passione, ricavare un logorio nervoso esiziale, ma non un conforto reale ed umano, un aiuto a riumanizzarsi e dunque rinormalizzarsi. Influisce anche, sulla vicenda psicologica, il fatto che il giovane fosse stato, almeno relativamente, affezionato alla madre (la quale, finché era vissuta, lo aveva custodito come un bimbo, sapendolo nipote di un pazzo e minacciato dalla terribile eredità); ed anche verso la madre, non dimenticata mai, il personaggio diventa sagace per crudeltà, cercando di scoprirne una colpa sospettata, armandosi di una postuma ma acre gelosia e traendo da questa vicenda interiore motivo per giudicare senza perdoni, sempre più, la natura delle donne, tutte... Finché l'uccisione di una donna (quella cugina) segnerà la fusione e conclusione, ad un tempo, dei due temi dominanti della sua follia".

LO SCANNO DI DE MARIA

Ed ora possiamo tranquillamente concludere. Entrato nella vita e nell'arte come in un agone dove prima di tutto si dovesse scavalcar ostacoli e far da battistrada, tutto dice che De Maria non ne uscirà tardo e zoppicante, in un crepuscolo grigio, sopravvivendo a se stesso. Non sopravvivere a se stesso è la sorte più invidiabile che possa essere riserbata a un poeta libero, che per la libertà dell'arte à combattuto le sue più belle battaglie. Per mille e una ragione e per altrettanti gusti, come potrebbe spiegare lo stesso De Maria, cui fra l'altro è capitato vedere gli oppositori di ieri, quelli stessi che tentavano ritrarlo dai passi incauti, far poi da mosche cocchiere sul suo stesso cammino (e qui cadrebbe a suo luogo un nome d'alta risonanza).

Il De Maria lasciò fare, sicuro che la verità e le proporzioni si sarebbero, prima o poi, ristabilite. Egli, per es., non si è mai sentito da meno dei Valeri, dei Cardarelli, dei Saba - per rimanere nei limiti della sua generazione - e non fu questa che consapevolezza d'artista, a cui si inchina anche il giudice equanime. Ma non basta dire che De Maria è poeta della levatura dei Saba, dei Cardarelli, dei Valeri e cioè, in mancanza di quei tali giganti, tra le più vive espressioni della lirica italiana moderna, se non gli si riconosce anche una virtù di anticipatore che quelli non possono vantare.

Un discorso press'a poco uguale si potrebbe fare per la narrativa: ma crediamo che al nostro scrittore, spesso vessillifero, arrivista mai (un bel caso!), basti la possibilità di assidersi su quel tale scanno che noi gli abbiamo fatto intravedere tra i narratori siciliani, del quale un cantuccio potrebbe generosamente cedere all'autore di Rubè, nella malagurata ipotesi che questi non possa più risalire nel più alto seggio dal quale ultimamente certo teorizzatore della estasi poetica (altro bel caso!) lo buttò giù con uno scossone sgarbato.

(1) Il De Maria fu, è evidente, buon profeta anche nel campo politico e sociale: pochi anni dopo crollava l'impero ottomano, seguito da quello Austro-Ungarico, dal Germanico e dal Russo. -

(2)- Anche qui una pagina profetica, fra tante altre che ritraggono stupendamente - e con valore di alta documentazione storica - con brevi scorci, la nuova psicologia formatasi in Italia dopo la guerra del 15-18, alla Vigilia dell'avvento del fascismo: "Unirsi! Unirsi! Egli scriveva - pacificare i sentimenti, più che gli Stati Maggiori. L'intesa fra Coloro che per una grande generale follia hanno combattuto ieri, deve avvenire da coscienza a coscienza e non da banca a banca. Le grandi industrie, i TRUST e i CARTELLS sono quelli che stabiliscono e che mantengono questa DÉNTEE fra i popoli; il maledetto ferro, il maledetto carbone, le dogane, le tariffe, rendono la civiltà più inumana del cannibalismo dei maori". Parrebbe quasi che queste parole siano state scritte dopo la guerra del '39-45. E al clima postbellico del secondo immane conflitto ci porta diritti il passo che segue: "Che importano la Sarre la Renania, a confronto della tranquillità di due popoli,dell'accordo tra la Francia e la Germania che, unite, rappresentano il più formidabile baluardo alla vera civiltà del mondo? Che cosa significa questo spezzettamento dell'Europa Centrale e dei Balcani, baraonda senza meta, cibreo di energumeni, adulazione alla barbarie che da un secolo scatena continue guerre ed altre ne va maturando? Perché l'Europa non dovrebbe prendere tutta nome dai suoi maggiori popoli, da quelli che l'hanno illuminata e hanno illuminato il resto del mondo nelle êre passate? Il diritto non è che ricchezza di pensiero, forza di spiritualità, non è che arte, letteratura, scienza: Italia, Francia, Germania, Inghilterra sono le nazioni che hanno dato le cose più belle alla vita di questo travagliato e furente pianeta che è la Terra. Voi sbagliate se misurate la loro grandezza dalle guerre che hanno combattuto, dalle battaglie che hanno vinto. Anche Attila e Maometto II vinsero battaglie. Qualunque popolo bruto può imporre l'effimero dominio delle armi al mondo; ma nessuno sarà grande quanto la nazione che lo dominerà col canto di Wagner o di Bellini, con la parola ardente di Dante, di Shakespeare, di Goethe, con l'ideale fraterno di Hugo, di Beccaria, di Mazzini; con le macchine di Fulton e di Sthepenson, col raggio etereo di Marconi".