Pioggia d'estate di Eugenio Cerreti

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Il rumore improvviso e ravvicinato di un tuono lo fece sobbalzare.

Era da un po’ di tempo che stava con gli occhi socchiusi, rilassato sul divano, al buio, a pensare a niente.

Si alzò con lentezza studiata, allungò le braccia verso l’alto inarcando la schiena e stirò tutti i muscoli nel tentativo di recuperare il pieno possesso del suo corpo intorpidito, diede un’occhiata distratta alla gatta che continuava a dormire sul suo cuscino e si avvicinò alla finestra socchiusa.

Pioveva.

Venivano giù delle goccioline finissime, quasi impalpabili e così leggere che il vento le faceva volteggiare in aria a lungo prima che riuscissero a prendere la direzione della terra. Sembrava quasi nevischio: se non fosse stata estate avrebbe pensato proprio al nevischio.

Poggiò i gomiti sul davanzale e lasciò che gli occhi scegliessero cosa guardare; era qualcosa che faceva spesso. Lo sguardo vagava, quasi indipendente dalla mente, fino a che si perdeva in un particolare e i suoi pensieri, intanto, erano liberi di andare.

Questa volta gli occhi si posarono sul rigagnolo appena accennato che stava trascinando, verso una griglia posta sotto il marciapiede, un foglio di carta stropicciato e qualcos’altro che non riusciva a distinguere.

Aveva scoperto di amare la pioggia. Una barriera impalpabile ma reale che riusciva a trasmettergli una quiete interiore, che gli permetteva di perdersi in quei suoi momenti di solitario distacco dal mondo in cui poteva sentire la sua anima uscire dalla mediocrità della vita quotidiana, entità vera e assoluta infine, forse sola, ma viva, unica e pensante.

“L’anima nuda si sazia delle lacrime del cielo”.

Forse l’aveva letta da qualche parte o forse gli era venuta in mente così, proprio perché sentiva di rispecchiarsi in questa frase. Comunque gli piacque e continuò a farsela girare e rigirare nella mente.

Un movimento, in strada, immediatamente percepito dallo sguardo, lo distolse di colpo dai suoi pensieri.

Un uomo passeggiava lentamente, incurante della pioggia, protetto da un impermeabile che, con il bavero rialzato, gli nascondeva parte del volto. Aveva un paio di scarpe nere e lucide e la cosa lo colpì perché si trattava di scarpe che lui non avrebbe mai indossato: lo facevano pensare a quel tipo di calzature che scricchiolano ad ogni passo e che costringono i piedi ad un vero e proprio calvario, stretti da un cuoio duro e inospitale.

Già si vive tutti i giorni oppressi da regole da rispettare e soffocati da limitazioni! No, non gli sarebbe piaciuto per niente estendere quelle costrizioni anche ai suoi piedi.

Poi si scoprì a pensare che, magari, quelle scarpe erano comodissime e gli venne da sorridere.

L’uomo alzò lo sguardo per un attimo verso di lui, quasi si fosse sentito osservato, e subito abbassò di nuovo il volto.

La luce stradale, fioca per via di qualche lampione fulminato, non gli consentì di riuscire a distinguere il volto dell’uomo, ma forse non lo aveva neppure guardato con attenzione. Percepì solo una vaga sensazione di disagio, quasi che in quella frazione di secondo in cui i loro sguardi si erano incrociati fosse accaduto qualcosa di indefinibile e di spiacevole.

Due brevi colpetti alla porta di casa lo distolsero da questo pensiero fastidioso e, girandosi verso l’ingresso, diede un’ultima occhiata all’uomo sul marciapiede che stava svoltando l’angolo.

Stava per raggiungere la porta e per vedere chi fosse stato a bussare, quando squillò il telefono.

“Sempre tutto insieme!” pensò fra sé e sé.

Borbottò un: “Arrivo, vengo subito…” a chissà chi, dietro la porta, e deviò verso il telefono.

Marilù, la gatta, lo guardò con aria interrogativa ma anche seccata: tutto quel frastuono l’aveva svegliata. Stiracchiò le zampe anteriori, scese dal cuscino e si diresse verso la cucina mentre lui arrivava al telefono.

Alzò il ricevitore e disse: “Sì? Pronto?”

Nessuna risposta. Rimase in ascolto e percepì la presenza di qualcuno, dall’altra parte. Ripeté un “Pronto?” con tono poco convinto. Sentì attraverso la cornetta il rumore di un camion o di un autobus che passava e poi il click che poneva fine alla comunicazione.

Per un momento restò col telefono vicino all’orecchio, poi, ricordandosi che qualcuno aspettava dietro la porta, mise giù e, mentre pensava che c’è sempre qualcuno che non trova di meglio da fare del suo tempo, andò ad aprire.

Guardò la donna che aveva di fronte e immediatamente sentì lo stomaco contrarsi fino a percepire quasi una sensazione di dolore mentre un’ondata di calore saliva, raggiungeva il cuore e continuava, decisa, violenta, fino alla testa, a bloccargli il respiro.

Rimase fermo e non si rese conto del tempo che passava, finché lei non fece un passo in avanti.

Meccanicamente si spostò di lato per lasciarle modo di entrare e chiuse la porta rimanendovi appoggiato con la schiena. Pian piano l’ondata di calore stava passando, il respiro tornava alla normalità, ma ora sentiva, fuori del suo controllo, il cuore battere all’impazzata e un sudore freddo bagnargli il corpo e le mani, strette con forza sui pantaloni.

Vedendola mentre si sedeva con tranquillità sul divano rivide per un attimo una scena che non era mai riuscito a cancellare dalla sua mente: un abito bianco, un bouquet, una coppia d’anelli.

“Francesca vuoi tu prendere come sposo il qui presente Massimo?

E tu, Massimo, vuoi prendere in sposa la qui presente Francesca?” e lui che aveva risposto: “Certo!”

“No! Non deve dire certo, deve dire sì!”

“Sì, sì certo!”

Ed era stato questo il suo assenso: il certo lo aveva ribadito nonostante la correzione del sacerdote, perché il solo si non gli era parso sufficiente ad esprimere tutto quello che sentiva.

E adesso questo ricordo, tornato vivido nella sua mente, rendeva ancor più difficile riuscire a pronunciare una sola parola. Alla fine, facendo un passo avanti, dopo essersi raschiato la gola, articolò un: “Ciao”, fece una pausa, e aggiunse: “Come stai?”.

Solo dopo aver detto queste parole, si rese conto di quanto fossero state banali.

Lei rispose con un sorriso appena accennato.

Il brontolio di un tuono in lontananza riempì per un attimo il silenzio che si era impossessato della stanza.

“Sembra che abbia smesso di piovere” disse ancora lui, e sorrise tra sé, dopo quest’altra prova di originalità.

L’amava ancora, questo era evidente: le sensazioni del suo corpo gliene avevano dato la conferma, ammesso che ce ne fosse stato bisogno.

Si sentiva molto poco razionale e molto più animale in questo suo modo di interpretare quello che provava, eppure, riuscendo a capire quanto il suo corpo gli comunicava, non aveva mai sbagliato a valutare persone o situazioni e non stava sbagliando ora: l’amava ancora, anche se non capiva perché.

Erano otto anni che non la vedeva. Lei se n’era andata, da un giorno all’altro, senza una parola, senza un motivo.

Già, senza un motivo. Quante volte aveva pensato al vero motivo che poteva averla indotta a lasciarlo, quante volte aveva fatto ipotesi e congetture senza trovare una risposta che lo convincesse.

Ed ora, lei era lì: sarebbe bastato chiederglielo.

Francesca lo stava guardando. Non era cambiata molto: i suoi occhi verdi avevano sempre quel lampo malizioso che gli aveva fatto perdere la testa fin dal loro primo incontro. I capelli, che ricordava castano chiari, ora erano più scuri e la tinta conferiva loro dei riflessi tendenti al rosso.

Il suo corpo, minuto e scattante, non aveva acquistato neanche un grammo di peso in più.

Gli venne spontaneo pensare, invece, a come fosse cambiato lui in quegli anni: era ingrassato, aveva meno capelli e i suoi occhi, una volta vivaci, ora tendevano ad essere spesso sfuggenti e gli riusciva difficile sostenere lo sguardo altrui.

Era giunto il momento di farle quella domanda che sentiva, pressante, urgergli in gola:

“Perché, Francesca, perché così? Avresti potuto farmi una telefonata o mandarmi una lettera…”

Si accorse di aver usato un tono supplichevole e subito smise di parlare ma non smise di guardarla, sicura di sé, lei che ancora non aveva detto una sola parola da quando era entrata.

“Massimo”, disse lei, “le cose ormai sono andate così. E’ inutile che adesso se ne stia a parlare. Era già finito tutto fra noi, possibile che non te ne fossi accorto? Ci trascinavamo in un tran tran di abitudini, di cose fatte perché si devono fare, non perché le volessimo davvero!”

“No!” Il grido strozzato suonò più forte di quanto non avesse voluto e allora, abbassando il tono, riprese: “No, non puoi dire così. Io non ho mai smesso un attimo di volerti bene, ma che dico, di amarti, come il primo giorno!”

“Allora vuol dire che ero io a non amare più te!” rispose lei, e continuò: “E anche da molto tempo se lo vuoi sapere! E non fare quella faccia Massimo! Sono passati degli anni, dovresti essertene fatta una ragione! Io oggi sono felice, ho trovato l’uomo che ho sempre desiderato incontrare nella mia vita e ti assicuro che è molto diverso da te!”

Avrebbe voluto dirle: “Sono contento per te”, magari tentando di usare un tono ironico, ma non ci riuscì. Arretrò quel tanto che gli consentì di appoggiarsi di nuovo alla porta di casa e continuò a guardarla cercando di capire, sperando di capire.

Ma lei continuava a parlare.

“Matteo non è un tipo insignificante come te. E’ un uomo affermato e di valore, ci vogliamo bene e dopo tanti anni ancora ci sentiamo attratti a vicenda. Non come con te. Con te era tutto normale, sempre uguale, sempre uguale!”

Ora la voce di lei era salita di tono. Lui la guardava quasi con fastidio e non stava ascoltando, la sentiva parlare e basta.

“Massimo! Mi ascolti?”

“Ma sì, sì ti sento, continua pure”, rispose, tentando di usare un tono il più possibile cortese e distaccato.

Il ronzio, che da un po’ avvertiva nelle orecchie, s’era fatto più intenso e le tempie gli battevano forte. Si accorse di avere anche lo sguardo annebbiato, ma forse erano solo lacrime che non volevano uscire.

Francesca aveva ripreso a parlare.

“Matteo ed io abbiamo deciso che vogliamo sposarci, sai, per regolarizzare le cose, per il nostro bambino, insomma, perché abbiamo deciso così. Domani nel pomeriggio ho preso appuntamento dall’avvocato, alle cinque. Dovresti venire a firmare alcune carte. Questo è l’indirizzo, guarda, te lo metto qui, sul tavolino!”

Per il nostro bambino… per il nostro bambino?

Forse quello stesso bambino che lui avrebbe tanto voluto e che Francesca si era sempre rifiutata di prendere in considerazione.

Ora c’era anche un bambino, non bastava Matteo, quello affermato, c’era pure un bambino!

“E come si chiama?”

“Dottor De Petri. E’ tutto scritto sul biglietto da visita, vedi? Te lo lascio qui,  sul tavolino”.

“No, non l’avvocato, il bambino. Come si chiama?”

“Andrea”.

Andrea! No, non credo che l’avrei chiamato Andrea; forse Luciano, oppure Valerio, sicuramente non Andrea!

Stava ancora fantasticando sul nome che avrebbe dato a quel figlio che non avrebbe avuto mai, quando Francesca gli si avvicinò.

Gli veniva dritta incontro e lui non capì perché lei si fosse avvicinata così.

D’istinto o chissà, forse per un’antica abitudine, si chinò per darle un bacio. Lei si ritrasse di scatto e lo fulminò con lo sguardo, poi disse: “Sei davanti alla porta, se ti scansi forse riesco ad uscire!”

Lui fece un passo di lato e, continuando a fissarla quasi per scolpire la sua immagine nella mente, aprì la porta di casa. Francesca uscendo velocemente, gli ricordò soltanto: “Alle cinque, mi raccomando, non tardare come tuo solito!”

Marilù, vedendo la porta aperta, la seguì per le scale e lui pensò: “Ma sì, vattene anche tu, lasciami da solo anche tu!”

Chiuse la porta, girò lentamente la chiave per due volte e si diresse verso la finestra. In strada l’uomo con l’impermeabile stava aprendo la portiera di una macchina sportiva.

Lo vide parlare brevemente con Francesca e andare via insieme a lei.

“Una tisana calda, ci vuole una tisana calda”.

Mise a bollire l’acqua e si sedette. Si muoveva con calma: non c’era motivo di avere fretta.

Il muro scrostato, di fianco ai fornelli, gli fece tornare in mente tutte le volte che si era detto che avrebbe dovuto ritinteggiare la cucina. Ma ora non gli sembrò più così importante.

Restò a lungo con lo sguardo fisso sul muro fino a che il sibilo del bollitore non lo riportò alla realtà.

Versò la tisana bollente nella tazza di coccio, quella rossa, quella che usava lei.

Aggiunse lo zucchero e cominciò a mescolare con cura, con molta cura.

Assaggiò un cucchiaino del liquido caldo e dolce. Era ancora bollente.

Prese la tazza tenendo le mani unite e sentì il calore scottargli le dita. Tornò a sedere sul divano.

“Nella salute e nella malattia.”

Sorrise amaramente fra sé. Chissà perché gli tornavano in mente ancora le parole del sacerdote!

“Nella buona e nella cattiva sorte.”

Il velo sugli occhi si era sciolto e le lacrime, ora senza freno, scendevano lungo il volto.

“Dio mio, che imbecille sono stato! Otto anni! Otto anni ad aspettare, ad aspettare chi? Questa donnetta da niente. Ho rovinato la mia vita ad aspettarla, e adesso? Lei torna solo per chiedermi di andare da un avvocato!”

“Fino a che morte non vi separi.”

Strinse con forza le mani sulle orecchie, quasi a cercare di non sentire più la voce del ricordo, la voce del sacerdote che aveva creduto di rendere indissolubile la loro unione con quelle parole.

Bevve ancora un sorso di tisana ormai tiepida e il sapore dell’infuso si mescolò con quello salato delle lacrime.

Fuori non pioveva più.