Io, Ulisse
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Io vedo - uomo fuori del mio corpo
e dell'anima mia - vedo il travaglio
della piccola nave
che mi portava, dopo la bonaccia,
nei giorni accesi e sotto i firmamenti
brulicanti di fiamme
vive, tra le onde divenute a un tratto
branchi di fiere canute e ululanti,
bramose di me solo nell'immenso
deserto. Vedo il naufragio, già in vista
della terra sperata,
me divelto dall'ultimo relitto
che mi reggeva, la persona mia
inerte rotolata dai marosi,
scagliata
priva di sensi su la spiaggia, e lì
rimasta presso la quieta foce
del fiume, fra i detriti della terra
e del mare...

E sono lì da allora.
E fuori di me stesso,
ecco, mi vedo pesto e sfigurato,
come un cetaceo esangue, tra la melma
e i fuchi marci, non ancora morto
ma cadavere più che uomo malvivo.
E sento di morire
d'ora in ora, legato
nelle membra e nei sensi dal torpore
e dal gelo. Ma so che la salvezza
può venire, se lei,
la giovinetta dalle bianche braccia,
udrà il muto richiamo
del mio spirito già presso a svanire.
O Nausicaa, Nausicaa,
l'ultimo filo
di vita già si spezza: accorri, tergi
il corpo immondo del naufrago, rischiara
la brancolante anima già ricinta
dalla tenebra: ancora
qualche giorno di piena luce fa
su lui che cercò il bene
supremo, e che tuttora lì, morente,
l'attende. Accorri, accorri,
Nausicaa, amata amante
della fine: altra nave
con bianche vele appresterai domani
al suo viaggio per la sterminata notte, - ma che l'affronti e vi dilegui
egli, portando seco
l'oblio di tutto e solo l'immortale
desiderio di te, non posseduta!

 
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