Interreg IICRestauro CAGLIARI

 “LA STORIA DI CAGLIARI”


Il Progetto di Cagliari


Storia

Introduzione

Le origini del nome della città

Le fortificazioni

Il periodo pisano

Piazza delle quattro  porte

Via Università

Castello: la fortezza


 

Bibliografia


Il Progetto Comunitario



iL PERIODO PISANO 1217 - 1326




 

Dopo i Cartaginesi, i Romani, i Vandali, i Bizantini, gli Ostrogoti e di nuovo i Bizantini, la Sardegna rimase libera da dominazioni straniere per mezzo millennio dal VII secolo in poi.

L’Isola ritrovò l’indipendenza allorché gli Arabi, in piena espansione, percorrevano il Mediterraneo occidentale seminando il terrore nelle terre dei cristiani.

I Sardi, contando solo sulle loro forze, si organizzarono in quattro zone difensive, rintuzzando gli attacchi dei musulmani provenienti dall’Africa e dalla Spagna, per ben tre secoli.

Sconfitti definitivamente gli Arabi, all’inizio del X secolo la Sardegna si diede un’organizzazione statuale tra le più efficienti in Europa. Le quattro zone difensive divennero per volontà del popolo quattro Stati indipendenti e sovrani chiamati impropriamente Giudicati. In tal modo si ebbero quattro Sardegne distinte, diverse e straniere fra loro.

In realtà ogni Giudicato era un Regno, per le Cancellerie europee, almeno sino al 1357; Giudicato e Regno furono sinonimi; Regno non patrimoniale ma superindividuale, governato da un Giudice eletto democraticamente da un’assemblea popolare. Ogni Giudicato aveva proprie frontiere difese da numerosi castelli fortificati disposti strategicamente a salvaguardia dei propri interessi politici e commerciali; aveva leggi, parlamento, demanio, divisioni amministrative, istituzioni, cancellerie governative centrali e periferiche, emblemi, bandiere e simbolo statale venendo essi a formare l’unità di un sistema giuridico avente in sé il proprio centro autonomo che rifiutava qualsiasi autorità superiore.

Gli Stati di diritto e di fatto della Sardegna medievale erano: il Giudicato di Gallura, parte nord-orientale dell’Isola, con capitale Civita; il Giudicato di Torres o del Logudoro, la parte nord-occidentale, con capitale Torrès, poi Ardara, il Giudicato di Arborea, la parte centrale, con capitale Tharros, poi Oristano e il Giudicato di Kallari, la parte sud-occidentale con capitale Kallari - Karel per i Cartaginesi e Karalis per i Romani, la città la cui storia militare, inizia nel 1217 e termina nel 1866.

Kallari, fu rasa al suolo all’epoca della più poderosa e feroce delle incursioni saracene: quella diretta nel 1015 dal principe arabo Mugahid al Amiri, per il quale la Sardegna era la migliore base d’appoggio, il centro da cui potevano partire ulteriori conquiste. L’antichissima città fu per tal motivo abbandonata da tutti; fu un abbandono senza ritorno che segnò la fine della stessa. Gli stessi Giudici dovettero risiedere in diverse località vicine, sinché si trasferirono definitivamente nella villa di S. Igia. La villa, detta anche di S. Gilla, S. Gilia, S. Ilia e più tardi anche di S. Cecilia, era ubicata tra la riva orientale dello Stagno di S. Gilla, la località detta Fangario e l’odierno quartiere di S. Avendrace. Là si trasferirono la Reggia dei Giudici, l’Episcopio, la Cattedrale, dedicata a S. Cecilia, e le istituzioni amministrative e vi si costruirono le chiese dì S. Maria di Cluso, di S. Paolo e di S. Pietro dei Pescatori, una scuola di scrittura, un ospedale e un cimitero. La villa, nuova Capitale del Giudicato, fu munita di poderose mura turrite e di fossato.

Scomparso dai mari sardi il pe­ricolo saraceno (1016), i traffici tra la Sardegna e la terraferma furono subito riattivati. Fu allora che cominciò ad affermarsi nell’Isola l’influsso delle Repubbliche di Pisa e di Genova, prima per mezzo di trattati commerciali con i Giudici sardi, poi per mezzo di privilegi e di zone di attività riservate. Pisani e Genovesi si contesero ben presto con tutti i mezzi i prodotti e il mercato isolani.

Sfruttando le unioni matrimoniali di diversi emi­nenti loro cittadini con le famiglie dei sovrani dei quattro Giudicati, Pisa e Genova si aprirono una via indiretta al predominio che entrambe volevano attuare sull’isola. Portarono in quest’ultima la turbolenza feudale e le rivalità comunali a tal punto che i Giudicati, smembrati, erano destinati a cadere in rovina uno dopo l’altro.

La dinastia kallaritana si spense col Giudice Costantino II di Lacon, morto nel 1165 senza eredi maschi. Delle tre figlie, una sposò Pietro I di Lacon, fratello del Giudice di Torres, che salì sul trono di Kallari; le altre due sposarono due cittadini pisani: Tedice di Donoratico e Oberto, Marchese di Massa. Una figlia di Pietro I sposò anch’essa un cittadino pisano: Eldito della famiglia dei Visconti, e da quel matrimonio nacque Lamberto.

Pietro I, avendo attuato una politica contraria agli interessi commerciali dei Pisani ed essendosi avvicinato a Genova, venne costretto alla fuga da un gruppo di armati giunta da Pisa comandata da due usurpatori: Oberto Marchese di Massa e suo figlio Guglielmo.

Proprio quest’ultimo salì al trono di Kallari col nome di Guglielmo I di Massa, inaugurando così nel regno di Kallari la dinastia pisana.

Il suo governo fu saldo, duro, feudale. Col passar degli anni, la famiglia dei Massa si ambientò nella nuova terra e col tempo si “sardizzò” completamente. Verso l’anno 1180, al tempo della cruenta lotta tra i Comuni di Genova e di Pisa per l’affermazione del loro predominio economico sulla Sardegna, una pacifica colonia di mercanti pisani, con l’accondiscendenza del Giudice Guglielmo I, si sta­bilì sul nudo colle calcareo sito dietro il porto della scomparsa Kallari.

Il colle, alto un centinaio di metri sul livello del mare, era facilmente difendibile da probabili assalti genovesi. Aveva l’aspetto di una rocca; era vasto venti ettari, di forma vagamente trapezoidale, col lato più corto volto verso sud e il lato più lungo - quasi uno strapiombo di una trentina di metri - volto ad est, su un piano sensibilmente inclinato verso ovest e leggermente verso sud.

La colonia fondò sul colle un nuovo borgo: il primo nucleo dell’odierna città di Cagliari. Il. colle era chiamato dai Sardi “Mont’e castru” - cioè monte a guisa di baluardo - o più brevemente “castru”, proprio perché le sue caratteristiche lo facevano sembrare una fortezza.

Di tale denominazione toponomastica i coloni fecero la traduzione, declinando alla latina, in “Mons de Castro”. Il colle venne ben presto abitato.

Il nuovo borgo fu posto sin dal suo sorgere sotto la sovranità del Giudice. I coloni ben presto stabilirono un vero monopolio commerciale avendo in mano tutta la produzione del territorio circostante e convogliandola verso il porto da essi stessi riattivato precedentemente.

La lotta combattuta da Pisa e da Genova per affermare il proprio predominio esclusivo sulla Sardegna e particolarmente sul Giudicato di Kallari era diventata cruenta.Intanto il console pisano Lamberto, figlio di Eldito della famiglia dei Visconti, erede del Giudice Pietro I, appoggiato dal Comune dell’Arno, volendo prevalere sui Massa per il dominio delle terre sarde e prevenendo una sicura mossa genovese, attuò un rapido colpo di mano: verso la metà del 1216 sbarcò nel cagliaritano con un forte esercito e, raggiunta S. Igia, con promesse di protezione e con pressioni e minacce, costrinse l’allora Giudicessa Benedetta di Massa - succeduta al padre Guglielmo I nel 1214 - a cedergli il colle. Per ordine di Lamberto, una folla di uomini guidata da valenti architetti e ingegneri militari nel 1217 fortificarono il borgo, circondandolo con una grande e formidabile cinta muraria munita di ventiquattro torri e di tre soli ingressi.

La rocca fu eretta per conto del Comune di Pisa al soloMappa del 1326 scopo di dominare l’intero Giudicato. Il borgo venne occupato da una nuova e agguerrita colonia pisana; fu retto da un capitaneus e chiamato “Castrum novum de Castro”. In seguito fu retto da un Castellano coadiuvato da un Assessore, entrambi mandati da Pisa, e con una magistratura e ordinamenti dati dalla Repubblica e chiamato definitivamente Castellum  Castri de Kallari, o più brevemente Castellum Castri, cioè Castello di Castro in cui “Castri” riprendeva il precedente “Montis de Castro” cioè “Castello del colle del cagliaritano”.

Il Castello era dunque organizzato secondo le forme consuete dei Comuni italiani di quel periodo. Il governo del Comune era affidato ai Castellani: erano essi forniti di attribuzioni militari, amministrative e di polizia. Nell’esercizio delle loro funzioni, che erano regolate dal “Breve Castellanorum Castelli Castri”, erano coadiuvati da un giudice e da notai eCagliari XIV-XV avevano alle loro dipendenze uomini d’armi, tesorieri e un pubblico banditore. Accanto al Consiglio Maggiore del Comune, detto Parlamentum, che si riuniva nella Cattedrale del Castello, era la rappresentanza speciale dei ceti sociali operanti nel Comune: il Consiglio Minore, o Consiglio degli Anziani.

Il Castel di Castro di Kallari, la cui erezione aveva richiesto diversi anni di lavoro, destava una straor­dinaria impressione di forza, minaccia e nobiltà insieme.

Una volta portato a termine il suo sistema fortificatorio, il borgo, o meglio la città, diventò una roccaforte pressoché inespugnabile in uno dei più splendidi esempi di architettura militare del Medio Evo. Il Castello, di forma pressoché trapezoidale, aveva un perimetro di 1350 metri; la lunghezza massima era di metri 550  e la larghezza massima di metri 200.

Il materiale da costruzione impiegato per l’erezione delle mura e delle torri consisteva nella pietra calcarea da taglio detta “pietra forte”; nel calcare arenaceo detto “tramezzano”, e nel calcare argilloso arenaceo detto “pietra cantone” o volgarmente “tufo”, tutti ricavati dai numerosi colli kalaritani e dall’Anfiteatro Romano. Le pietre del sistema fortificatorio erano squadrate, disposte a ricorsi irregolari e prive di intonaco, “a faccia vista” sia all’esterno che all’interno. Nella cinta, dal lato esterno, erano visibili qua e là le armi pisane: tre scudi in basso disposti orizzontalmente e aderenti l’uno all’altro e uno scudo sopra, a contatto col sottostante scudo di mezzo: in quest’ultimo era lo stemma della città, il più antico perché risalente all’epoca della costruzione della rocca: un castello munito di tre torri. Tre sole porte, delle quali purtroppo non sappiamo né nome né descrizione, davano accesso alla città: una da mezzogiorno, una da tramontana e una da ponente.

Probabilmente tali porte dovettero essere simili alle porte delle più importanti fortezze costruite in Europa sino a tutto il XIII secolo, cioè rettangolari, sporgenti dalle mura, con l’androne difeso da poderosi serragli - portoni ferrati muniti di spranghe - e sormontate da una torre.

I Pisani sicuramente munirono di una torre ciascuna delle porte del Castello di Kalari, fortezza di prim’ordine, perché fosse possibile la sua difesa dall’alto, consistente nel lancio di dardi, macigni, piombo fuso, pece bollente sugli attaccanti, qualora fossero intenzionati a sfondare la porta. Molto probabilmente le torri presenti nello stemma della cit­tà indicavano che le tre porte erano turrite.

La Porta Maestra, cioè la porta principale della città - quella aperta nel tratto di cinta volto a sud-est -si ergeva sopra un’elevazione rocciosa; dietro ad essa era una piazzetta irregolare, l’attuale Piazzetta Lamarmora. La cinta, si diramava ad occidente seguendo un percorso lievemente sinuoso e si innestava nel fianco della Porta Occidentale, sita nel punto d’incontro della via Università con la piazzetta San Giuseppe.

Questo tratto di cinta era diviso in cinque cortine da quattro torri semicircolari e uguali. Come tutte le torri del Castello esse avevano il lato interno aperto e 3 impalcati lignei comunicanti mediante scale pure lignee. La Porta Occidentale era nota anche come Porta dell’ElefanteTorre dell'Elefante: pochi anni dopo la sua erezione era stata adornata da un’elegante scultura marmorea raffigurante l’elefante, simbolo di forza e tenacia ed emblema di una compagnia di mercanti che si era stabilita nella “Ruga Leofantis”, l’odierna Via S. Croce. Dietro la porta era uno spiazzo irregolare da cui partivano quattro strade la più importante delle quali era proprio l’anzidetta “Ruga”.

Dalla Porta Ovest, o dell’Elefante, si staccava il muro di collegamento con la porta volta a tramontana, detta Porta Nord, sita pochi metri oltre l’odierno Conservatorio delle Figlie della Provvidenza. Il muro, poggiando sull’orlo del costone incli­nato del colle, disegnava inizialmente una vasta rien­tranza andando a lambire parecchie case d’abitazione, case tutt’ora disposte a semicerchio nel primo tratto della via S. Croce; si sviluppava poi da sud a nord con forte elevazione, quasi in rettilineo, rasentando le case della stessa strada sino al sito oggi occupato dalla cinquecentesca chiesa di S. Maria del Monte di Pietà; poi, aggirata questa, giungeva sull’orlo del Fosso detto di S. Guglielmo: si sviluppava su una parte dell’orlo e si dirigeva all’attuale ripida salita detta oggi Via Fiume; seguita questa, voltava a destra ad angolo retto e si univa alla Porta Nord. Il tratto di questa lunga muraglia compreso tra la Porta dell’Elefante e il Fosso di S. Guglielmo era diviso in otto cortine da otto torri delle quali le prime sei, procedendo verso nord, erano rotonde e le altre due rettangolari.

La torre più vicina alla Porta Ovest, dal lato dell’attuale Stampace, aveva senz’altro una denominazione a noi sconosciuta; le successive erano la Torre Mordente; la Torre di Fores; la Torre della Fontana;delle quattro successive, - due rotonde e due rettangolari, non si sanno i nomi.

Il tratto di muraglia lungo la Via Fiume non aveva difese, poiché l’altezza ne faceva un baluardo invalicabile. L’ultimo tratto che si sviluppava di fronte alla testata dell’attuale Viale Buoncammino si componeva di una torre angolare rotonda detta “la Passerina”, di una cortina, della Torre detta Franca, anch’essa rotonda e della cortina che si innestava nella Porta Nord.

Il tratto orientale della cinta del Castello compreso tra la Porta Nord e la piazzetta antistante l’attuale Scuola Elementare di S. Caterina si svolgeva in maniera sinuosa seguendo l’orlo del colle, il cui costone da questo lato era alto poco più di trenta metri ed era composto di 6 cortine ed era difeso da 6 torri rettangolari. Tra la Porta Nord e il Duomo, procedendo verso sud, c’erano la Torre Tedeschjna , la Torre di S. Lucia e la Torre del Palazzo Regio; a sud del Duomo vi erano due torri il cui nome è sconosciuto  e la torre detta della Fontana Bona.

Tra quest’ultima torre e la Porta Sud, vi erano due cortine e tra esse una torre rotonda detta della Manayra. Tra il sito oggi occupato dalla Scuola di S. Caterina e la sottostante cor­tina il terreno era fortemente inclinato verso sud, quanto la strada oggi chiamata Via Canelles, non esistendo ancora il Bastione di S. Caterina.

La cinta muraria del Castello era difesa dunque da 24 torri. Le torri noi la cui denominazione è sconosciuta furono realmente erette perché strategicamente necessarie, è impossibile infatti affermare che i Pisani, ottimi costruttori di fortezze, negli ottanta anni di loro residenza nel Castello abbiano dimenticato di proteggere alcuni tratti della cinta muraria.

Certamente molti si sono chiesti se le porte del Castello fossero o no sormontate da una torre. Se i tre ingressi non fossero stati turriti, la Porta Nord sarebbe risultata difesa dalla sola Torre Franca, posta alla sua sinistra, alla distanza di poco meno di trenta metri; la Porta Ovest, o dell’Elefante, difesa dalla sola torre posta alla sua destra e dalla medesima distanza; la Porta Sud difesa dalle torri che la fiancheggiavano, distanti circa sessanta metri l’una dall’altra: si sarebbe avuta, cioè, una difesa inefficace consistente nel lancio di soli dardi e giavellotti. I pisani sicuramente preferirono munire di torri gli ingressi del Castello perché venissero difesi molto più efficacemente da una distanza ravvicinata, cioè dall’alto, mediante un bombardamento di armi di ogni genere pro­venienti dal terrazzo e dalle feritoie.

Altre fortificazioni si ergevano esternamente alla cinta  per ulteriore difesa delle tre porte del Castello: erano questi gli antemurali, anticamente chiamati barbacani. Queste mura si sviluppavano davanti alle porte e si univano alle cortine laterali, racchiudendo una vasta corte.

La Porta Sud e le due cortine che la fiancheggiavano erano costruite su un’elevazione rocciosa. Davanti ad esse c’era una vasta corte contornata da un antemurale merlato, spesso circa un metro, che rendeva invisibile dall’esterno l’ingresso del Castello: era questo il Barbàcane della Porta Sud. La parte occidentale della corte era vasta e pianeggiante e quella orientale lunga, meno ampia e inclinata: tale inclinazione era stata ricavata mediante grandi tagli nella roccia per consentire un’agevole uscita dal Castello. Tale rampa artificiale non è che l’attuale Via Mario De Candia, anticamente più larga. Alla fine della discesa era aperta nel barbacane una porta “falsa”, cioè una porta secondaria, chiamata anche avamporta o controporta. A pochi metri a destra della porta principale era aperta nella cortina una pusterla, o porta di soccorso, stretta ed alta tanto da consentire il passaggio di un cavallo; era l’unica porta che veniva tenuta aperta in caso di stretto assedio: consentiva ai difensori del barbacane di rifugiarsi nel Castello in caso di ritirata; era utile anche per le sortite in caso di assedio a distanza.

La Porta Ovest, o dell’Elefante, era anch’essa completamente mascherata da un barbacane disposto a semicerchio e composto di cinque elementi. Nell’antemurale era aperta una porta falsa antistante la Porta dell’Elefante. La porta falsa era certamente munita di fosso, ponte levatoio e ponte fisso. Infatti il ponte levatoio, foderato di ferro contro gli incendi, era usato in Europa contemporaneamente al fossato dal XIII secolo in poi. Di fosso e di ponte, come si sa, venivano munite solo le porte esterne dei castelli, cioè quelle poste in prima linea.

Un sentiero assai largo, tortuoso e ripido mette­va in comunicazione la sottostante campagna con la porta falsa della Porta dell’Elefante.

La Porta Nord, costruita su un’elevazione rocciosa, era munita di un barbacane spesso due metri che delimitava una vasta corte trapezoidale - il cortile d’armi -utile per l’organizzazione delle sortite in caso di assedio. Oltre il barbacane vi era una lunga e larga cavità naturale simile ad una trincea che provvidenzialmente fungeva da fossato. Il fossato iniziava dalla Piazza Arsenale - piazza allora non ancora esistente -e aumentando gradualmente in lunghezza e in profondità terminava presso il ciglio del costone orientale del colle. L’accesso al fossato, dal lato della Piazza Arsenale, era bloccato da uno spesso muro partente dallo stesso barbacane; l’estremità orientale della trincea non presentava da quel lato nessuno sbocco.

Sulla riva opposta del fossato, dove era più profondo, un’alta elevazione rocciosa lo rendeva invalicabile. Nel barbacane si apriva una porta falsa corrispondente con la Porta Nord, munita di portone e spranghe e sormontata da una torretta; essa immetteva nel ponte levatoio gettato sul tratto meno largo del fossato in vicinanza alla Piazza Arsenale. Il ponte, non avendo lunghezza sufficiente a raggiungere la riva opposta del fossato, poggiava sul ponte fisso, a più campate - non sappiamo se in muratura o in legno.

Il ponte levatoio era mascherato ad occidente dal muro che chiudeva il fossato. Il lato occidentale del barbacane prospiciente l’odierna Piazza Arsenale era difeso da un altro fossato, questa volta artificiale e indipendente dal primo. Il lato destro dell’antemurale poggiava sul ciglio orientale del colle. A nord del fossato si estendeva il colle roccioso detto oggi del Buoncammino.

Per introdursi nel Castello da quella parte si percorreva il ponte, si superava la porta falsa, si per­correva il cortile d’armi, si attraversava la Porta Nord e discendendo una rampa ricavata da un rialzo roccioso esistente si giungeva ad una vasta piazza - l’attuale Piazza Indipendenza - dalla quale avevano inizio cinque strade. Per maggiormente fortificare il fronte meridionale del Castello si era costruito esternamente ad esso un lungo e poderoso barbacane - chiamato Contromuraglia del Castello e che delimitava uno spiazzo libero: partendo dall’antemurale della Porta dell’Elefante si dirigeva a sud-est e poi ad est for­mando un angolo ottuso col vertice verso l’esterno, infine continuando verso nord si congiungeva all’antemurale della Porta Sud, qualche metro a destra della sua porta falsa . Sul vertice dell’angolo ottuso, e sporgente dallo spigolo della muratura, c’era una torretta di avvistamento, dalla cui sommità si dominava la base della Contromuraglia e il territorio sottostante e avente ai suoi piedi, dal lato interno, un piccolo edificio adibito a corpo di guardia. Nella lunga Contromuraglia si apriva una porta in corri­spondenza con la porta falsa della Porta Sud. Era questa la prima porta dell’ingresso principale del Castello, più tardi nota come Porta a Mare e Porta Castello, munita di por­tone, ponte e fosso.

Ci si inoltrava nel Castello da sud varcando la Porta a Mare, percorrendo una prima rampa sostenu­ta dalla Contromuraglia, corrispondente al primo tratto in salita dell’odierna Via Università; si per­correva una seconda rampa sostenuta da un poderoso muro di contenimento che conduceva all’avamporta della Porta Sud; si varcava questa avamporta, si per­correva una terza rampa - l’odierna Via Mario de Candia - e infine si varcava la Porta Maestra del Castello. Tali rampe, larghe e diritte, disposte a zig­zag, furono ricavate dalla viva roccia forse dai primi abitanti del colle per superare agevolmente in salita il forte dislivello esistente. Era questo l’aspetto dell’ingresso principale del Castello, costituito da tre porte successive. Le tre rampe erano ma­scherate da oriente da un tratto del barbacane della Porta Sud e dalla Contromuraglia che ad esso si uni­va. Sotto la lunga Contromuraglia, dal lato esterno, vi era un gradone roc­cioso a strapiombo da cui iniziava la costa del colle, la quale digradava per un tratto lunghissimo in modo irregolare sino alla spiaggia del porto. Il piano del colle, era inclinato verso ovest e ver­so sud per cui la rocca era maggiormente attaccabile da quei lati. Le mura volte ad oriente, situate sul ciglio del lungo costone del colle alto oltre una trentina di metri, erano meno spesse e meno alte poiché si presumeva che da quel lato la rocca non sarebbe mai stata attaccata. I barbacani delle porte e la Contromuraglia del Castello erano più bassi e meno spessi della cinta.

Le torri presentavano diverse forme e dimensioni: alte e rotonde quelle inserite nelle mura più alte; rettangolari e più basse quelle incorporate nelle mura meno alte. Ret­tangolari erano le torri munite di porta e probabilmente alte quanto le altre. Ai piedi della cinta, tra questa e le case d’abitazione, scorreva una lunghissima strada; essa veniva tenuta sempre libera per consentire ai difensori del Castello, in caso di assedio, di raggiun­gere immediatamente le poche scale incorporate nelle mura che conducevano ai loro posti di combattimen­to nel cammino di ronda delle cortine e nelle torri. Il cammino di ronda passava anche dietro queste ulti­me, cioè dal lato interno, per rendere possibile un rapido spostamento dei difensori verso le mura mi­nacciate e una agevole ispezione lungo tutta la cinta in tempo di pace. La lunga strada ai piedi della cinta era interrotta in un solo punto da un lungo terrapieno costruito dai Pisani per annullare il dislivello del terreno fortemente inclinato verso ovest presente nella parte nord-occidentale del colle.

Il terrapieno, in cui oggi c’è il giardino delle monache della Purissima e il cortile di un Istituto scolastico, era situato internamente alla cinta  del Castello; era sostenuto da un solido muro verticale ed era compreso tra l’altissima cortina so­vrastante la Via Fiume e il Vico Pietro Martini.

Il cammino di ronda era protetto da un para­petto a filo di muro terminato superiormente da merli di sagoma rettangolare. I Pisani di stanza nel Castello di Karalis che, come si sa, erano di parte ghibellina, furono tra i primi in Europa a mu­nire le cinte murarie di tali elementi.

Solo più tardi, nel costruire le fortezze, i Ghibellini usarono merli “a coda di rondine” e i Guelfi merli ‘‘a testa piatta’’, cioè di profilo rettan­golare. Le porte e le torri del Castello di Kalaris erano anch’esse munite di merli a filo di muro. La lunga Contromuraglia del Fronte Sud era anch’essa munita di scale, cammino di ronda e parapetto merlato. I barbacani delle tre porte erano anch’essi muniti di merli, ma solo ornamentali, poiché il loro ruolo era di ritar­dare il più possibile l’assalto nemico alla porta vera e propria. Le torri del fronte nord e del fronte sud erano distanti l’una dall’altra poco meno di trenta metri; quelle del fronte occidentale tra la Porta Ovest e il Fosso di S. Guglielmo circa quarantacinque metri.

Erano disposte strategicamente, cioè a di­stanze uguali, per garantire una uguale ed efficace difesa a tutte le cortine. Tale disposizione fu consen­tita dal fatto che il terreno che si sviluppava esternamente alle mura non presentava delle irregolarità. Come è noto, la distanza tra le torri non raggiungeva mai la gittata massima dell’arma principale di quei tempi, cioè dell’arco, anzi era sempre minore e ciò per ottenere un buon fiancheggiamento, il quale consisteva nel tiro incrociato e poi di sbarramento effettuato dai difensori disposti su due torri vicine per colpire di fianco il nemico che avanzava frontal­mente contro la cortina allo scopo di scalarla. Si ebbero quindi cinte con le torri distanti tra loro solo 30 metri, mentre in altre tale distanza raggiunse per­sino i 150 metri, come a Cartagine. Solo le torrette del fronte orientale - quello difficilmente attaccabile distavano tra loro circa settantacinque metri in li­nea d’aria.

La Porta Ovest o dell’Elefante era anch’essa inattaccabile con macchine da percossa a causa dell’assai ripido sentiero che dalla campagna sottostante conduceva ad essa. Il fronte occidentale del Castello, difficilmente scalabile con scale articolate, po­teva essere attaccato a distanza con le catapulte: le sue torri però erano rotonde ed erano quelle che offrivano maggior resistenza contro gli urti; inoltre grazie alla loro rotondità erano in grado di sviare i massi contro di esse scagliati evitando così lo sfondamento. Inattaccabile era il Castello anche dalla parte del Fosso di S. Guglielmo data la considerevole altezza su cui erano disposte le mura. Nessuna macchina da scalata poteva esser condotta ai piedi delle mura site tra il Fosso e la Via Fiume essendo molto ripida la discesa di quest’ultima. L’intero fronte orientale del Castello, le cui mura erano costruite su un’altissi­ma parete, non poteva essere danneggiato da nessuna macchina. Solo il lato settentrionale del Ca­stello - quello svolgentesi di fronte all’attuale Viale Buoncammino - poteva essere attaccabile da parte di macchine da percossa e da scalata.

All’interno della poderosa cinta muraria fioriva la città che i Pisani avevano abbellito ed ingrandito. Le strade principali - le “rugae’’ - si svolgevano longitudinalmente fra le Porte Sud e Nord: la Ruga Mercatorum - l’attuale Via Lamarmora - era la più lunga, la più antica, la più importante; a metà percor­so essa immetteva nella piazza centrale del Castello, che si sviluppava su due livelli uniti da una scalinata; altre strade importanti erano, sempre in senso longitudinale, la Ruga Marinariorum - l’attuale Via Canelles -; la Ruga Communalis - Via Genovesi - e poi ancora la strada del Fossario lungo le mura orien­tali; la Ruga Leofantis - Via S.Croce; la Ruga Pellionorum - Via Duomo -; la Ruga Fabbrorum - Via Martini - ed altre ancora. Queste vie erano colle­gate fra loro da vicoli detti ‘‘traversae’’, che prendevano nome dai cittadini che le abitavano.

La Ruga Mercatorum, immetteva nella piazza centrale del Castello, la “Pla­tea Communis”, l’odierna Piazza del Duomo; nella piazza si affacciavano i principali edifici pubblici: la Casa Comunale, la Casa dei Castellani, la Chiesa di S.Maria, Duomo della città, la cui abside era sul ciglio del costone orientale del colle e interrompeva la cinta muraria; il Fossario, cioè il cimitero annesso al Duomo; l’Episcopio, la Loggia Reale, la Loggia del Sale; alcune delle case dell’Opera del Duomo di Pisa e le case delle più nobili famiglie che abitavano nella rocca. Nella piazza si svolgeva la vita commerciale: si teneva il mercato dei cereali e si svolgevano le contrattazioni mercantili. Nel Castello oltre ai Castellani, ai funzionari, alle milizie e all’Arcivescovo erano presenti associazioni mercantili e di mestiere, quali la “pellaria’’,la ‘vinaria”, la “gamurra’’, la “marinaria’’ e la “ferraria”, che avevano propri capitanei e possedevano case, botteghe e magazzini. Le case del Castello erano a più piani “solariate et ballatoriate” sporgenti a menso­la all’uso pisano, aperte a terra, in vasti magazzini e luoghi di riunione. Il mercato dei pesci e della carne era ubicato nello spiazzo, tra il fronte meridiona­le del Castello e la sua lunga Contromuraglia e precisamente tra l’antemurale della Porta Ovest e le tre rampe d’accesso alla Porta Sud. In seguito alla nascita del mercato una nuova porta falsa era stata aperta nel barbacane della Porta dell’Elefante perché gli abitanti della parte occidentale della rocca vi si recassero direttamente. Il macello era al di fuori delle mura occidentali tra la Porta Ovest e la Torre Mordente. Le risorse idriche su cui la popolazione e i militi potevano contare in caso di assedio o di incendi erano insufficienti. Un solo pozzo si trovava nel Castello: era situato quasi nel mezzo della piazza antistante la Porta Nord, l’attuale Piazza Indipendenza. Scavato neI 1253, esso si scendeva nella roccia per 120 metri.

Per uso potabile si raccoglieva l’acqua piovana nelle circa tremila piccole cisterne di cui erano fornite le case e gli edifici pubblici. Le merci provenienti dall’entroterra venivano introdotte nel Castello dalle Porte Ovest e Nord.

Per la Porta Sud, l’ingresso più importante e più trafficato della rocca, si svolgeva giornalmente sino all’ora di chiusura della porta che avveniva al tramonto del sole - un ininterrotto transito di pe­doni che si recavano dalla zona portuale al Castello e viceversa, diretti al mercato della carne e del pesce o dei cereali per farvi gli acquisti e di mercanti diretti alla Loggia Reale o del Sale o alla Loggia del Porto per stipularvi le contrattazioni, e un transito di carri trainati da buoi o da cavalli, muniti di ruote piene e dentate per superare senza incidenti la forte pendenza delle strade che conducevano sul colle, veicoli adibiti al trasporto delle merci scaricate nel porto e destinate alla città alta. Al tramonto del sole i sardi, che durante il giorno si erano recati per i più dispara­ti motivi alla rocca, si affrettavano ad uscire essendo loro vietato il pernotto entro le mura.

Chiuse le porte, nel Castello cessavano tutte le attività.

La zona portuale, detta “Bagnaria” e poi “La Pola” , dal lato terra era fortificata. Il Castello e la zona portuale erano messi in comunicazione da un lungo e tortuoso sen­tiero corrente lungo la costa del colle, corrispondente al tratto superiore della Via Giuseppe Manno e alla Via Barcellona. Il porto, esteso allora solo qualche centinaio di metri, non possedeva moli né alcuna regolare banchina.

Secondo la tipica architettura por­tuale dei Pisani, una poderosa palizzata in legno era disposta ad arco piantata nel basso fondale a gran­de distanza dalla battigia; la palizzata, che fungeva da molo foraneo, iniziava dal sito noto come Punta de sa Perdixedda e terminava un po’ oltre l’attuale braccio sinistro della darsena. Come è noto, i pisani sapevano impiantare le palizzate con tanta perfezione da farle resistere ad ogni genere di intem­perie, ai venti più terribili ed al mare più burrascoso. La palizzata del porto di Kallari si componeva di lunghi pali infissi nel fondo del mare e tenuti da traverse inchiodate; aveva nel mezzo un varco per il passaggio delle navi, varco che durante la notte veniva vigilato e tenuto chiuso con una catena per impedire l’ingresso di navi nemiche nel porto. Nello specchio d’acqua, perpendicolare al lido, c’era un lungo pontile ligneo per l’ormeggio delle navi mercantili.. In seguito le navi, a turno, attraccavano al pontile per l’operazione di scarico e di carico delle merci. A Kalaris si importavano preziosi, panni, porpora, co­tone, canapa, lino, seta, tappeti, spezie, lana; da Kalaris si esportavano lana, grano, orzo, formaggi, vino, legname, minerali, cavalli, pecore, capre e così via. La zona portuale era sotto la giurisdizione diret­ta di suoi consoli e rappresentava nient’altro che un prolungamento funzionale del Castello anche se ave­va proprie fortificazioni. Nel quartiere “La Pola” o “Bagnaria” aveva sede il complicato organismo portuario che comprendeva i magazzini di deposito e gli uffici della dogana, del misuratore e del portolano e la loggia ove con bandi si pubblicavano i noleggi e i movimenti delle navi nel porto, mentre in vicinanza alle due chiese di S. Leonardo e di S. Lucia, delle quali si sa che furono costruite anteriormente al 1263, si elevavano gli edifici e le poche abitazioni delle maestranze addette ai servizi del porto e del personale addetto alla sorveglianza delle opere di difesa.

Questo nucleo di popolazione occupava una zona assai limitata; non si estendeva infatti oltre le attuali Via Baille, Via Cavour e Via Barcellona, sino alla Via Manno. In caso di attacco nemico il porto veniva difeso anche dagli abitanti della città alta. Ciascun mercante domiciliato nel Castello doveva tenere le armi in casa ed esser pronto a diventare soldato agli ordini dei Consoli e dei Castellani per la difesa del porto.

Il porto di Kalaris era tradizionalmente considerato un sicuro approdo per i bastimenti battenti le rotte del Mediterraneo occidentale; esso ospitava ogni anno centinaia di navi.

Tale era l’aspetto del Castello e del suo porto verso la metà del XIII secolo. Questa gigantesca fortezza, tra le più formidabili dell’Occidente, indi­pendente e minaccioso nei confronti dei Giudici, fu da allora un vero baluardo di volontà di dominio pisano nel Giudicato di Kallari.



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