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Mensile di comunicazione ebraica per informare,
educare e divertire
Migliorare la qualità della vita:
obiettivo primario dell’ebraismo.
Tishrei 5763
Settembre/Ottobre 2002



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Pagine oro
speciale tefillà
La Preghiera, un diamante da lucidare tutti i giorni. 
Le nostre preghiere infatti si trasformano in angeli che salgono fino al cielo e ridiscendono carichi di preziosi consigli per affrontare il quotidiano.
Il Tempo delle Preghiere

Secondo la tradizione (Talmùd Berachòt 26b), le preghiere giornaliere sono tre: quella del mattino, istituita da Avrahàm, quella del pomeriggio, istituita da Yitzchàk, e quella della sera, istituita da Ya’akov. Yehudà Halevì (Kuzarì III, 5) ce ne fornisce il significato profondo: “Le ore della preghiera costituiscono l’essenza e il frutto del tempo; mentre le altre ore sono solo vie che vi conducono”. Il tempo delle preghiere, così, è il frutto del giorno e della notte, come lo Shabbàt è il frutto della settimana e la benedizione che nasce dalla tefillà si prolunga fino al momento della tefillà successiva. Se la preghiera è allontanata dalla nostra anima sotto l’impulso delle occupazioni mondane, ci si ritrova in una situazione indegna e avvilente; tuttavia all’ora della preghiera purifichiamo la nostra anima dalle scorie e la prepariamo per l’avvenire messianico.
Il cammino dei giusti si rischiarerà sempre di più fino allo splendore del giorno, ci rassicura Salomone nei Mishlé (3, 18).
L’ora più adatta per volgere il nostro spirito a D-o è il levar del sole, al risveglio della natura che ci appare fresca e rinnovata. Al mattino, recitando Shachrìt, ringraziamo D-o per averci liberato dalla notte e per aver fatto rifiorire la nostra anima. Così prima dimostriamo la nostra riconoscenza a D-o con le Birchòt Hashachàr, poi con i canti gioiosi che glorificano la natura rinnovata, Pessuké Dezimrà, e infine con Emèt Veyatzìv per la liberazione dall’esilio. Il Talmùd (Berachòt 12a) dice: è bene proclamare la Tua grazia al mattino e la Tua fedeltà alla sera. Secondo Ràshi, al mattino ringraziamo per l’avvenuta liberazione dall’Egitto e alla sera invochiamo la fedeltà di Hashèm perché ci liberi dai mali futuri e ci apra le porte dell’avvenire.
La grazia, chèssed, è l’idea conduttrice della preghiera del mattino, mentre l’emunà, la fedeltà, costituisce l’esscnza della preghiera della sera, perché Egli custodisce il Suo popolo di Israèl per sempre.
La Cabala collega queste preghiere ai sacrifici quotidiani del mattino e della sera. Infatti il giorno è dominato dalla middàt hachèssed, cioè dall’amore di D-o per l’uomo affinché questi possa diventare, attraverso il perfezionamento etico, un’immagine di D-o; mentre la notte, quando l’uomo si trova indifeso e spaventato, e il momento del rigore e della giustizia divina, middàt hadìn.
La preghiera del pomeriggio, Minchà, è stata istituita da Yitzchàk. Il tempo delle preghiere evoca anche il destino di ognuno dei Patriarchi. Il destino di Avrahàm appare nella luce del sole che sorge: Avrahàm visse venerato e rispettato da tutti, perché era “il principe di D-o”. Yitzchàk invece non incontrò che gelosie e invidie che lo respinsero verso se stesso e a sua famiglia A lui era stato detto; “La tua discendenza sarà straniera”. Per Ya’akòv il destino si ricopre delle ombre della notte. Ma tutti e tre i Patriarchi sapranno trovare la loro via verso la Divinità attraverso la tefillà.
Ancora una volta lo Zòhar ci viene in aiuto: alla mattina troviamo la grazia divina nella preghiera di Avrahàm, mentre le preghiere di Yitzchak e di Ya’akòv si inarcano sempre più verso il rigore di D-o. Così anche noi ci rivolgiamo al D-o di Ya’akòv implorandolo “nel giorno in cui la disperazione ci sorprende”, perché noi sappiamo che alla fine della notte sorgerà un nuovo giorno.
Alla fine della giornata, al momento del declino del sole, temiamo l’ora del giudizio di D-o; è il momento in cui paventiamo la fine della nostra vita e dobbiamo farci un esame di coscienza. Per questo il Talmud sottolinea l’importanza della preghiera di Minchà, perché dobbiamo temere la decisione divina. Mentre la notte ci affidiamo alla misericordia dell’Onnipotente che vigila con fedeltà su “coloro che dormono nella polvere” e su tutti i dormienti della terra. È l’ora in cui il rigore si tempera di indulgenza e viene attenuato nella dolcezza della grazia. Anche per questo la preghiera della sera non e obbligatoria: il mondo si regge su chéssed e din, l’amore e la giustizia; la misericordia, rachamìm, è una parte di chéssed, e vi si associa quando la creatura troppo debole non potrebbe reggere davanti alla Giustizia. Anche per questo si usa recitare la preghiera della sera, Maarìv, subito dopo quella di Minchà, perché la Misericordia divina deve essere implorata nell’ora del Giudizio. Non potendo più presentare all’Altissimo il culto dei sacrifici gli tributiamo le preghiere, che sono “il culto del cuore” I tre attributi fondamentali di D-o, chessed, din e rachamìm, bontà, giustizia e misericordia, sono le stelle scintillanti che illuminano la vita di ogni ebreo in ogni giorno della sua vita.

La Funzione della Preghiera

Le persone spesso si domandano se sia veramente necessario pregare: forse D-o non conosce già le nostre esigenze, senza il bisogno di rammentargliele? Naturalmente si, e anzi, Egli le comprende ancor meglio di noi stessi (la preghiera sarebbe del tutto inutile se avesse l’unico fine di mettere al corrente il Signore dei nostri desideri e di ciò che ci occorre.) Il vero obiettivo per cui recitiamo la preghiera è elevare il nostro livello spirituale, è un aiuto per sviluppare la più esatta percezione della vita, cosi da essere degni e meritevoli delle benedizioni divine. La tefillà e una attività unicamente umana, perché è il risultato dell’unione dell’intelligenza e dell’immaginazione di una persona con la sua abilita di tradurre i concetti in parole.
Poiché la preghiera è l’anelito più profondo dell’anima, essa deve essere espressa in una forma che sia a sua volta la più rappresentativa dell’animo umano, cioè mediante la “parola intelligente”. Si desume dalla “preghiera di Hanna” che la tefillà richieda una chiara formulazione delle parole (Samuele I l, 15). I Saggi considerano la sua espressione di dolore e di devozione rappresentativa del più alto livello di preghiera. Esprimeva quanto era contenuto nel suo cuore silenziosamente: la sua voce non si udiva, ma le sue labbra si muovevano. Le preghiere che precedono Shemonè Essré, quelle che aiutano l’uomo ad elevarsi a un livello nel quale possa dischiudere il proprio animo direttamente a D-o, possono essere recitate ad alta voce, ma ciò avviene perché la maggior parte delle persone riescono a mantenere sveglia la devozione e la concentrazione solo pregando ad alta voce. Lo Shemonè Essré, tuttavia, è anche un colloquio intimo dell’uomo con D-o, per cui deve, almeno in parte, svolgersi in silenzio; nondimeno, come ha dimostrato Hanna, anche una preghiera silenziosa deve essere articolata, perché la parola espressa è rappresentativa dell’aspetto più elevato dell’animo umano. Per comprendere perché il linguaggio della preghiera sia proprio l’ebraico, occorre considerare come il risultato che si desidera ottenere sia l’espressione interiore dell’anima e una rappresentazione dell’uomo al culmine della sua aspirazione verso la santità. È vero che i Saggi ammettono che si preghi in una lingua qualsiasi (Sotà 33a), ma non è un permesso incondizionato né si può mettere l’ebraico, la lingua sacra, sullo stesso piano di tutte le altre lingue. Le autorità della halachà non approvano la recitazione delle preghiere in altre lingue (Mishnà B’rurà, Arùch Hashulchàn su Erach Chayìm cap. 62. 101). Rambàn, in Esodo (30,13), sottolinea come l’ebraico sia la lingua che D-o ha utilizzato nel creare l’universo e per comunicare con i profeti e ciò chiarisce per quale motivo è chiamata “la lingua santa”. I commentatori fanno notare come nessuna traduzione possa essere in grado di riprodurre tutte le sfumature della preghiera originale o le parole profetiche di D-o, o le composizioni sacre degli uomini della “Grande Assemblea” e dei loro successori attraverso i secoli.
Ma c’è di più. Se una persona prega in lingue diverse dall’ebraico, non assolve al proprio dovere a meno che non comprenda ogni parola che pronuncia mentre, se prega in ebraico, egli “esce d’obbligo” anche se non ne capisce il significato (Be’ùr Halachà, Erach Chayìm 62).

estratto da:
Tefilot siyach yitzchak
Mamash Edizioni Ebraiche 
a cura del centro Dli. 


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