Cioccolata 1943  di Eugenio Cerreti

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Questo racconto necessita di una breve introduzione e di una spiegazione.

Ebbene sì: mi sono montato la testa!

Qualche tempo fa, leggendo il Venerdì di Repubblica, mi capitò di vedere un articolo nel quale si invitava, chiunque ne avesse voglia, a scrivere un racconto, partendo da una traccia di Rosetta Loy.

Il filo conduttore del racconto doveva essere la cioccolata (questo il motivo del titolo).

Io l’ho scritto, l’ho inviato e ho anche ricevuto risposta (ma non intendo soddisfare malsane curiosità).

Ora lo vorrei sottoporre al vostro giudizio…

La prima parte, quella scritta in corsivo, è la traccia di Rosetta Loy – il resto è farina del mio sacco.

(siate clementi!)

 

 

Era seduta davanti a me, al di là del tavolino. I capelli biondo-grigi raccolti dietro la testa le calavano in due bande lisce sulle orecchie. Tante rughe e un buffo naso che doveva essere stato un tempo la grazia del viso sottile con le narici larghe e ostinatamente volte all’insù. Aveva le labbra screpolate e il corpo perduto nella giacca troppo larga, lunga.

Una vecchia ragazza o una ragazza invecchiata con gli occhi ancora sgranati sul mondo anche se il celeste era appassito e una nebbia di cateratta sembrava pronta a sopraffarli.

L’avevo voluta incontrare per ascoltare da lei, io nata tanti anni dopo, l’esperienza vissuta durante l’occupazione tedesca in Versilia, quando alcune truppe della Wermacht si erano attestate sul litorale di Fiumetto e lì erano rimaste mesi, dimenticate dai combattimenti che infuriavano intorno, quasi quel lembo di costa segnato dalle casematte sparse sulla spiaggia non interessasse a nessuno, né inglesi né americani.

"La solita, per due" aveva detto al cameriere. "Sai" aveva aggiunto rivolta a me "qui mi conoscono, da una vita, ordino sempre la stessa cosa…". Sorrideva come una bambina che si aspetta di stupire mentre la mano passava a rimettere ordine fra i capelli che le scivolavano sul viso.

E’ stato così che ci hanno portato due tazze di una bevanda tanto scura da sembrare caffè. "Ma veramente…" avevo protestato "credevo che avessi ordinato due cioccolate con panna".

"Assaggiala" aveva risposto; continuava a sorridere coprendosi la bocca con la mano per nascondere il vuoto di alcuni denti mancanti. Avevo sollevato la tazza alle labbra: l’aroma era sublime.

"La vera cioccolata si fa con tanto cacao e poca acqua, invece te la portano sempre mescolata con il latte e non sa più di niente. Se vuoi" aveva aggiunto allungandomi la ciotolina della panna "puoi aggiungerla adesso". Ma si capiva che per lei, la vera cioccolata era cioccolata e basta.

Si chiamava Liliana e nel ’43 era una bambina, la figlia piccola del fornaio. Uno dei fratelli, andato coi partigiani, le faceva fare la staffetta per il suo gruppo, di nascosto dai genitori. Lei era minuta e dimostrava ancora meno dei suoi dieci anni, andava su e giù con la bicicletta della madre pedalando in piedi altrimenti non arrivava ai pedali. Nessuno poteva immaginare che tenesse dei biglietti tanto compromettenti nelle tasche del grembiule di scuola e che nascondesse addosso salami ed etti di prosciutto. Una volta perfino due rivoltelle nel fagotto dell’erba per i conigli: "Io non capivo niente di guerra né di tedeschi o di partigiani. Lo facevo solo in cambio di cioccolato, ero pazza per il cioccolato. Da quando era cominciata la guerra nel ’40, era sparito, neanche una briciola, non ricordavo neanche più che sapore avesse. Finché un giorno, mentre andavo per castagne nei boschi dietro Pietrasanta, ho incontrato un soldato americano ferito. Durante la notte, mentre andavano in pattuglia, era rimasto isolato e si era perso finendo in mezzo ai tedeschi che gli avevano sparato.

Sul momento mi sono spaventata, tutto quel sangue addosso, sui pantaloni, sulla camicia, lui si teneva rannicchiato perché non sapeva di chi fossero i passi che aveva sentito. Poi quando si è accorto che ero soltanto una bambina, a gesti mi ha spiegato che voleva raggiungere i partigiani, sapeva che erano poco lontani ma non riusciva quasi più a muoversi. Per convincermi ad aiutarlo aveva cavato fuori dalla tasca una tavoletta di cioccolata: erano due mattoncini spessi, scuri. Quelli della razione giornaliera dei soldati americani. Io un cioccolato così non l’avevo mai visto e ci ho affondato i denti, avevo fame, ma è stato come se improvvisamente fosse tornato il ricordo meraviglioso dell’uovo di Pasqua, quando si scioglievano le campane...".