Comunicare con gioia

Articolo di Cinzia D'Agostino

pubblicato nel Giugno 2002 sul n°20 della rivista PRO Terza età edita da ANASTE

E’ questa la convinzione di Nicola Corti, un musicista che si è trovato per caso ad avere a che fare con i malati di Alzheimer, tanto da aver elaborato una sua metodologia per riuscire a dialogare con loro, attraverso la musica. Il risultato? Un arricchimento coinvolgente, per l’anziano e l’operatore e che si basa su cercare di fare emergere i lati positivi di esistenze annebbiate dalla malattia. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua ‘esperienza sul campo’
 
Nicola Corti ha 38 anni e si occupa di persone fragili, come gli anziani malati di Alzheimer, attraverso un rapporto particolare, che passa in primo luogo dalla musica. Proprio in quest’ottica, si definisce un “animatore musicale” ovvero un operatore che cerca di recuperare rapporti di comunicazione con chi è circondato dalla nebbia dell’Alzheimer ma che, per mezzo del “ricordo” di canzoni del suo passato, riesce a recuperare qua e là sprazzi di lucidità e di interazione con gli altri.
I lettori di Pro Terza Età sanno bene come questo giornale cerchi di essere la “voce” di chiunque operi nel settore degli anziani, per cui ci sembra sempre molto interessante poter trasferire a tutti, attraverso queste pagine, le esperienze sul campo di chi ha trovato grande soddisfazione professionale e umana nel proprio lavoro, scoprendone le sfaccettature più nascoste della pratica quotidiana e non nelle pagine teoriche di un libro.
 
Sono solo canzonette, però…
Nicola Corti, ci racconta, fin da ragazzo voleva fare il musicista ma gli eventi della vita (il matrimonio, la nascita di un figlio) gli fanno accantonare la sua passione. Dotato di diploma di perito industriale meccanico, inizia a lavorare come operaio senza grossa convinzione, studiando sempre musica classica. Un giorno un amico gli consiglia di lavorare in una cooperativa sociale che si occupa anche di anziani istituzionalizzati. Ed è proprio da questo momento che comincia ad avvicinare gli anziani ospiti nelle strutture, all’inizio come operatore sociosanitario di “supporto” agli educatori e agli animatori veri e propri. In tale periodo, osserva, riflette, studia (diventa anche animatore di comunità), comincia a pensare che ci deve essere dell’altro per tirar fuori dalla palese apatia quegli anziani che vede tutti i giorni. Nel suo bagaglio musicale, accanto alla musica classica, c’è una buona conoscenza della musica degli anni quaranta e cinquanta. Già, proprio le canzonette, che probabilmente hanno fatto sognare, ballare, cantare, questi tristi anziani. “Perché no?”, dice a se stesso, “perché non riproporre loro la canzonetta, la ballata popolare che si avvicina a ciò che sono stati un tempo, che potrebbe ridonare loro il gusto della musica, del ritmo, facendoli lavorare a livello di ricordi?” Pensato e fatto. Corti inizia prima a riproporre musica d’epoca, notando un certo gradimento, poi si porta dietro la piccola batteria del figlio, pensando che le percussioni possano risvegliare vecchi momenti felici. Del resto, le care vecchie bande, come quelle dei bersaglieri, ad esempio, che tanti tanti anni fa si vedevano sfilare per città e paesi, non sono sempre state portatrici di allegria?
E Corti vede giusto: l’entusiasmo è alle stelle. Tanto è vero che gli anziani mettono su un vero e proprio gruppo, la “Trick Track Band”, cantando e facendo musica con tanti strumenti a percussione, arrivando persino a realizzare spettacoli in altre strutture. “Avere un ruolo attivo, anche semplicemente quello di fare musica e farla sentire ad altri – sostiene Corti – dà all’anziano motivo di vivere”, e prosegue ricordando che il complessino era formato da persone di varie patologie. “C’erano invalidi di guerra e anche un malato psichiatrico, che ripeteva alcune frasi, tipo ‘fiorin-fiorello’, ma andando a tempo al ritmo della batteria. Un voler comunicare con grande gioia, che dimostrava in tale modo. Il bello è che mi rendevo conto di come la gioia attraverso la musica coinvolgeva tutti: ognuno infatti suonava o teneva il ritmo con le mani o con i piedi, pur non avendo una conoscenza specifica. Ed è così, osservando il loro impegno nel suonare, nel cantare, nel tenere il ritmo anche se in alcuni casi in modo approssimativo, che ho capito una grande verità: l’anziano normale ha tanti modo per comunicare, ma l’Alzheimer ha metodi non verbali per farlo. Così, la danza, la musica, il toccarsi, il battere le mani sono forme di comunicazione esattamente come le altre a base di parole. E su questo – io che sono privo di studi mirati in tal senso – ho costruito la mia particolare “competenza” professionale, con la quale punto alla rivitalizzazione della persona seguita con questa forma di attività musicale. Non metto cioè un muro tra me e il malato di Alzheimer, cerco di fare in modo che la rivitalizzazione sia reciproca, lui dà qualcosa a me e io a lui, che il lavoro di comprensione riguardi entrambi. Questo dare e ricevere in cosa consiste? Nel “parlarci” attraverso la musica intesa come partecipazione di gruppo. E nel gruppo c’è chi suona, c’è chi canta, chi batte i piedi, chi mugugna, chi muove la testa… ma sempre sulla spinta di una grande gioia che nasce secondo me dal tirar fuori le emozioni che ciascuno ha, anche se sembrano nascoste dalla malattia. L’animatore musicale, quale io sono senza risvolti psicologici che lascio evidentemente agli esperti, punta alle emozioni di gruppo, in cui la composizione musicale diventa una canzone strategica. In questo contesto – racconta ancora Corti – ho composto alcune canzoni con testi ispirati dalle risposte dei malati a domandine semplici come “ti piaceva andare a scuola?” Tutti hanno risposto affermativamente e ne è uscita fuori una canzone bellissima, che si canta in gruppo. Perché gli Alzheimer coinvolti comprendono e imparano pezzi, non ricordano soltanto. Certo, non so dire in che quantità ma sono sicuro che qualcosa a loro rimane. E quel qualcosa, dal mio punto di vista, è già tantissimo”.
Nicola Corti, dunque, insiste molto sulla musica non come semplice svago ma come mezzo nel ”creare un gruppo” costituito cioè da persone che, nonostante il loro handicap più o meno grave, riescono a dire qualcosa in armonia. Ripete che sono soprattutto gli strumenti a percussione quelli maggiormente gettonati (e nella sua esperienza i più ‘dotati’ risultano essere gli uomini): insomma ritmi semplici, regolari, quasi una sorta di pulsioni che, nel mescolarsi tra loro, riescono a inventare qualcosa. E ciò succede quando il gruppo si mette in circolo (una posizione che a quanto pare ispira) e inventa una musica piacevole, anche se c’è chi usa solo il battere del piede per riprodurre così la melodia vera e propria. “Personalmente, sono contento quando vedo anziani che ridono e che sono giocosi. Che cantano in modo anche buffo canzoni curiose realizzate insieme, fatte di ritmi e musicalità che riescono a trasmettere agli altri. Tutto questo mi ha fatto riflettere, ad esempio, sulle schede di valutazione”. Indubbia la loro utilità, questo il pensiero di Corti, ma secondo lui rischiano di essere limitative. Per un semplice motivo. Osservano l’anziano, in questo caso malato di Alzheimer, nella sfera legata al suo disagio, alla  sua sofferenza, alla sua fragilità, alla sua depressione. Ma non si fa mai attenzione a un elemento fondamentale: la gioia. “Non si fa caso se la persona è felice e se o quando riesce a socializzare e a interessarsi degli altri. Magari saranno momenti sporadici, ma ci sono. Personalmente, e consiglio di riflettere su questo anche a quei miei colleghi che magari si sgomentano di fronte alla sofferenza della malattia e vivono male la loro professione – dice infine Corti -, ritengo assai importante il tendere alla socializzazione e al fatto che il gruppo di malati si amalgami passando dalla sofferenza, dalla depressione, dallo smarrimento, dalla paura, dalla rabbia alla tranquillità, alla gioia, alla creatività. Che ci sono, ripeto, basta ‘farle uscire’. Ho anche ‘inventato’ schede di valutazione che tengono conto di questo e soprattutto del fatto che fare musica significa comunque interagire con gli altri e con l’ambiente. Nell’osservare queste persone, dunque, mi interessa ‘catturare’ l’attenzione che esse usano nel compiere qualsiasi gesto. Ad esempio, se passano dall’essere concentrati/isolati su se stessi, se mi danno attenzione, vuol dire che già interagiscono con me e con gli altri del gruppo presenti. E concedermi attenzione significa anche reggere in mano un pezzo di legno al posto mio: non grandi gesti dunque, ma piccole attenzioni che in realtà, nella mente annebbiata di un malato di Alzheimer, sono conquiste grandissime, tante piccole espressioni di gioia. Piccole, certo, ma presenti e pronte a venire alla luce”.

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