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ESERCIZI
DI STILE
Magazine on
line
ovvero:
il piacere di scrivere! |
| Guerra
e Pace di Morena Battilana,
(3F Linguistico) |
| Un testo,
una canzone, un po' di idee: L' Isola Che Non C'è (Edoardo Bennato)
di Silvia Frassetto (2E Linguistico) |
| Un testo,
una canzone, un po' di idee: La Guerra di Piero (Fabrizio De Andrè)
di Valentina Bessegato ((2E Linguistico) |
| L'Amore
di Morena Battilana (3 F Linguistico) |
| Il
Valore del Regalo di
Andrea Modesto (3 B Liceo delle Scienze
Umane) |
|
Islam e Occidente: dualismo
inconcilabile? a
cura di Alessia Casagrande, Selena Perotto, Chiara Sgarbossa (5A),
Paola Citarella, Francesca Sernaglia (5E), Vanessa Berlato e Elena
Zanotto (5F) |
|
Fare
scuola dopo Auschwitz di Silvano
Sabbadin, docente |
|
La Shoah e la Memoria
di Linda
Martignago, Jacopo Rossi (4F Linguistico) - Gisella Piccolo, Silvia
Pozzebon (4 A Psico Pedagogico) |
|
Rapporto
tra Cultura e Politica di Silvia
Nicoletti, Elena Pasqualato, Elisabetta
Posmon e Michele Pandolfo (classi 5 E - 5 F Liceo Linguistico) |
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|
Un
altro scritto,
sotto forma di lettera questa volta,
di Morena Battilana,
che le ha valso una segnalazione nell'ambito della
II° edizione del premio "Antonio Russello"
(Castelfranco Veneto, 18 maggio 2003) |
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GUERRA
E PACE
di
Morena Battilana 3F Linguistico
Caro
amico lontano…
Ti scrivo per raccontarti di quel giorno in cui mi recai a Venezia, perché
mi successe qualcosa di impensabile che devo assolutamente condividere con
qualcuno.
Era un giorno uggioso e triste. Una candida pioggerellina continuava
imperterrita a posarsi sulla gente che passeggiava. Le mie ossa erano
intrise di umidità e solitudine, perciò, dopo parecchi chilometri di
madido cammino, decisi di abbandonarmi per un poco al calore di un esiguo
locale di una calle dimenticata. Mi sedetti tranquilla ad un tavolino in
un angolo e ordinai una tazza di caffè bollente….
Aspettando l’amara bevanda, cominciai a volgere un poco il mio sguardo
sugli altri clienti, e la mia attenzione subito fu attirata da due donne
che parlavano pacatamente tra loro. Questo mio interesse fu dettato
inizialmente dalle loro vesti: indossavano due tipiche maschere
carnevalesche veneziane (sai, quelle sontuose ed eleganti, molto curate
nei dettagli), che donavano un’indescrivibile maestosità ad entrambe.
Una delle due aveva un abito di color bianco, intarsiato di piccoli
brillanti sul petto e sulle maniche del vestito. La gonna di questa era
ampia, luminosa, ricamata di un pizzo finissimo e minuzioso e, sotto
questa, si scorgevano due piccole scarpette bianche senza tacco. La
maschera che indossava sul viso mi mise un po’ d’inquietudine: era
pallidissima, di un candore marmoreo, con lineamenti dolcissimi e
nel contempo molto tristi. Infatti, scendeva una piccola lacrima argentea
da quegli occhi dipinti con così tanta cura.
L’altra donna invece, pareva l’opposto. Il vestito che indossava era
più nero delle notti senza luna, più scuro dell’ebano, più tetro di
un pozzo abbandonato. Tuttavia questa tinta cupa non animò in me un senso
di apprensione: piuttosto, di fronte ad essa, l’unica sensazione che
riuscii a individuare fu un vuoto interiore. La gonna del suo abito era
anch’essa buia, anche se, tra le pieghe di questa, si intravedevano
degli sprazzi dorati e sanguinei. Sul petto tintinnavano delle piccole
monete d’oro e lungo le maniche del corpetto brillavano degli esili
serpenti di filo giallo luccicante. La sua maschera era ombrosa, con folte
piume di corvo tutt’attorno, e con agghiaccianti rubini vicino agli
occhi.
Non puoi assolutamente immaginare quanto angosciante e attraente fosse per
me il fatto di starmene lì a scrutare queste due donne avvolte nel
mistero. Purtroppo dall’angolo in cui ero seduta non riuscivo a
udire ciò che si stavano dicendo; in più le maschere sui loro visi mi
impedivano di decifrare le emozioni che esse stavano provando in quel
momento.
Nonostante questo, capii che dovevano essere veramente unite, forse amiche
del cuore, se non addirittura legate da un immacolato rapporto saffico. Le
loro mani si sfioravano teneramente sopra il tavolo e la postura di
entrambe comunicava un sentimento di placidità. Non erano assolutamente
in contrasto tra loro (come invece sembravano far capire i costumi):
pareva piuttosto che in quel piccolo locale sconosciuto, le due amanti si
dichiarassero totalmente complementari l’una dell’altra. Non so,
questa mia convinzione che ci fosse un legame indissolubile tra le due
donne si addentrò da subito nel mio animo.
Continuavo a fissarle intensamente, e mi perdevo nell’infinità del
tempo osservando i loro gesti. Era come se tutto intorno a me fosse
sfocato e appartenesse ad un’altra dimensione: tutto ciò che riuscivo a
percepire erano quelle due insolite figure, e davvero non ero capace di
distogliere il mio sguardo da quella coppia. Intanto il mio caffè
continuava a fumare sempre con meno vigore.
D’un tratto le due donne si volsero contemporaneamente verso di me. Mi
accorsi in un bagliore che i loro sguardi penetranti superavano la
barriera delle maschere e si fondevano direttamente nei miei occhi. Con un
senso di vergogna e pudore, tentai di abbassare la vista, ma qualcosa me
lo impedì. La loro occhiata era magnetica e ammaliatrice; non potevo fare
altro che obbedire al loro desiderio: la reciproca volontà di
attirare fino in fondo la mia attenzione.
Poi tutto attorno a me svanì realmente e magicamente. Mi ritrovai a tu
per tu con le due dame, in un luogo inspiegabile e a me oscuro: sembrava
una sorta di quieta catacomba che non mi trasmise né gioia né dolore, né
paura né tranquillità.
Le due donne continuavano a
scrutarmi mentre nella mia mente si aggrovigliavano pensieri, quesiti e
domande. Socchiusi le labbra insicure per tentare di chiedere spiegazioni,
anche se nel mio più profondo ego sapevo bene che loro non desideravano sulla mia bocca tremolante per
farmi tacere….
Non accadeva nulla. Restavamo semplicemente lì in silenzio, senza fare il
minimo movimento o rumore. Quella staticità mi penetrò nell’anima con
impetuosità, ma senza farmi del male vero e proprio. Di tanto in tanto
chinavo lo sguardo dinanzi a loro, come se fossero state divinità o
esseri metafisici, ma le donne continuavano a non parlare, a non respirare
neppure. Sembravano due statue prive di vita, due cadaveri paranormali e
fatati in grado di scrutare la mia mente intrisa di paranoie, paure,
emozioni.
Pensai che non aspettassero altro che un mio attimo di cedimento, e devo
dire che in effetti, questo non tardò ad arrivare…. In un baleno tutti
i miei pensieri ghiacciarono nel mio sangue bollente, e crearono un lampo
nero che mi lacerò l’anima. Credei di perdere i sensi, di cadere, di
svenire, ma proprio in quell'istante di perdizione le loro mani immortali
mi cinsero le braccia, mi ressero con forza in piedi, mi obbligarono a
rimanere presente e lucida. Poi, con passione sfrenata, le due
amanti si slanciarono verso il mio viso, e contemporaneamente socchiusero
le loro labbra freddissime e roventi sulle mie.
Nulla durò quel bacio, al massimo un battere d’ali di farfalla; eppure
mi sembrò un’eternità intera.
Si staccarono, si fissarono con velocità e poi all’unisono mi
spiegarono il motivo della loro visita e la loro stessa natura astratta.
Infine mi dissero i loro nomi….
E così tutto finì.
Ritornai repentinamente nel piccolo locale dimenticato e nessuno pose la
minima attenzione su di me, che ero stata altrove così a lungo e che solo
ora ero riapparsa. Ansimavo per la fatica, il cuore sussultava impaurito.
Il mio caffè era ancora lì immobile, ma oramai era freddo. Al tavolino
incantato le donne non c’erano più.
Mi alzai, pagai e me ne uscii di lì, senza aver bevuto la bevanda che
aveva perso il suo essere invitante. Me ne tornai sotto la pioggia e
fortunatamente l’aria aperta mi rischiarò le idee e la mente. Piansi a
testa alta per la gioia e per il dolore, per la paura e per la tranquillità.
Avevo in testa le due donne: ora danzavano assieme, ora si abbandonavano
all’amore più intimo, ora erano complici, ora rivali. Ora una e poi
l’altra giacevano immobili su sarcofagi d’avorio….
Camminai, presi il treno e rientrai a casa. E poi sognai, pensai,
riflettei a lungo su ciò che mi era accaduto quel giorno.
Vuoi sapere cosa mi dissero le due donne? Quando esse parlarono, mi
spiegarono che la loro esistenza era condizionata dall’uomo; erano due
creature trascendenti e incorporee, presenti sulla terra dall’inizio
della vita, che avevano assistito a tutti i procedimenti della storia
dell’umanità: interagivano col mondo intero giorno dopo giorno.
Tentarono di spiegarmi anche che non erano in opposizione l’una
all’altra (anche se lottavano per due fini opposti), che si amavano e si
odiavano costantemente, che però l’una non poteva esistere senza
l’altra. Erano in vita grazie a una complicità segreta.
Non mi seppero dire perché avessero scelto e aspettato me per dire tutto
questo. Io penso che lo fecero, in quanto ero l’unica che era riuscita
ad intuire questa complementarietà dal primo istante in cui posai gli
occhi su di loro….
Scusa lo sfogo, caro amico lontano, ma non riuscivo più a tenermi dentro
tutto questo. Anche se ti è difficile credere a questo racconto, ti
supplico di prestarmi fede perché necessito di un appoggio morale in
questo momento di inconsapevolezza e stupore. Da quel giorno in poi la
donna bianca e l’oscura dama nera mi accompagnano e vivono in me ovunque
io sia, e chissà mai che un po’ di loro non si sia impregnato
anche in te per mezzo di questa lettera confusa.
Ti saluto con affetto e attendo con impazienza una tua risposta e una tua
opinione sul fatto accadutomi.
A presto, …la tua cara amica.
P.S.: ah, dimenticavo la cosa più importante…. Le due donne hanno i
nomi di Pace e Guerra.
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UN TESTO, UNA CANZONE, UN
PO' DI IDEE:
L'ISOLA CHE NON C'E' (Edoardo Bennato)
di Silvia Frassetto 2 E Linguistico
Seconda
stella a destra
questo è il cammino
e poi dritto, fino al mattino
poi la strada la trovi da te
porta all'isola che non c'è.
Forse
questo ti sembrerà strano
ma la ragione
ti ha un po' preso la mano
ed ora sei quasi convinto che
non può esistere un'isola che non c'è
E
a pensarci, che pazzia
è una favola, è solo fantasia
e chi è saggio, chi è maturo lo sa
non può esistere nella realtà!....
Son
d'accordo con voi
non esiste una terra
dove non ci son santi né eroi
e se non ci son ladri
se non c'è mai la guerra
forse è proprio l'isola
che non c'è.... che non c'è!...
E
non è un'invenzione
e neanche un gioco di parole
se ci credi ti basta perché
poi la strada la trovi da te...
Son
d'accordo con voi
niente ladri e gendarmi
ma che razza di isola è?
Niente odio e violenza
né soldati né armi
forse è proprio l'isola
che non c'è.... che non c'è!
Seconda
stella a destra
questo è il cammino
e poi dritto, fino al mattino
poi la strada la trovi da te
porta all'isola che non c'è.
... E ti prendono in giro
se continui a cercarla
ma non darti per vinto perché
chi ci ha già rinunciato
e ti ride alle spalle
forse è ancora più pazzo di te!
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La
pubblicità si appropria di molte cose.
Una canzone degli anni settanta è stata riproposta recentemente
come sottofondo musicale di una comunicazione pubblicitaria.
Questo è anche servito per riscoprirla considerato che molti quando
uscì ancora non esistevano.
Si tratta dell’ “Isola che non c’è” canzone che Edoardo
Bennato compose nella seconda metà degli anni settanta e che è
inclusa nell’album “Sono solo canzonette”.
Edoardo Bennato è un cantautore napoletano di estrazione proletaria
che canta con anticonformismo.
Un autore che scrive contro il potere, il denaro, l’arrivismo e
l’ipocrisia.
Questa canzone parla proprio di un’isola perfetta senza odio e
senza guerra che rappresenta lo specchio della sua visione del mondo
ideale; è un’isola che presenta però un unico problema: non c’è.
Vi è quindi un contrasto tra la realtà e l’irrealtà, l’isola
è un’utopia, è frutto dell’immaginazione pensare che esiste.
In effetti non vi è alcun posto al mondo dove non ci sia mai la
guerra, l’odio, la violenza… lui se ne rende conto, sa che non
può esistere un posto così perfetto, ma nonostante questo continua
ad immaginarla, a coltivare questa illusione ed è alla continua
ricerca di un mondo che si possa avvicinare all’isola che non c’è.
Attribuisce, inoltre, notevole considerazione alla ricerca di un
posto così perché è essenziale nella vita sognare, credere ed
ambire a qualcosa, avere aspirazioni e desideri perché, in fondo,
è nella natura di ciascuno di noi; la nostra vita sarà sempre
piena di sogni e di speranze, che aiutano a superare momentanee
situazioni di sconforto, a dare più gioia alla propria esistenza e
a volte sono proprio queste a dare un senso alla vita.
La canzone è molto coinvolgente, efficace, semplice ma allo stesso
tempo complessa perché pur utilizzando un metodo agevole, sembra
quasi una favola, racchiude un importante contenuto che mira ad
esprimere un forte messaggio: nonostante le difficoltà ed i
possibili scoramenti che la vita inevitabilmente ci presenta bisogna
comunque aspirare ad una meta anche se difficile o irrealizzabile;
bisogna sperare….
Inoltre il testo è di evidente attualità perché la gente al
giorno d’oggi sente sempre più la necessità di sognare e di
avere ambizioni per vivere una vita felice e soprattutto in momenti
come l’attuale, con la guerra alle porte, c’è bisogno di
speranze perchè se dovesse un giorno scoppiare sarebbero proprio
quest’ultime a farci sognare un futuro migliore.
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UN TESTO, UNA CANZONE, UN
PO' DI IDEE:
LA GUERRA DI PIERO (Fabrizio De Andrè)
di Valentina Bessegato 2 E Linguistico
Dormi
sepolto in un campo di grano, non è la rosa, non è il tulipano,
che ti fan
veglia dall’ombra dei fossi, ma sono mille papaveri rossi.
“Lungo le
sponde del mio torrente voglio che scendano i lucci argentati,
non più i
cadaveri dei soldati portati in braccio dalla corrente.”
Così
dicevi ed era d’inverno e come gli altri, verso l’inferno
te ne vai
triste come chi deve, il vento ti sputa in faccia la neve.
Fermati
Piero, fermati adesso, lascia che il vento ti passi un po’
addosso,
dei morti
in battaglia ti porti la voce, chi diede la vita ebbe in cambio una
croce.
Ma tu non
lo udisti e il tempo passava con le stagioni a passo di “java”
Ed
arrivasti a varcar la frontiera in un bel giorno di primavera.
E mentre
marciavi con l’anima in spalle vedesti un uomo in fondo alla valle
Che aveva
il tuo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore.
Sparagli
Piero, sparagli ora e dopo un colpo sparagli ancora,
fino a che
tu non lo vedrai esangue, cadere in terra a coprire il suo sangue.
“E se gli
sparo in fronte o nel cuore soltanto il tempo avrà per morire,
ma il tempo
a me resterà per vedere, vedere gli occhi di un uomo che muore.”
E mentre
gli usi questa premura quello si volta, ti vede, ha paura
ed
imbracciata l’artiglieria, non ti ricambia la cortesia.
Cadesti a
terra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento
Che il
tempo non ti sarebbe bastato a chieder perdono per ogni peccato.
Cadesti a
terra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento
che la tua
vita finiva quel giorno e non ci sarebbe stato ritorno.
“Ninetta
mia, crepare di maggio ci vuole tanto, troppo coraggio.
Ninetta
bella, diritto all’inferno, avrei preferito andarci in inverno.”
E mentre il
grano ti stava a sentire, dentro alle mani stringevi il fucile,
dentro alla
bocca stringevi parole troppo gelate per sciogliersi al sole.
Dormi
sepolto in un campo di grano non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan
veglia dall’ombra dei fossi ma sono mille papaveri rossi.
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Composta
dal cantautore genovese Fabrizio De Andrè nel 1968, la canzone
“La guerra di Piero” è uno dei brani tratti dall’album “La
canzone di Marinella”.
Il brano è scritto sottoforma di ballata e
il testo, in lingua italiana, si articola in quattro strofe seguite
da una ripresa e da un finale, il quale riprende l’inizio della
canzone sia sul piano testuale sia su quello musicale.
La melodia è
sempre uguale e con un ritmo costante supporta lo sviluppo del
testo. La canzone presenta una struttura narrativa, la storia è
raccontata nell’arco delle quattro strofe e non è presente il
ritornello.
Le vicende del soldato Piero sono narrate sottoforma di
ballata. Piero, che ripudia la guerra e la violenza in maniera
convinta, non trova il coraggio di uccidere un soldato nemico, il
quale impaurito spara per primo.
Ma Piero non è un vigliacco, ha
agito così spinto da un sentimento di fratellanza e da un
invincibile orrore per la guerra, l’odio e la violenza. Nelle
strofe viene data la parola al protagonista, il quale esprime tutta
la sua umanità sia nel momento in cui si rifiuta di uccidere il
soldato, sia quando, emerso il suo lato più dolce e poetico,
manifesta il suo rimpianto per dover morire in primavera, periodo
sereno, allegro e pieno di vita. Il testo si conclude con la morte
di Piero che giace su un campo di grano.
Con
questa canzone l’autore esprime tutto il suo odio per la guerra,
senza polemiche o retorica.
La storia di Piero, semplice ed
essenziale ma chiara e diretta allo stesso tempo, è un atto
d’accusa contro la guerra in generale e invita alla riflessione
dell’ascoltatore sui temi della pace, della fratellanza e
dell’amore.
Una melodia orecchiabile, sebbene triste e malinconica
a causa dei contenuti tragici del testo, addizionata a parole e
frasi semplici e comprensibili, ma non per questo meno
significative, fanno de “La guerra di Piero” una delle canzoni
più famose e di maggior rilievo scritte da De Andrè; canzone
perfettamente coerente con lo stile del cantautore genovese, il cui
brani sono spesso uno stimolo per la critica e la riflessione e
nello stesso tempo trattano e ripudiano temi impegnativi come per
esempio la guerra.
Una canzone dai contenuti molto profondi, seri ed
importanti, trattati in maniera coerente e senza cadere sul facile
sentimentalismo.
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Con questo brano
Morena Battilana (nella foto a destra)
ha ottenuto il 2° premio ex-aequo del
Concorso Nazionale
di prosa "Sincerità" - 12° edizione 2002 -
organizzato
dall'Associazione Culturale Pegaso di Biella.
A Morena vanno le sincere congratulazioni
dei compagni di classe, degli
studenti dell'Istituto,
dei Proff. , della Preside e del... webmaster.
Che sia nata una stella? ...
Ce lo auguriamo e lo auguriamo a Morena. Con
affetto. |
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L’AMORE
di
Morena Battilana 3F Linguistico
Nell’intimità
del buio della notte sto qui, al centro di una strada.
Cammino lentamente, completamente immersa nella nebbia più fitta e
deprimente. Cerco invano di camminare diritta su quell’unica striscia
bianca che riesco a scorgere sotto i miei piedi. Tra le labbra screpolate
e tagliuzzate giace una sigaretta sottomarca, piegata, umida, schifosa. La
mia unica compagnia? Il Nulla.
Me ne sto andando da questo posto insignificante. Sto partendo per un
lungo viaggio senza meta, senza confini, senza emozioni. Mi avventuro in
qualcosa di così estraneo semplicemente per sfuggire al mio nemico più
potente e infame: l’Amore.
Non posso rimanere nemmeno un altro po’. Rischio di essere spezzata,
scarnificata, annientata. Che poi, non so neanche io se sia peggio di
quello che mi aspetta qui fuori, tutta sola.
Comunque, in ogni caso devo provare e rischiare.
Mentre muovo impazientemente i miei arti ghiacciati per avanzare
incessante, un qualcosa di indistinto, piccolo e maligno mi attanaglia la
mente e la gola.
E’ qualcosa di strano. Mi parla di trasferirci assieme in un piccolo
monolocale a Milano. Disegna in modo confusionario dei tratti in bianco e
nero che ritraggono piccoli flash di vita. Canta, strimpella una chitarra
acustica scrostata, scrive pezzi di una canzone punk al chiaro di luna, in
riva al mare. Ride. Poi, mi stringe e coccola, mi bacia.
Lo allontano dalla testa. Lo allontano con una piccola lacrima salata.
Vorrei credere che Lui non ci sia nelle lacrime e nel cervello. Eppure so
che Lui è scandalosamente lì… Mi sale un lieve rantolo di voce, dallo
stomaco vuoto e affamato: vorrebbe sbraitare per cacciarLo, per
spaventarLo, per ucciderLo…
Ma poi si ferma e razionalmente capisce: non può allontanarLo,
intimidirLo, punirLo. Lui in fondo è l’Amore. E cosa può salvare quel
poco che è rimasto del mio ego da questo insaziabile e sadico Venditore
di illusioni? La morte, forse?
Accendo la sigaretta che da più di un’eternità penzola dalla mia bocca
rinsecchita. Il primo tiro di tabacco bagnato fradicio mi annienta il
cervello. Poco male. Chissà che almeno così certi pensieri estenuanti mi
diano un po’ di tregua….
D’un tratto mi pare che anche l’aria segua il dissolversi delle mie
paranoie solitarie. La nebbia si è vaporizzata, ed ora, bene o male,
attorno a me vedo qualcosa. Scorgo una piccola chiesetta con qualche
lumino acceso all’interno. Storco il naso, perché non mi va di
distendermi proprio qui per passare la notte (in fondo, è una vita che
non mi avvicino più alla religione).
Però… sono veramente distrutta, e neppure il caro amico Nulla, che mi
accompagna, mi può aiutare ad andare avanti ancora un po’. Per cui mi
siedo in disparte, al riparo da quel lieve venticello pungente, senza
essere notata da anima viva. E chiudo gli occhi.
Non mi capita di sognare spesso, per cui non sento quel terrore angoscioso
nel socchiudere le palpebre. So che sono sola, e non devo aver paura. Fa
tanto freddo però…
Poi, tutto un tratto, sento un tepore, scorgo una luce fioca, calda e
accogliente. Percepisco una mano sul viso rigato dal trucco sbavato: dita
lunghe, magre, sensibili. Mi rifiuto di aprire gli occhi. Si appoggiano
due labbra carnose e tiepide sulla mia fronte, sul mio naso, sul mio
mento. Una lingua umida e felina mi passa sul collo, dietro l’orecchio
sinistro, appena più su del serpente tatuato sull’incavo della
clavicola. Ma perché sei tornato? Lasciami sola. Non posso stare con Te.
Amore allontanaTi, torna da dove sei arrivato, ripercorri all’indietro i
momenti passati assieme.
Dimenticami e cerca di gettare via i ricordi della vita passata. Tu non
puoi attaccarti a me. Lo sai che non ti è permesso.
Amore, non puoi innamorarTi di me…
Ma Lui non mi ascolta, Lui non mi vuole dare retta, Lui è testardo. Mi
bacia violentemente, con foga e passione, per farmi tacere, per far sì
che io la smetta un po’ di farneticare. Quante volte me lo rinfacciava
quando eravamo felici e uniti.
Ricambio quel piccolo gesto di gioia, lo stringo un po’ a me. Ma
dolcemente. Non posso far male alla mia piccola anima fragile. Lui trema,
distratto e inconsapevole. Infine si lascia sopraffare dalla stanchezza e
cade sfinito su di me… e scompare.
Mi stringe di nuovo il freddo, ma sento ancora qualche nota di chitarra…
odo lo scricchiolio di un cuore che pian piano si spezza. Credo sia il
mio.
Non ho sognato, non me Lo sono immaginata. Quelle emozioni escludevano
sogni, allucinazioni e supposizioni…. Era tutto vero, e Lui era lì.
Terribilmente cerco di riprendermi. Mi alzo, mi scrollo di dosso la
malinconia e riprendo il mio cammino. Mi ero ripromessa di distanziarLo se
mai si fosse riavvicinato a me. E invece?
Per l’ennesima volta ha fatto ciò che desiderava, ovvero farmi stare
male.
Lui, così immenso, perfetto, impareggiabile. Lui, la mia luce che grida
nel buio; Lui, il mio dolore che sussurra alla gioia; Lui, il mio Dio
illuminato dalle tenebre. Lui, l’Amore che mi illude.
Temporeggio un istante, mi guardo attorno. Non c’è davvero nessuno.
Eppure sento di non essere sola. Mi sta guardando e, forse, sorride. Sa
che mi ha ferito ancora ed è orgoglioso del suo lavoro. Il suo compito in
fondo è quello di uccidermi lentamente dentro per farmi crescere e
fiorire fuori.
Spesso mi balena nella mente che tutto ciò sia ingiusto. Non me lo
merito. In fondo io ho sempre creduto che Lui ci tenesse a me, ho sempre
supposto che l’Amore mi amasse per davvero.
Sto per scoppiare a piangere per l’ennesima volta: mi sento ridicola,
fragile e insicura.
Ma non mi è possibile farlo: mi si sono prosciugate tutte le lacrime e,
insieme ad esse, anche l’anima.
Allora mi specchio per un istante nella vetrina di un negozietto di
antiquariato e, tra la mia immagine riflessa ed un piccolo tavolino
dell’Ottocento tarlato ed intagliato, d’un tratto scorgo Lui. E’
alla mia sinistra e mi guarda attonito. Catturo per un istante il suo
sguardo, che non è lieto come lo avevo immaginato. Anzi, la lacrima che
non è scesa dai miei occhi, si è appropriata del suo viso, e gioca sui
suoi dolci lineamenti raffinati ondeggiando tremolante. L’amore non
parla, non respira nemmeno. Mi fa però capire che Gli dispiace di dovermi
crescere in questo modo truce e doloroso. Poi, con un ultimo sguardo mi
trasmette i suoi veri sentimenti.
Capisco che ho sempre avuto ragione.
L’Amore è davvero rimasto ammaliato da me. Solo da me.
Ed ora piange silenziosamente perché Egli, essendo la forza misteriosa
per eccellenza, non può permettersi questo: non può accendersi d'amore
per una comune mortale, quale io sono. Non può.
Lo fisso per un’ultima volta e gli scorgo in mano un tagliacarte dorato
intarsiato di piccoli rubini. La punta affilata di questo incide
lentamente il suo collo….
Mi giro di scatto per fermarLo, per non far morire il mio Amore… ma Lui
non c’è più.
Alzo gli occhi al cielo assassino, e… c’è del sangue sulla luna. E’
l’Amore che muore….
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IL
VALORE DEL REGALO
di
Andrea Modesto - 3 B
Ogni
regalo racchiude qualcosa dentro di se e non rappresenta altro che una
forma di
comunicazione
di una persona verso un’altra.Per esempio in un regalo come un anello può
essere racchiusa una proposta, in un regalo come un orsacchiotto può
essere racchiusa una dimostrazione di affetto anche se in ogni caso tutto
dipende ovviamente dal mittente e dal ricevente visto e considerato che
per ogni persona ogni oggetto ha un significato ed un valore particolare.
Questo
è ciò che riesco a vedere in un regalo,in un regalo vero.
Ma
guardandosi intorno si può notare che il valore del regalo sta perdendo
importanza. Infatti il regalo sta diventando sempre più spesso, ormai,
una pura formalità, un semplice atto di circostanza che si fa per
tradizione, per abitudine e, nel peggiore dei casi, per un secondo fine. In
molte circostanze sembra sia diventato quasi un peso! E quando il regalo
si trasforma in un atto dovuto vuol dire che dentro di sé contiene poco o
niente!
Certo
è che non tutti i regali assumono queste forme, ovviamente! Molti ancora
li fanno mantenendo vivo il loro valore, per fortuna.
Un
regalo deve essere qualcosa di spontaneo e qualcosa di prezioso come è la
persona che lo riceve!
Che
tristezza quando ci si accorge che tra due persone il farsi il regalo non
è diventato altro che un puro e formale baratto… è proprio desolante e
questo può essere visto come la prevalenza della finzione, della formalità
sulla trasparenza e sulla spontaneità e come un grande limite di una
società chiusa mentalmente che ha ancora tanta strada da fare
nell’ambito interiore…
Insomma
da un semplice gesto come un regalo si possono capire e cogliere degli
aspetti molto importanti sia di un singolo individuo ma anche di
un’intera comunità!
Ma in ogni caso
per me un regalo continuerà ad avere lo stesso significato,avrà lo
stesso valore di una canzone che ti riempie il cuore e di un sorriso che
ti trasmette energia e che ti fa sentire felice, anche solo per un istante |
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Relazione
sull'incontro dibattito
del 19 ottobre 2002:
L'Islam
e Occidente, dualismo inconciliabile?"
a
cura di Alessia Casagrande, Selena Perotto, Chiara Sgarbossa (5 A), Paola
Citarella, Francesca Sernaglia (5 E), Vanessa Berlato e Elena Zanotto (5
F)
Coordinamento:
proff. Paola Bellin, Maria Pia Comin e Maria Luisa Zin
Relatori:
Prof.
Silvio Lanaro: ordinario di storia contemporanea presso la Facoltà di
Lettere e Filosofia all'università di Padova. Attento studioso e profondo
conoscitore della realtà della nostra terra e dei suoi abitanti.
Prof
Gianni De Michelis: già docente all'università Ca' Foscari di
Venezia, esperto di politica internazionale e ministro degli esteri negli
anni 1989-92, membro del comitato esecutivo dell'Aspen Institute
Italia di cui è stato presidente.
La
conferenza a cui abbiamo assistito si proponeva di discutere
approfonditamente uno dei problemi attuali più pressanti: il difficile
rapporto tra Islam e Occidente, resosi evidente e preoccupante a partire
dall'11 settembre 2001, quando l'Occidente stesso fu colpito duramente al
cuore.
Da
quel momento emerse una questione che non era più possibile rimuovere:
bisognava trovare soluzione al dualismo e riavvicinare in qualche modo due
culture tanto differenti, cercando di porre fine a quel fenomeno chiamato
"integralismo", che minaccia l'intero Occidente e tutti gli
"infedeli". Su questa linea si è sviluppata la relazione, che
ha cercato di rispondere al quesito: "Islam e Occidente, dualismo
inconciliabile?"
I Proff. Silvio Lanaro e Gianni De Michelis hanno trattato due aspetti
differenti del problema: il primo ha affrontato la problematica dal punto
di vista storico-culturale, il secondo invece si è preoccupato di
analizzarla sotto il profilo socio-economico-politico;
entrambi gli aspetti sono importanti e si integrano.
La
minuziosa analisi della situazione vuole mostrarci quanto siano profonde
le radici delle tensioni Islam-Occidente, per capire finalmente se
c'è una soluzione o dobbiamo rassegnarci a tutto l'odio in cui siamo costretti a vivere ... odio che ci rimanda a questioni
passate, come le terribili Guerre Mondiali.
Dopo
tutte le considerazioni fatte non ci resta che porci l'ultima domanda:
trionferà la ragione?
Il
prof. Silvio Lanaro ha articolato il suo discorso in due momenti che
riguardano aspetti fortemente legati tra loro e sono:
- i
rapporti internazionali Islam-Occidente;
- la
necessità di una convivenza civile tra culture e religioni diverse, senza
sfociare in presuntuose prese di posizione.
Nella
sua esposizione del problema si è servito anche dell'intervista a Bassam
Tibi, "Islam, passa per l'Europa un futuro democratico" di Nina
Fúrstenberg, in La
Repubblica del 17 ottobre 2002.
Partendo
dai dati forniti dall'articolo egli ha illustrato come il numero dei
musulmani che emigrano in Europa sia in continuo aumento: dagli 800 mila
del 1950 si è passati ai 15 milioni del 2000 e infine ai 17 milioni
dell'ultima registrazione, risalente al settembre scorso;
il che evidenzia la serietà e le dimensioni del problema.
Nell'osservazione
dell'Islam e delle etnie che lo compongono è comune incorrere nell'errore
di identificare l'Islam con il mondo arabo, quando molti paesi che si
considerano islamici sono invece islamizzati come l'Indonesia e il
Pakistan. Nella maggior parte dei casi poi sono proprio questi ultimi ad
essere quelli fra i quali sono reclutati gli integralisti e i
fondamentalisti. Un esempio di ciò è riscontrabile nel libro di Naipol
dove viene tratteggiato il ritratto di un indonesiano di Giakarta che, pur
essendo un "mago" della tecnologia, non dimentica mai di
inginocchiarsi sul suo tappetino per le cinque preghiere quotidiane.
Questo
forte attaccamento alla religione si riflette nella mancanza
dell'individualismo, che caratterizza la società occidentale. A
differenza dell'Occidente nel mondo islamico non vi è una distinzione tra
Stato e Chiesa; esiste, invece, la "Umma", cioè la comunità
dei fedeli, che si configura come un'unica entità in cui potere
temporale e spirituale coincidono; quindi viene a mancare la distinzione
fra comportamento pubblico e privato a favore di una concezione teocratica.
E'
davvero inconciliabile il dualismo Islam-Occidente? Secondo il prof.
Gianni De Michelis, per
dare la risposta, bisogna attualizzare la situazione riferendola al
contesto in cui viviamo e non bisogna dimenticare come l'Islam abbia
dietro a sé circa 1400 anni di esistenza, anche se il problema del
fondamentalismo è riemerso solo in occasione dell'11 settembre 2001.
Da
quel momento siamo entrati in una fase di transizione, in cui è cambiato
l'ordine mondiale e l'unica certezza è l'esigenza di trovare una
soluzione, che riporti l'equilibrio.
Questa
instabilità, però, emersa soltanto dopo il terribile attacco
all'America, esisteva già da moltissimo tempo e per trovare le sue radici
bisogna andare alla "lontana" dissoluzione dell'Unione
Sovietica, in occasione della quale si ruppe l'equilibrio mondiale e si
entrò nella fase di transizione in cui tuttora viviamo.
Alla
caduta dell' "impero" comunista seguì un periodo di
"disinvoltura e distrazione": i vari paesi, infatti non si
curavano molto della situazione e tanto meno si preoccuparono della fatica
che occorreva per dare una nuova organizzazione al Mondo. Per avere
un'idea di ciò, basta ricordare la tesi di un intellettuale americano di
origine giapponese, secondo il quale, con la caduta dell'Unione Sovietica,
sarebbe giunta la "fine della storia" in senso hegeliano, con
l'affermazione della democrazia di stampo occidentale, modello che non
prevedeva alcuna evoluzione.
Tale
tesi a suo tempo, venne sostenuta dallo stesso Clinton, dall'intera società
americana e da tutto il mondo.
Dopo
tutti questi anni di 'disinvoltura e disattenzione" da parte di molti,
Bin Laden si è imposto, approfittando della totale noncuranza.
Così,
a capo dell'organizzazione "Al Qaeda", il terrorista per
eccellenza ha portato l'angoscia nel mondo, con l'intento di imporre il
suo modello di ordine.
Il
suo scopo è mutare la situazione nei paesi arabi ed unificare l'intera
nazione islamica, passando da "califfo virtuale" a "califfo
reale", successore legittimo di Maometto.
Questa
missione risulta, oltre che frutto della mente contorta di uno
squilibrato, la vendetta per la distruzione del califfato stesso e la
cacciata del sultano ottomano ad opera degli occidentali in occasione
della fine della prima Guerra Mondiale (1922) e quindi la rivincita per
tutte le umiliazioni subite dal mondo islamico nel corso degli ultimi 80
anni.
Ora
come ora gli Americani sono fermamente convinti di voler ristabilire
l'ordine, mentre alcuni paesi europei vagano nell'incertezza o sono
contrari, promuovendo in questo modo il permanere del disordine, che non
può che portare ad ulteriori scompensi.
A
questo punto l'unica cosa da chiedersi è come si riuscirà a riportare
l'ordine. Il prof. De Michelis ci propone a questo proposito di fare mente
locale su quali siano le caratteristiche della situazione attuale e quali
differenze intercorrano con il passato recente. Il momento in cui viviamo, infatti, è una situazione nuova, caratterizzata da una totale
globalizzazione, dove tutto è riassunto in un unico sistema. Questo
meccanismo fa sì che ogni avvenimento condizioni necessariamente tutti e
che esista una sola economia di mondo, che corrisponde al mondo stesso:
dalla polis all'ordine mondiale.
Una
realtà del genere era impensabile fino ad alcuni anni fa,
quando ci si curava soltanto della propria economia per cui i rapporti
economici si sviluppavano in scala molto ridotta. Oltre a questo, bisogna
considerare anche il fattore demografico: oggi , infatti, siamo giunti ad
una situazione limite, data da un enorme sviluppo, come mai in precedenza
è accaduto.
Inoltre
per stabilire ordini mondiali nella storia si è sempre ricorsi alla forza
e all'assimilazione imposta dall'alto, al fine di organizzare la
convivenza.
Nel
corso dei secoli però è mutato il modo di fare ciò, basti pensare
all'Impero Romano, dove l'aggregazione era basata sul riconoscimento delle
differenze, anche nei sistemi di governo. L'Impero Cinese, invece, ha
operato un'assimilazione molto più forte e non ha concesso alcuna libertà;
per questo motivo non esistono differenze etniche nella Cina attuale.
Infine,
l'ultima forma di riorganizzazione è stata imposta dall'ordine coloniale
basato sulla netta divisione tra metropoli e colonie, intensamente
sfruttate. Di questo sfruttamento, tra tutte le vittime, quella che ne ha
sofferto dì più è stato il mondo islamico, tanto che solo pochi stati rimasero
indipendenti: Turchia, Yemen, Afghanistan e Arabia Saudita.
S- l'ordine
significa solamente minor disordine;
- nonostante
tutto, i più forti detteranno sempre legge (vedi ONU), perché esisterà
sempre una divisione tra "ricchi e poveri,"forti e deboli";
- l'ordine
richiede un compromesso: intesa tra i più forti che stabiliscano regole,
a cui sono richiamati i più deboli.
L'unica
strada per fare tutto ciò è l'Integrazione:
creare le condizioni per far convivere e cooperare realtà diffèrenti
difendendo però l'identità stessa.
Inoltre
ognuno deve essere aperto al dialogo senza pretendere di avere una innata
superiorità. A proposito di questo, si può portare ad esempio il
trattato di Helsinki (1975), in occasione del quale si sono stabilite
regole senza affermare la superiorità di nessun paese. Fu sottoscritto
anche dall'URSS e, per questo motivo, tale evento è diventato il primo
embrione di diritti umani che, tra l'altro, a suo tempo, fece capitolare
il comunismo sovietico.
I diritti umani furono successivamente codificati nel 1995 nella carta
dell'ONU, che ora si vorrebbe vedere estesa a tutto il mondo. Tra questi
diritti ne esistono alcuni naturali ed altri che andrebbero invece
discussi, poiché possono esistere delle diversità derivanti da percorsi
di sviluppo diversi.
In
particolare in Medio Oriente queste diversità sono dovute allo status quo
presente, il quale dovrebbe cambiare, nonostante le inevitabili
conseguenze che potrebbe causare, per giungere ad una soluzione e ad un
compromesso con i paesi occidentali.
Il
dualismo potrà quindi essere conciliato attraverso una cooperazione tra
mondo islamico e occidente, soprattutto con una maggior attenzione da parte
di quest'ultimo, altrimenti l'ordine imposto da Bin Laden sarà il
vincitore.
Conclusione
La
conferenza è stata molto interessante, sia per le tematiche affrontate,
sia per il modo in cui sono state approfondite ed analizzate nelle loro
molteplici sfaccettature. Tali argomenti, però, richiedevano spesso una
completa visione della storia recente e passata e la conoscenza di
particolari vicende a noi purtroppo sconosciute. Per questo motivo alcune
parti della relazione sono state colte frammentariamente e sono risultate
spesso confuse; nonostante ciò possiamo definirci soddisfatti di questa
esperienza, che ci stimola alla ricerca e all'approfondimento, per
conoscere meglio il mondo in cui viviamo.
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FARE
SCUOLA DOPO AUSCHWITZ
di
Silvano Sabbadin, docente
Anniek
Cojean dice che un preside di liceo americano aveva l’abitudine di
scrivere, ad ogni inizio di anno scolastico, una lettera ai suoi
insegnanti:
Caro professore,
sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno
visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere:
camere a gas costruite da ingegneri istruiti;
bambini uccisi con veleno da medici ben formati;
lattanti uccisi da infermiere provette;
donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuola superiore e
università.
Diffido –quindi – dall’educazione.
La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I
vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli
psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti.
La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non
servono a rendere i nostri figli più umani.
Sono
un dono queste parole che la Comunità Ebraica d'Italia ci offre dal suo
sito Internet dedicato al 27 gennaio, Giorno della memoria. Esse ci
aiutano a prender coscienza del nostro impegno nella scuola e dicono
la nostra speranza profonda di far crescere uomini che siano umani.
"In
Se questo è un uomo, nel capitolo dedicato al suo arrivo nel campo di
Auschwitz, Primo Levi racconta:
«Spinto
dalla sete, ho adocchiato, fuori di una finestra, un bel ghiacciolo a
portata di mano. Ho aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo,
ma subito si è fatto avanti uno grande e grosso che si aggirava là
fuori, e me lo ha strappato brutalmente. - Warum?
- gli ho chiesto nel mio povero tedesco. Hier
ist kein Warum (qui non ci sono perché) - mi ha risposto,
ricacciandomi dentro con uno spintone».
Ad
Auschwitz non si fanno domande. Si danno ordini, si gridano
imperativi, si prendono decisioni di vita o di morte. Ma non si
fanno domande. E soprattutto non si fa quella domanda - la domanda
del senso, della ragione, della presa di coscienza: Warum
- perché? La domanda della causa, dell'origine, della
fondazione. La domanda che cerca la spiegazione, che indaga i
motivi, che esige giustificazione. La domanda che fa la differenza
tra l'animale razionale e l'animale non razionale, la domanda che muove il
pensiero verso i confini del non-ancora-conosciuto, verso il mondo del
possibile e dell'ipotetico, verso quel di-più che rende così unica e
affascinante l'esperienza umana. E' la domanda del senso, del significato,
di Dio -
perché?
Ogni
domanda, ma soprattutto questa
domanda, ad Auschwitz non solo non era possibile, ma anzi era vietata,
negata, annientata. Auschwitz, appunto: il luogo dove «non ci sono
perché»." (Massimo
Giuliani, Auschwitz nel pensiero ebraico, Brescia, 1998)
Fare
scuola per noi oggi, qui a Montebelluna, e non ad Auschwitz, per grazia di
Dio, è tentare, per quanto ci è possibile, di raccogliere, rilanciare e
suscitare sempre nuove domande che aprano vie più la nostra mente
all'intelligenza di noi stessi, della realtà che ci circonda e della
vita: quella che ci ha preceduto: da cui veniamo e che ci ha definito in
quello che ora siamo, quella che ora viviamo, talvolta con molte
incertezze, e quella che stiamo preparando per il futuro nostro e delle
nuove generazioni.
Non
vogliamo, né abbiamo la presunzione di arrivare in fretta alle risposte.
Sappiamo che la vita è molto complessa e non ci interessa rinchiuderla in
poche formule.
Cerchiamo
invece di affacciarci su di essa, sul fluire della sua storia, anche se
talvolta ne rimaniamo abbagliati come dalla intensa luminosità del
mattino.
Interrogando,
studiando e confrontandoci con la varietà e la ricchezza delle risposte,
intendiamo andar oltre le nostre attuali conoscenze, comprensioni e
capacità di pensare e di esprimere giudizi sulle azioni altrui e
soprattutto nostre, maturando l'attitudine a discernere sempre meglio il
bene dal male, il bello dal brutto, la verità dalla menzogna.
Le
semplificazioni, tentazione ricorrente, portano sempre a cercare
troppo in fretta colpevoli, - gli altri, ovviamente! - a demonizzarli, ad
odiarli e quindi a combatterli, come spesso abbiamo ancora tragicamente
sotto gli occhi.
Molti
nella storia hanno cercato motivi per negare, odiare e combattere gli
altri: i diversi, gli stranieri, i nemici.
E
molti si sono domandati quali colpe li portassero ad essere malvisti,
discriminati, odiati, negati, sterminati, annientati.
Noi con il nostro lavoro, cercando insistentemente anche altre e nuove
risposte alle nostre domande ed aprendoci sempre a nuove domande, vorremmo
imparare a scoprire e a comprendere anche quelle esperienze di bene, che
tra tanto male si sono affermate, come testimoniano tanti
"Giusti", così li chiamano e li onorano gli Ebrei, tra cui
Oscar Schindler, Giorgio Perlasca che anche noi in questi giorni
abbiamo ricordato.
Esse ci aiutano a non disperare, anzi ad aver fiducia, a credere nell'uomo
e nel suo cammino, talvolta tortuoso e difficile, verso una piena
umanizzazione e ad insistere perciò nell'educazione come in un far luce
dentro di noi al fine di prepararci a fare scelte che siano umane, sempre
rispettose dell'uomo e della vita.
21.05.2002 |
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LA
SHOAH E LA MEMORIA
Incontro
con il prof. Piero
Stefani
Il
giorno 11 aprile ci siamo riuniti presso il cinema "Italia", per
assistere ad una conferenza sulla Shoah. Da due anni infatti il 27 gennaio
è giornata dedicata alla memoria dello sterminio degli Ebrei, dal momento
che i pochi testimoni ormai rimasti stanno scomparendo. La nostra scuola
ha voluto approfondire e dibattere questo tema con il contributo di un
esperto, il professor Piero
Stefani,
docente di storia e filosofia al liceo scientifico di Ferrara, redattore
per la rivista "Il regno" di Bologna e collaboratore di "Biblia",
associazione laica di studi biblici.
Evento
spartiacque nella storia della contemporaneità, irriducibile a letture
semplicistiche, ma spesso esposta ad interpretazioni banalizzanti, la
Shoah ( distruzione degli Ebrei d'Europa ) si propone innanzi alla nostra
coscienza come un passaggio obbligato e complesso, a tratti sgradevole e
al limite dell'insopportabile, ma comunque imprescindibile. Confrontarsi
con la Shoah, domandarsi qual è oggi il suo significato, indagare sui
costrutti politici e socio-culturali che l'hanno originata implica
assumere una visuale non solo storiografica ma soprattutto storicistica e
socioantropologica, intendendo con ciò la capacità di cogliere le
peculiarità irrepetibili del momento insieme alle persistenze nella
diversità delle storie, nazionali come individuali, dei popoli come delle
persone.
Per
il professor Stefani è sbagliato considerare Auschwitz
come qualcosa che riguarda solo gli Ebrei: nei lager furono deportati e
sterminati anche zingari, criminali, prigionieri di guerra, omosessuali,
testimoni di Geova… . Inoltre questa non è una questione solo di perseguitati,
ma anche, se non soprattutto, di persecutori.
Egli ribadisce come i persecutori siano una questione dei cristiani,
dell'Europa cristiana. Infatti se non possiamo affermare che i deportati
fossero trattati da uomini, allo stesso modo non possiamo ritenere che i
persecutori si comportassero da esseri umani.
Oggi
ci troviamo in posizione di passaggio tra la storia scritta e le ultime
testimonianze e la giornata del 27 gennaio è stata decisa dalle
istituzioni, per rafforzare la voce dei testimoni che sta venendo meno,
poiché la morte li sta portando via. Probabilmente siamo l'ultima
generazione che "vive" questi episodi, giacché l'inesorabilità
del tempo li trasformerà in storia scritta.
Riprendendo
Primo Levi, il relatore cita la domanda del deportato :- Perché?
-, insieme alla relativa risposta dell'aguzzino :- Qui non ci sono perché
-. Qui si elabora l'idea della sospensione della vita quotidiana, cui
erano sottoposte le vittime della persecuzione, che provavano un forte
senso di spaesamento nel vedere improvvisamente la loro vita sconvolta. Il
lettore, di fronte a tutto ciò, si pone la questione del come
sia potuto accadere . Per cercare di capire, per sapere come ciò è
avvenuto, è necessaria la fatica
grigia dello storico, la cui ricerca ha lo scopo di superare le
semplificazioni. Una di queste riguarda la confusione fra lager, ghetti e
campi di raccolta.
In
Germania ed in Polonia esistevano prigioni, che, con la salita al potere
di Hitler nel 1933, vennero allargate e, con l'avanzata verso est, si
svilupparono varie tecniche di violenza contro l'umanità. Solo nel 1941
furono introdotte le camere a gas e così vennero istituiti veri e propri
campi di sterminio con forni crematori. I ghetti erano dei
quartieri, in cui si raggruppavano le minoranze, costituendo una forma di
isolamento sociale, politico ed ideologico. I campi di raccolta e
smistamento svolgevano ciascuno un compito specifico.
Il
prof. Stefani ci ha quindi presentato la testimonianza di due donne, che
hanno avuto la fortuna di sopravvivere allo sterminio. Queste
testimonianze hanno un'importanza fondamentale nel far comprendere
l'atrocità di ciò che è accaduto e nel mantener vivo il ricordo di
quello che hanno subito le vittime dei lager.
La
prima testimone è Amalia
Navarro, autrice del libro "Siamo
ancora vive!", nel quale racconta la sua storia e quella della
sorella, le uniche della famiglia ad essere sopravvissute al massacro.
Questo libro è stato scritto di getto nel settembre del 1945 ed è quindi
colmo delle emozioni e sensazioni proprie del momento. A sanzionare il
senso della "soluzione finale" basti menzionare questa frase
pronunciata da Himmler nel 1943 :- Per uccidere i pidocchi non c'è
bisogno di una visione del mondo, di un credo: è una questione di
igiene-. Quindi bastava divulgare la convinzione che gli Ebrei fossero dei
fastidiosi parassiti, per farne degli "Arbeitstuecke", ovvero
oggetti, pedine da sfruttare senza tregua e senza nessuno scrupolo di
coscienza. Nel momento in cui i deportati approdavano in questi campi era
necessario acquisire la consapevolezza che si entrava in un sottomondo, al
di fuori del tempo e dello spazio, dove sopravvivevano solo coloro che si
dotavano di un infinito spirito di adattamento. Conoscere il tedesco era
questione di vita o di morte e questa lingua veniva storpiata e
modificata, per dimostrare che il dominio si traduceva anche in possesso
culturale. E' curioso, per esempio, capire perché il nerbo di gomma usato
dai kapò era stato ribattezzato il
traduttore. Infatti l'unico linguaggio diretto, immediatamente
comprensibile, era la violenza, intesa come traduttore universale: chi non
capiva un ordine veniva punito duramente, non essendo in grado di
svolgerlo. Altro segno emblematico era il numero, ossia l'insieme dei
numeri impressi a caldo nelle braccia dei deportati, testimonianza della
disumanizzazione generale. Il numero di Amalia Navarro era A.8483 e quello
della seconda testimone, Liana Millu, A.5384; entrambi di Auschwitz
Birkenau.
Liana
Millu è genovese e ha scritto negli anni '46-'47 il libro "Il
fumo di Birkenau". Una quarantina di anni dopo è stata
pubblicata la sua seconda opera "Dopo
il fumo", una raccolta di conferenze , scritti sulla
testimonianza di dare testimonianza. Fra questi il relatore ha letto dei
passaggi significativi di quello intitolato "Quel
mozzicone di matita del Meclemburgo".Il fatto narrato si rifà al
ritrovamento occasionale di una matita, subito dopo la liberazione del
'45, in una fattoria abbandonata. La Millu dice:- Da oltre un anno non ne
avevo toccate più…Quelle viste tra le mani delle Kapo, appartenendo al
mondo di Auschwitz, non erano che oggetti terribili, dagli effetti spesso
mortali… Rovistai e, quasi subito, mi venne in mano un libretto rilegato
in finta-pelle, le pagine tutte bianche… Scrissi il mio nome sulla prima
pagina, più volte, con una gioia sempre più esultante. Non solo sapevo
ancora scrivere: possedevo di nuovo una cosa mia! Grazie a quella matita
vissi il momento che segnava il mio ritorno fra gli umani. Finalmente una
gioia pulita, civile: non la soddisfazione bruta della sopravvivenza-. Per
i tre mesi successivi,in cui rimase in Germania, Liana continuò a
scrivere e la matita si consumò. Lei la conservò, ma, col passare del
tempo, pensò di affidarla a Primo
Levi, importante testimone dell'esperienza dei campi di sterminio e un
po' più giovane di lei. Il 7 gennaio 1987 le giunse la risposta scritta
di Levi :- Cara amica, ho ricevuto lo strano e prezioso dono e ne ho
apprezzato tutto il valore. La conserverò. Anche per me i giorni si
stanno facendo corti, ma le auguro di conservare a lungo la Sua serenità
e la capacità di affetto che ha testimoniato inviandomi quel
"mozzicone del Meclemburgo" così carico di ricordi per lei (e
per me). Con affetto, Suo Primo Levi-. Purtroppo l'11 aprile dell''87 Levi
si suicidò, cioè, come dice la scrittrice "precipitò verso la
morte". Sparì con lui anche il mozzicone di matita. Con acuta
sensibilità Liana considera:- Noi non possiamo sapere… Nel circo,
quando sta per avvenire qualcosa che può anche risolversi in morte, il
rullo dei tamburi ce ne avverte. Nella vita, no-.
Nell'ultima
parte di questo incontro si è lasciato spazio alle questioni, agli
interrogativi e ai dubbi degli studenti. Interessanti sono state alcune
domande. Le quinte, ad esempio, studiando ed approfondendo tematiche
filosofiche connesse con questo argomento, ovvero il pensiero di Fichte e
di Hegel e la teoria dello stato-nazione, si sono domandate se questi
modelli di pensiero etico-politico potessero aver, in qualche modo,
influenzato il progetto hitleriano. Il prof. Stefani è dell'opinione che
la filosofia non possa essere vista sistematicamente come lo strumento
capace di dirimere questioni così complesse e variegate.
Un'altra
domanda si interrogava sulla posizione della Chiesa in quel tempo. Subito
è stato precisato che non è il caso di parlare di chiesa,ma di chiese,
visto che gli Ebrei provenivano da tutta Europa. Per quanto riguarda, poi,
l'Italia e la chiesa cattolica, essa aiutò gli Ebrei. Bisogna precisare,
però, che le poche decine di migliaia di Ebrei italiani e la presenza di
numerosi conventi rendeva possibile la cosa. Ma le proteste della chiesa
italiana sono state insignificanti; ci sono stati grandi aloni di
silenzio,anche se nell'enciclica di Pio XI non si nomina mai la parola
ebreo e vi sono prove che confermano che la Santa Sede scrisse a Badoglio,
nel 1943, schierandosi contro le leggi razziali. Vi sono state, invece,
molte proteste dei vescovi olandesi e molti documenti, ancora conservati,
attestano queste loro posizioni. Lo stesso Carol Wojtilwa, ancora quando
era docente di etica a Krakovia, sosteneva che il razzismo è un
anticristianesimo. Nel complesso, però, la reazione di molti cristiani
non fu quella che ci si aspettava dai seguaci di Cristo.
La
Shoah è stata, quindi, parte integrante di un progetto politico, che
intendeva sconvolgere alle radici la conformazione culturale e demografica
dell'Europa. Lo sterminio di concittadini europei di religione ebraica non
fu un accadimento occasionale. Fu il prodotto di un sistema per sua intima
natura omicida, destinato alla guerra e alla distruzione. La
consapevolezza dell'attualità della Shoah è, pertanto, anche indice di
quella vigilanza intellettuale che va costantemente assunta all'atto di
formulare dei giudizi e di governare i processi di una società, la
nostra, che fu capace di far sì che i campi di concentramento e di
sterminio nascessero e si espandessero.
A
conclusione di tutta l'attività di ricerca dedicata alla memoria, questa
conferenza ci ha fornito informazioni e spunti di riflessione personale
importanti. Emergono, in tutta la loro assurda tragicità, le crudeltà e
i soprusi subiti da queste vittime, alle quali è stata sottratta l'umanità,
per cui non venivano chiamate con il proprio nome ma con dei numeri, segni
incancellabili incisi sulla loro pelle.
Linda
Martignago, Jacopo Rossi (4 F) - Gisella
Piccolo, Silvia Pozzebon (4 A)
Coordinatrice: prof.
Maria Luisa
Zin
21.05.2002 |
|
Il Circolo culturale
"Pietro Bertolini" di Montebelluna ha organizzato una serie di
incontri dibattito sul tema: CULTURA E SOCIETA’
3° incontro-dibattito, 29 settembre 2001.
RAPPORTO tra CULTURA e POLITICA
incontro con Marcello Veneziani,
scrittore, giornalista
e studioso di filosofia
Cultura e politica sono due termini
concettualmente autonomi, ma concretamente in continuo rapporto. La
cultura infatti ha da sempre influenzato la politica e viceversa; lo
stesso Platone, ad esempio, era a favore di uno Stato governato dai veri
detentori del sapere, i filosofi.
Marcello Veneziani, scrittore, giornalista e studioso di filosofia si è
preoccupato di situare storicamente questo tema e di calarlo nella
quotidianità, analizzando il profilo storico del ' 900, soprattutto degli
ultimi 50 anni. Ma che cos'è la politica?
La politica è l'arte di condurre la società, di portare il gruppo verso
un miglioramento, un progresso civile; è quindi l'arte di governare. Il
relatore è partito da una premessa importantissima: noi, la nostra
società attuale vive da alcuni anni un divorzio tra cultura e politica.
L'eredità di questo rapporto è dovuta a due fasi opposte:
- la coincidenza, identità tra i due concetti;
- l'assoluta separazione tra i due.
Quando è la cultura a condizionare la
politica si producono delle enormi devastazioni e nascono regimi
totalitari, in forza di un pensiero legato all'azione. Questa politica,
che possiamo definire ideologica, ha dato origine al pensiero utopistico.
In pratica ciò significa sacrificare per l'umanità futura quella
presente con una conseguente perdita di contatto con la realtà.
L'anello di congiunzione tra cultura e politica, in questa
situazione, è rappresentato dalla figura dell'intellettuale, militante
impegnato, testimone di appartenenza. Il primo modello ha quindi
attraversato sogni e ideologie per gran parte del ' 900. Fra gli
intellettuali impegnati ricordiamo in particolare Gramsci, il quale ha
introdotto il marxismo nella cultura italiana.
Il primo esempio concreto di questo
rapporto di affinità tra cultura e politica è riconducibile al secondo
decennio del 1900,cioè allo scoppio della prima Guerra Mondiale. A
sostegno di tale conflitto, infatti, spinti dall’ideale mazziniano,
pensiero-azione, scese in campo la maggior parte degli intellettuali
italiani ed europei dell’epoca, i quali, sostenendo la necessità di
partecipare alle operazioni belliche, favorirono la militanza politica
della cultura.
Il pensiero fondamentale, caratteristico
di questo conflitto, il quale riconosceva l’azione assoluta come l’unico
modo per ricondurre la politica alla cultura, portò in seguito alla
nascita di pericolose ideologie, basate sulla convinzione che la cultura
dovesse dominare la politica e che quest’ultima fosse quindi totalmente
dipendente dalla prima. Basti pensare a quei regimi totalitari che si
succedettero dopo la prima guerra mondiale. Questi, spinti da idee di
carattere utopistico, arrivarono addirittura a pensare di poter
giustificare atti come il sacrificio di una società presente a favore di
una società futura sicuramente migliore; questa sarà infatti la causa
dei farneticanti progetti di Hitler.
Come però l’identità tra pensiero ed
agire politico fu causa di sconvolgimenti internazionali, così,
considerare i due elementi indipendenti l’uno dall’altro non ha
portato a risultati migliori: ha lasciato la politica in balia dei tecnici
del contingente e non ha dato alla cultura la possibilità di sbocchi
nella pratica. Ne è esempio la situazione italiana del secondo
dopoguerra.
In questo periodo le classi che
detenevano il potere in Italia erano essenzialmente tre: la casta politica
senza alternanza, il ceto imprenditoriale delle grandi famiglie
industriali, quale la famiglia Agnelli ed infine la casta intellettuale di
ispirazione radical-marxista e progressista. La situazione che conseguì a
questa divisione non fu delle migliori: la casta politica, essendo
stabile, non favorì un serio confronto democratico ;il ceto
imprenditoriale fece prevalere i propri interessi economici a danno della
piccola e media impresa ed infine il ceto intellettuale portò ad un’egemonia
asfissiante di stampo social-comunista che non lasciò spazio ai pensieri
di impostazione ideologica differente. A dimostrazione della chiusura
vicendevole di queste caste il fatto che in Italia si sia favorita la
costruzione di strade e autostrade, piuttosto che ferrovie, appunto per
incentivare la produzione automobilistica. L’iniziatore del predominio
marxista fu il segretario del partito comunista italiano Palmiro Togliatti
il quale, rifacendosi direttamente a Gramsci, fece della cultura uno
strumento di penetrazione e propaganda politica.
Tale situazione si accentuò in seguito
agli sconvolgimenti sociali del ’68 quando gli intellettuali di sinistra
diventarono i soli portavoce della cultura, conquistando giornali,
cattedre universitarie e quindi influenzando la stessa formazione dell’opinione
pubblica. A fronte di ciò la politica moderata non fece altro che
rimanere passiva, limitandosi al controllo dell’economia e dell’amministrazione
dello Stato.
Il processo di egemonia attivato è seme del conformismo: inaridimento
della cultura e soffocamento di essa a scapito della nascita di altre
culture. Con la costruzione e successiva demolizione del muro di Berlino
si ha un ulteriore impoverimento culturale. La cultura, alla fine di
questa lunga battaglia, risulta sconfitta e la politica finirà
identificandosi con l'economia. L'egemonia dell'economia è presente
ancora oggi. Un esempio di questo fenomeno è l'Europa stessa, che sorge
come unione monetaria, non certo su basi culturali.
Ma che cos'è la cultura? La
cultura può essere patrimonio di pochi ma può avere anche delle altre
accezioni; si parla, infatti, di cultura della mafia, della droga ecc...
Se analizziamo l'etimologia della parola, ne deriva che cultura significa
punto d'incontro tra culto e coltivazione. In questo caso il culto
rappresenta il cielo, e quindi la capacità di andare in alto, mentre la
coltivazione rappresenta la terra, la capacità di operare concretamente.
La cultura è quindi sia ricerca di tradizioni, capacità di trasmettere
pratiche, sia capacità di apertura alla comunicazione al mondo e dal
mondo.
La forza della cultura è appunto quella
di trasmettere la tradizione, sedimento della nostra vita: noi
organizziamo la nostra vita a partire da alcuni fondamenti, la
tradizione.La cultura popolare è una cultura, che costituisce l'essenza
della società ed è facilmente comunicabile.
Ora ci chiediamo come è stato
scardinato questo modello. La nostra società (a livello mondiale) ha
visto la nascita di una nuova figura, quella dell' "idiota
globale". Questi è colui che è chiuso al mondo, cioè ha una mente
chiusa e allo stesso tempo dispone di tecnologie che gli portano il mondo
in casa. Noi veniamo da un secolo che ha visto il rifiuto della cultura
come luogo di origine, compiendo così una sorta di parricidio. Il
"padre", che possiamo identificare con la figura del Padre
Eterno, della patria, o del padre vero e proprio, è considerato un
limite. Liberandosi dal padre si viene a compiere un grande errore, viene
a mancare, ad interrompersi, la linea di continuità creatasi di
generazione in generazione. Il secolo da cui veniamo considerava la
chiusura del rapporto con il passato come un’emancipazione. Veniva
rivalutato, invece, il concetto del "carpe diem", quindi di una
realtà sfuggente, che si consuma subito senza lasciare segno.
Ma oggi la società ha bisogno di un
ritorno alla cultura. Da qui la spiegazione di alcuni fenomeni, tra cui,
forse il più esteso, il mito americano. Sotto falso nome, infatti,
vibrano le stesse esigenze. La "americanizzazione" di alcuni
termini italiani (come ad esempio "Rai Educational" al posto di
"Rai Educatrice") non è altro che espressione del bisogno di
una nuova cultura e tradizione.
Analizzando il caso dell'Italia, in
particolare, si determina il punto forte nel patrimonio costituito dai
beni culturali. La nostra penisola, che è una piccola-media potenza
nell'ambito dell'economia mondiale, ha nei beni culturali l'unico vero
motivo di orgoglio nazionale.
Per questo la scuola pubblica e privata hanno una funzione
importantissima: consentono la formazione di cittadini. La scuola
italiana, a partire dalla consapevolezza di una ricca tradizione, se si
riduce al cosiddetto "sistema delle tre i" (Internet, Impresa,
Inglese), presenta il pericolo di perdita d’identità. Ad esempio, per
quanto riguarda il computer, non insegnare solo come usarlo, ma come
vederne i lati positivi e negativi, come interpretarlo. La scuola stessa
deve riqualificarsi culturalmente.
La società italiana e quella europea hanno bisogno di cultura: devono
ritrovare la forza dalle origini, dalle tradizioni e riscoprire il
passato, rielaborare i dati acquisiti, per trovare la capacità di andare
avanti.
Prendendo spunto da un'immagine di Enea, dipinta nelle stanze di Raffaello
nei musei vaticani, il relatore Veneziani ci porta a riflettere riguardo
ai comportamenti tenuti da tre ipotetici personaggi trovatisi in una
città che brucia:
- l'idiota globale salva se stesso;
- l'eroico tradizionalista muore per la patria;
- Enea, esempio di cultura, salva Anchise (il padre) e Ascanio (il
figlio).
Egli simboleggia colui che nel presente progetta il futuro, radicandosi
nel passato. E' quindi una metafora di cultura e politica che si
integrano.
La cultura è viva,
prende spunto dal passato per creare consapevolezza del presente, per
progettare il futuro. Solo in questa visione noi possiamo fare progetti
per salvarci dalle devastazioni ambientali, ripristinare l'equilibrio
ecologico e riqualificare i centri urbani, ecc... Attuare un divorzio tra
cultura e politica sarebbe fatale per le prossime generazioni.
Ci piace qui rilevare, a conforto della
tesi di Veneziani sull’importanza della tradizione, la conversazione
apparsa sulla pagina culturale del Corriere del 30 settembre, tra Claudio
Magris e Barbara Spinelli, in occasione della pubblicazione del libro
"Il sonno della memoria" sempre della Spinelli. La scrittrice
indica l’aletheia, la verità come ciò che resiste ai pericoli dell’oblio,
dato dalle acque del mitologico fiume Lethe. Questo recupero di senso, che
risale alle origini della cultura occidentale, invita a non dimenticare le
ingiustizie e sofferenze passate, perché non abbiano a ripetersi gli
orrori già vissuti.
Silvia Nicoletti, Elena
Pasqualato (Classe 5 E)
Elisabetta Posmon,
Michele Pandolfo (Classe 5 F)
Gli
studenti sono stati coordinati dalla prof.ssa Maria Luisa Zin |
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