- E’
questa la convinzione di Nicola Corti, un musicista che si è
trovato per caso ad avere a che fare con i malati di Alzheimer,
tanto da aver elaborato una sua metodologia per riuscire a dialogare
con loro, attraverso la musica. Il risultato? Un arricchimento
coinvolgente, per l’anziano e l’operatore e che si basa su
cercare di fare emergere i lati positivi di esistenze annebbiate
dalla malattia. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua
‘esperienza sul campo’
-
- Nicola
Corti ha 38 anni e si occupa di persone fragili, come gli anziani
malati di Alzheimer, attraverso un rapporto particolare, che passa
in primo luogo dalla musica. Proprio in quest’ottica, si definisce
un “animatore musicale” ovvero un operatore che cerca di
recuperare rapporti di comunicazione con chi è circondato dalla
nebbia dell’Alzheimer ma che, per mezzo del “ricordo” di
canzoni del suo passato, riesce a recuperare qua e là sprazzi di
lucidità e di interazione con gli altri.
- I
lettori di Pro Terza Età sanno bene come questo giornale cerchi di
essere la “voce” di chiunque operi nel settore degli anziani,
per cui ci sembra sempre molto interessante poter trasferire a
tutti, attraverso queste pagine, le esperienze sul campo di chi ha
trovato grande soddisfazione professionale e umana nel proprio
lavoro, scoprendone le sfaccettature più nascoste della pratica
quotidiana e non nelle pagine teoriche di un libro.
-
- Sono solo canzonette, però…
- Nicola
Corti, ci racconta, fin da ragazzo voleva fare il musicista ma gli
eventi della vita (il matrimonio, la nascita di un figlio) gli fanno
accantonare la sua passione. Dotato di diploma di perito industriale
meccanico, inizia a lavorare come operaio senza grossa convinzione,
studiando sempre musica classica. Un giorno un amico gli consiglia
di lavorare in una cooperativa sociale che si occupa anche di
anziani istituzionalizzati. Ed è proprio da questo momento che
comincia ad avvicinare gli anziani ospiti nelle strutture,
all’inizio come operatore sociosanitario di “supporto” agli
educatori e agli animatori veri e propri. In tale periodo, osserva,
riflette, studia (diventa anche animatore di comunità), comincia a
pensare che ci deve essere dell’altro per tirar fuori dalla palese
apatia quegli anziani che vede tutti i giorni. Nel suo bagaglio
musicale, accanto alla musica classica, c’è una buona conoscenza
della musica degli anni quaranta e cinquanta. Già, proprio le
canzonette, che probabilmente hanno fatto sognare, ballare, cantare,
questi tristi anziani. “Perché no?”, dice a se stesso, “perché
non riproporre loro la canzonetta, la ballata popolare che si
avvicina a ciò che sono stati un tempo, che potrebbe ridonare loro
il gusto della musica, del ritmo, facendoli lavorare a livello di
ricordi?” Pensato e fatto. Corti inizia prima a riproporre musica
d’epoca, notando un certo gradimento, poi si porta dietro la
piccola batteria del figlio, pensando che le percussioni possano
risvegliare vecchi momenti felici. Del resto, le care vecchie bande,
come quelle dei bersaglieri, ad esempio, che tanti tanti anni fa si
vedevano sfilare per città e paesi, non sono sempre state
portatrici di allegria?
- E
Corti vede giusto: l’entusiasmo è alle stelle. Tanto è vero che
gli anziani mettono su un vero e proprio gruppo, la “Trick Track
Band”, cantando e facendo musica con tanti strumenti a
percussione, arrivando persino a realizzare spettacoli in altre
strutture. “Avere un ruolo attivo, anche semplicemente quello di
fare musica e farla sentire ad altri – sostiene Corti – dà
all’anziano motivo di vivere”, e prosegue ricordando che il
complessino era formato da persone di varie patologie. “C’erano
invalidi di guerra e anche un malato psichiatrico, che ripeteva
alcune frasi, tipo ‘fiorin-fiorello’, ma andando a tempo al
ritmo della batteria. Un voler comunicare con grande gioia, che
dimostrava in tale modo. Il bello è che mi rendevo conto di come la
gioia attraverso la musica coinvolgeva tutti: ognuno infatti suonava
o teneva il ritmo con le mani o con i piedi, pur non avendo una
conoscenza specifica. Ed è così, osservando il loro impegno nel
suonare, nel cantare, nel tenere il ritmo anche se in alcuni casi in
modo approssimativo, che ho capito una grande verità: l’anziano
normale ha tanti modo per comunicare, ma l’Alzheimer ha metodi non
verbali per farlo. Così, la danza, la musica, il toccarsi, il
battere le mani sono forme di comunicazione esattamente come le
altre a base di parole. E su questo – io che sono privo di studi
mirati in tal senso – ho costruito la mia particolare
“competenza” professionale, con la quale punto alla
rivitalizzazione della persona seguita con questa forma di attività
musicale. Non metto cioè un muro tra me e il malato di Alzheimer,
cerco di fare in modo che la rivitalizzazione sia reciproca, lui dà
qualcosa a me e io a lui, che il lavoro di comprensione riguardi
entrambi. Questo dare e ricevere in cosa consiste? Nel
“parlarci” attraverso la musica intesa come partecipazione di
gruppo. E nel gruppo c’è chi suona, c’è chi canta, chi batte i
piedi, chi mugugna, chi muove la testa… ma sempre sulla spinta di
una grande gioia che nasce secondo me dal tirar fuori le emozioni
che ciascuno ha, anche se sembrano nascoste dalla malattia.
L’animatore musicale, quale io sono senza risvolti psicologici che
lascio evidentemente agli esperti, punta alle emozioni di gruppo, in
cui la composizione musicale diventa una canzone strategica. In
questo contesto – racconta ancora Corti – ho composto alcune
canzoni con testi ispirati dalle risposte dei malati a domandine
semplici come “ti piaceva andare a scuola?” Tutti hanno risposto
affermativamente e ne è uscita fuori una canzone bellissima, che si
canta in gruppo. Perché gli Alzheimer coinvolti comprendono e
imparano pezzi, non ricordano soltanto. Certo, non so dire in che
quantità ma sono sicuro che qualcosa a loro rimane. E quel
qualcosa, dal mio punto di vista, è già tantissimo”.
- Nicola
Corti, dunque, insiste molto sulla musica non come semplice svago ma
come mezzo nel ”creare un gruppo” costituito cioè da persone
che, nonostante il loro handicap più o meno grave, riescono a dire
qualcosa in armonia. Ripete che sono soprattutto gli strumenti a
percussione quelli maggiormente gettonati (e nella sua esperienza i
più ‘dotati’ risultano essere gli uomini): insomma ritmi
semplici, regolari, quasi una sorta di pulsioni che, nel mescolarsi
tra loro, riescono a inventare qualcosa. E ciò succede quando il
gruppo si mette in circolo (una posizione che a quanto pare ispira)
e inventa una musica piacevole, anche se c’è chi usa solo il
battere del piede per riprodurre così la melodia vera e propria.
“Personalmente, sono contento quando vedo anziani che ridono e che
sono giocosi. Che cantano in modo anche buffo canzoni curiose
realizzate insieme, fatte di ritmi e musicalità che riescono a trasmettere
agli altri. Tutto questo mi ha fatto riflettere, ad esempio, sulle
schede di valutazione”. Indubbia la loro utilità, questo il
pensiero di Corti, ma secondo lui rischiano di essere limitative.
Per un semplice motivo. Osservano l’anziano, in questo caso malato
di Alzheimer, nella sfera legata al suo disagio, alla
sua sofferenza, alla sua fragilità, alla sua depressione. Ma
non si fa mai attenzione a un elemento fondamentale: la gioia.
“Non si fa caso se la persona è felice e se o quando riesce a
socializzare e a interessarsi degli altri. Magari saranno momenti
sporadici, ma ci sono. Personalmente, e consiglio di riflettere su
questo anche a quei miei colleghi che magari si sgomentano di fronte
alla sofferenza della malattia e vivono male la loro professione –
dice infine
Corti -, ritengo
assai importante il tendere alla socializzazione e al fatto che il
gruppo di malati si amalgami passando dalla sofferenza, dalla
depressione, dallo smarrimento, dalla paura, dalla rabbia alla
tranquillità, alla gioia, alla creatività. Che ci sono, ripeto,
basta ‘farle uscire’. Ho anche ‘inventato’ schede di
valutazione che tengono conto di questo e soprattutto del fatto che
fare musica significa comunque interagire con gli altri e con
l’ambiente. Nell’osservare queste persone, dunque, mi interessa
‘catturare’ l’attenzione che esse usano nel compiere qualsiasi
gesto. Ad esempio, se passano dall’essere concentrati/isolati su
se stessi, se mi danno attenzione, vuol dire che già interagiscono
con me e con gli altri del gruppo presenti. E concedermi attenzione
significa anche reggere in mano un pezzo di legno al posto mio: non
grandi gesti dunque, ma piccole attenzioni che in realtà, nella
mente annebbiata di un malato di Alzheimer, sono conquiste
grandissime, tante piccole espressioni di gioia. Piccole, certo, ma
presenti e pronte a venire alla luce”.
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