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A proposito del formaggio prodotto in Sardegna (Italia), Diodoro Siculo nel 59 a.C. afferma che “Gli Iolei allontanaronsi dai conquistatori, ed intanati nelle montagne e scavati sotterranei abituri, la vita sostentarono col frutto delle greggia, larga ebbero quindi copia di vitto e il latte e il cacio e le carni diedero loro bastevole nutrimento.” Palladio Rutilio Tauro, autore latino del sec. IV, ci ha lungamente descritto la preparazione del formaggio in Sardegna: fermenti usati erano per la cagliatura erano sia d’agnello sia di capretto, o afflorescenza di carciofo rustico o lattice di fico (come ancora oggi si fanno particolari formaggi freschi in paesi del mediterraneo). |
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Nel 1789, da una relazione del console francese Guys, si considera rilevante quantitativamente l’esportazione del formaggio. “Il prodotto era confezionato in tre distinte qualità: quello in salamoia era largamente esportato a Livorno, Napoli e Marsiglia; grandi città come Genova e Nizza preferivano il tipo dolce e più delicato. Anche in questo ramo dell’esportazione notevolissime difficoltà si opponevano alla libertà di commercio. Il malcapitato produttore di formaggio che intendeva ricorrere all’estrazione doveva passare attraverso una così penosa e complessa trafila burocratica che spesso era indotto a rinunciare alla vendita o a cercare le vie del contrabbando.” (v. Carlino Sole). |
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Il Bogino alla fine del ‘700 credette di poter persuadere i sardi ad abbandonare
la fattura del loro tradizionalissimo formaggio salato e a intraprendere,
su vasta scala, quella del formaggio dolce, fino, come l’olandese e il
lombardo (Di Tucci). Ma i pastori, in generale trovavano, nel fare il
loro formaggio fortemente salato, minor fatica, commercio sicuro, prezzi
vantaggiosi e minor rischio nel conservarlo, rispetto al deterioramento
cui, particolarmente in Sardegna erano esposti i formaggi dolci e fini.
Il formaggio salato resisteva al caldo, conservava peso, era sicuramente
esportabile perché molto accetto nel mercato del consumo popolare. Quindi
la Sardegna non temeva la concorrenza dei formaggi olandesi e d’alta Italia
nel mercato popolare sui porti di Barcellona, Marsiglia, Nizza, Alassio,
Genova, Livorno, Civitavecchia, Napoli. |
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La Barbagia di Ollolai gravita nel V-VI secolo attorno alla vallata del fiume Taloro, le greggi avevano come pascoli invernali le contrade in seguito denominate Parte Barigadu e Ocier Reale (la zona di Ghilarza) e nonostante i controlli dei presidi costruiti attorno alle montagne, che avevano lo scopo di contenere le incursioni dei pastori, il campo d’azione di questi era vastissimo: Salto di Quirra, Monti di Alà, Bruncuspina, Monte Santa Vittoria. In quel periodo, la produzione di quelle popolazioni constava soprattutto di materiale caseario, particolarmente di quello ovino, ottenuto in secchi di sughero o ceppi di quercia incavati in modo da contenere “il liquido di mungitura” facendo bollire con ciottoli arroventati al fuoco e aggiungendo il fermento. Una volta coagulato, era travasato in vasi di legno duro o forme, forati, era poi travasato in una tina contenente salamoia, successivamente posto su graticci di legno o canna (sa cannizza). Dopo l’anno mille è intensa la produzione casearia, inoltre le forme di formaggio costituivano mezzo di pagamento. |
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Oristano era, certamente, nel medioevo centro di commercio caseario: qui scendevano, anche allora, i greggi del Mandrolisai e della Barbagia. (Imberciadori). Altri porti utilizzati erano Cagliari, Alghero, Bosa. Fin dai primi anni del 1100, la Sardegna si offre agli occhi di commercianti genovesi e pisani come terra in cui si possono acquistare a buon prezzo certi generi alimentari, come cereali e formaggi, che i mercati continentali richiedono con rigida regolarità. Nel Giudicato di Arborea, il più fertile e ricco per certi prodotti, si era insediato il mercante genovese ed imposto come uomo di buon affare e i Giudici, quasi a simbolo di generosa e festosa ospitalità, erano soliti offrire ai genovesi "forme de casu et aione de benedicere". Una forma di cacio, tanto grande da essere trasportata in carro da bovi, e un agnello da benedire. (Boscolo) Verso la fine del 1100 il porto di Cagliari diviene centro di raccolta, di smistamento e invio di ogni prodotto commerciale: dal sale alla lana, dal formaggio al cereale. |
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Il La Marmora nel suo Viaggio in Sardegna, siamo nel 1839, richiama alla
produzione considerevole di formaggi dovuta alla grande quantità di pecore,
allo stesso tempo dice che il prodotto tende a diminuire di giorno in
giorno perché il numero dei pastori diminuisce, mentre aumenta il numero
degli agricoltori. Molti di quei formaggi venivano esportati a Napoli
dove: “il popolo li preferiva per condire i suoi maccheroni, ma non vi
entrarono più per via di un diritto faticosissimo con cui sono stati colpiti
di recente, diritto che ora equivale ad una proibizione”. |
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Dai contratti di commenda, di prestito marittimo, di cambio, di nolo stipulati
a Genova dai notai, o nei porti della Riviera ligure o a Bonifacio che
svolse, dopo la sua fondazione nel 1195, il ruolo di tappa intermedia
fra il continente e tutta la Sardegna del nord, si deduce che le esportazioni
maggiori del nord Sardegna consistevano soprattutto in grano e orzo, pelli
e cuoia, lana e formaggio. Attorno al 1294 le navi trafficanti in Sardegna,
pisane e genovesi, erano cariche specialmente di granaglie, carni e formaggio.
Nel 1299, nei documenti pisani, troviamo che “la Sant’Antonio” una “trita”,
ad una coperta, lascia il porto di Cagliari, noleggiata per Pisa da un
“patrono” di Barcellona ad un tal cittadino di Sarzana, in Liguria. Il
peso della merce è costituito da “cacio sardesco”, pari al peso di 22
pondi e 1/5 che corrispondono a circa 235 quintali di merce.” Si annota
nel 1329 che una delle entrate principali delle città sarde, consisteva
nel profitto dei dazi; la ricchezza dell’erario civico era dovuta all’intenso
traffico commerciale con napoletani, pisani, genovesi, veneziani, anconitani,
siciliani, giudei della Barbaria. Sempre in quell’anno le derrate maggiori
consistevano nel vino, pelli e cuoia, salumi, olio, biada e formaggio.
“Il diritto per il vino era stabilito, se vino rosso (chiamato nella tariffa
vino latino) di un denaro per barile; se vino bianco (detto vino greco)
di due denari; per un quintale di formaggio di quattro denari”. |
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Nel 1885, Francesco Salaris, ci ricorda la produzione di quell’anno: “Vistosa è la quantità di formaggi che si fabbricano nel circondario (Nuorese) nel 1876 quelli di pecora e di capra raggiunsero la cifra di 6780 quintali.” Egli descrive la fabbricazione del formaggio e ricorda che i formaggi “provenienti da regioni dove la straordinaria bontà del pascolo formato di erbe aromatiche in larga dose naturalmente distribuite, dà favorevole aiuto di buona circostanza e quantunque la manipolazione del latte per la fabbricazione sia cosi primitiva, ... pur non di meno hanno nome e sono ricercati nell’Isola. Così i formaggi di Gavoi e Fonni.” Descrivendo inoltre gli utensili utilizzati per la fabbricazione del formaggio, dice che “vi è di speciale sol quella tale scodella di legno bucata che serve a dare al formaggio la forma di due coni tronchi uniti per la base. Di scodelle ve n’ha di vario diametro: da 15, 20, 25 centimetri e qualche volta oltre.” Sulla conservazione dei prodotti agrari commenta: “ I pastori salano il formaggio che poi portano a vendere in Orosei se vi sono richieste per Napoli; diversamente lo conservano per venderlo al minuto con maggior fastidio, ma con maggior vantaggio.” “... Si esportano formaggi per Napoli, ...” |
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QUESTO ERA IL FIORE SARDO I cenni e le descrizioni fatte si riferiscono sicuramente al formaggio denominato Pecorino Fiore Sardo. Questo nome è dovuto molto probabilmente al fatto che, per la sua fabbricazione, si usassero fino a non molto tempo fa delle forme “pischeddas” di legno di castagno forate o anche di quercia o di pero selvatico, sul cui fondo era scolpito un fiore, forse il giglio o l’asfodelo, che lasciava sul formaggio un vero e proprio marchio che conteneva spesso anche le iniziali del nome del produttore. Negli anni trenta fu lanciata da una ditta, ad iniziativa di una nota istituzione, un tipo di forma, molto adatta per la fabbricazione del Fiore Sardo, in alluminio, con rigature concentriche ai lati e con la scritta sul fondo “Fiore Sardo”. “Tali forme, capaci di una pezzatura di 2-3 Kg, presentavano però l’inconveniente di imprimere nella pasta tutti gli ornamenti in rilievo, inconveniente che non permetteva una perfetta pulizia della superficie di esse durante il periodo di stagionatura. Sarebbe cosa più pratica rimetterle in commercio ma perfettamente lisce”. (Peppino Scarpa, 1934). Oggi vengono utilizzate forme “pischeddas” di acciaio inox. Da millenni le procedure principali riguardanti la produzione di questo formaggio sono rimaste immutate. |
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Nei diplomi e nelle carte, riportate dal Tola nel Codice Diplomatico della
Sardegna, nel secolo XIV, ritroviamo disciplinato il commercio del formaggio:
“Qualunque aet bender casu salatu, sende mischiatu terra in su sale, over
attera bruttura, paghet pro zascatunu cantare soddos III de lanua; sa
mesitate dessu quale bandu siat dessu cumone, et issa attera dessu accusatore;
et siat tentu secretu...”. |
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Antonio Piroddi