Paolo dei Marsi di Pescina - 1440

Il poeta improvvisatore della rinascenza

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Verso la fine dell’estate nell' anno 144O nacque a Pescina Paolo dei Marsi, poeta improvvisatore della seconda metà del secolo delta rinascenza degli stadi classici in Italia, appellato comunemente Paolo Marso, che nell’ancor giovine età di quaranta quattro  anni morì povero a Roma.

Nei suoi Comenti ai Fasti di Publio Ovidio Nasone  (Vedi Appendice 1’ e segg.), Paolo dice chiaramente che la sua patria è Pescina, o lo ripete più volte. Tutte lke notizie che si hanno di lui ce lo indicano in questa   forma:

Paulus Marsus piscinas o piscinensis, cognomento Marsus, o qui Marsus cognominaius est; ed egli stesso nei medesimi Comenti (1) si appella Paulus Marsus piscinas poeta clarus rt rethor. A prima vista pare che Marsus  sia un pseudonimo o soprannome, che Paolo aggiungeva al nome a memoria della regione d’origine alla maniera degli umanisti del suo secolo; ma non lo è. I professanti l’umanesimo del secolo XV avevano per legame esteriore il nome latinizzato, che era il segno visibile del loro entusiasmo per l’antichità. I nomi tramutati, o erano semplicemente trascritti dall’italiano al latino, come da Paolini in Paulinus, da Rossi a Ruffus, da Orsi in Ursus, o erano tradotti dall’italiano al latino, come Platina in Calvus, Mazzotosti in Ambustus, Ognibene in Pantagathus; o erano soprannomi alludenti a qualche particolarità

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  (1)   Nel libro VI, de’ Fasti dice: Et vieus nunc est, olim oppidum, mille passibus ab eodem Municipio, hoc est a nostra patria Piscina, cui nomen est Apamea.

(2)   N.B. Nel citare i Comenti seguo sempre la seconda edizione di Venezia del 1485.

fisica, come Bonaccorsi appellato Caeculus, Pomponio Leto soprannominato anche Balbus; o erano soprannomi alludenti alla patria, come Antonio Volsco, Volscus, Pietro Marso, Marsus. nel nostro Paolo dei Marsi però non è il Marsus un soprannome a memoria della terra natale, sebbene egli fosse della regione marsa; ma è un vero e proprio cognome. Io lo chiamo Paolo dei Marsi; e la ragione è chiara perché debba chiamarsi così.

    Nella prefazione al quarto libro dei Fasti (V. Appendice Iva) Paolo parla del suo casato e lo chiama numerosa Marsorum famiglia,  la numerosa famiglia dei Marsi; e quindi esisteva a Pescina la famiglia col cognome dei Marsi; e perciò quel Marsus non era il soprannome, ma il cognome vero. Arnaldo della Torre, nel suo lavoro Paolo Marsi da Pescina (Rocca San  Casciano; 1903), sebbene sia di questo parere, pure a Paolo dà il cognome Marsi e non dei Marsi, e non  ne comprendo la ragione; giacché egli stes­so dice che la famiglia aveva il cognome Marsorum, dei Marsi.

L’epoca precisa della nascita di Paolo ci viene indicata dall’ottava elegia del suo poemetto Bembice, del quale in appresso si parlerà, ove dice che allora stava per compiere i ventotto anni di età e che ha cantato sempre pudicamente e castamente.

Iam mihi bisdenis_super octo cadentibus annis

«Usque habuit castos nostra Thalia modos.»

     Siccome questa elegia fu scritta fra il 16 ed il 27 agosto dell'anno 1468 (I); così togliendo dal 1468 i 28 anni che stava per compiere, si ha l' anno 1440, in cui Paolo nacque a Pescina verso la fine dell'estate.

     Lo storico Muzio Febonio (Historia Marsorumi, Napoli, 1678, lib. 3 Cap.  1,) sostenendo che Paolo Marso e Pietro Marso fossero fratelli e nativi ambedue di Cese, asserisce che Paolo per ambi­zione si fa nativo di Pescina. Pietrantonio Corsignani ( De viris

    (1)  Paolo dei Marsi partì da Venezia per la Spagna il 15 agosto 1408 col patrizio veneto Bernardo Bembo al quale è dedicata la Bembice. Scri­veva le elegie per mare e l' XI. porta la data del 28 agosto 1468; e per conseguenza l' VIII. elegia, che è anteriore all' XI fu scritta prima del 28 agosto 1468.

  illustr. Marsorum, Roma,: 1738), non solo segue ciecamente la falsa asserzione del Febonio, ma incorre in uno dei suoi so­liti anacronismi, facendo - vivere Paolo nel XVI0 secolo. Andrea di Pietro (Agglomerazioni delle popolazioni della Diocesi dei Marsi, Avezzano, ) 1869, lo dice di Pescina, ed il pescinese Giuseppe Melchiorre (Istoria dei Marsi manoscritta) appella Paolo dei Mar­si lo splendore, il luminare, l’ eruditissimo, il celebratissimo della nostra patria, ma non dice altro. Cade pure l’affermazione di Isidoro del Lungo che lo chiama il romano Paolo Marsi (Floren­tia, Firenze, 1897, pag. 217). Il del Lungo fonda la sua asser­zione su qualche passo di Paolo dei Marsi, in cui Si appella poeta romano; ma tralascia di riferire le parole che Paolo immediata­mente fa precedere a queste. Ad esempio nell’Infine dei Comenti ai Fasti dell’edizione di Milano del 1483 e delta 2^ edizione di Venezia del 1485 così si legge: Paali Marsi piscinensis poetae romani. Chiaro quindi appare che il romano deve intendersi romano per adozione e per domicilio, nel senso che passò a Roma la maggior Parte degli anni di sua vita.

Il popolo marso non interruppe mai le relazioni che ebbe sempre con Roma, sia per la facilità di accedere ad essa, sia per la vicinanza, sia per la comodità della via Valeria e sia perché le potenti famiglie romane dei Colonna e degli Orsini possede­rono molte castella nella Marsica. Nel tempo antico i Marsi eser­citarono e seguitarono miei tempi di mezzo ad esercitare il com­mercio dei prodotti del proprio suolo nell’agro romano; ed i la­voratori della terra ogni anno dal dicembre al marzo ed in maggio ed in ottobre vi si recavano, e vi si recano tuttora, per la coltivazione e pel ricolto dei campi. Per questa. vicinanza le fa­mglie benestanti mandavano a Roma i figliuoli per farli perfe­zionare negli studi. In patria, oltre a leggere e scrivere, impa­ravano il trivio ed il quatrivio (1); ed, avuto riguardo ai tempi, pare che l’istruzione fosse sufficiente; anzi nei centri  principali

(1)  Il trivio consisteva nelle nozioni della grammatica, della retto­rica e della dialettica; ed il quatrivio in quelle dell’aritmetica-,della geometria, dell’astronomia e della musica.

  della Marsica spesso venivano invitati letterati di vaglia per l’insegnamento. Infatti il Cantalicio, celebre umanista del secolo XV, nella sua Oratio in reversione in patriam 1), indicando le città (dove era stato ad insegnare dice: Hinc (da Foligno) me, ut scitìs, ha­buit Rheate, inde Taleacotii ac marsi populi; indec in Achademiam. Perusinam…… invitatus  ac conductus accessi; ossia cbe da Foligno andò ad insegnare a Rieti, poscia a Tagliacozzo ed ai po­poli marsi ed indi passò allo studio di Perugia. E qui per i po­poli marsi si devono intendere i centri più Popolati dei Marsi, cioè, Tagliacozzo, Albe, Celano, Pescina, Àvezzano e Carsoli che appartengono alla regione marsa.

Paolo fu dai suoi primi anni trovò un protettore che lo vol­le presso di sé a Carsoli. ove rimase fino all’anno 1457; ma mor­to il suo protettore e privato dei campicelli avuti in dono di ogni suo avere, dovè allontanarsi da quel paese, perché non poteva mantenervisi, nè vi poteva vivere. Comentando i versi dei IV libro dei Fasti, in cui Ovidio, parlando di Carsoli. (dice:

              « Frigida Carseolis, nec olivis apta ferendis

« Terra, sed ad segetes ingeniosns ager, »

          Paolo aggiunge i seguenti suoi versi:

« Carseolana mihi teneros dilecta per annos -

« Lux erat, et iuris debuit esse mei.

« Sed fortuna mihi partos invidit agellos

« Diviciasque omnis sustulit ilIa meas;

« Nani periit montana. domus. generosa propago.

« Cui fata atque homines dique fuere truces:

« Impiaque  in miserum fortuna redundat allumnum,

« Nulla sit ut merito gratia parta mea. 

    In essi accenna alla morte di una montana domus e di una generosa propago, di cui egli era un cliente, un protetto, un alumnus, e dalla quale avea ricevuto in regalo i campicelli e gli ave­ri. Pare che il generoso protettore dì Paolo fosse stato Virgilio

  (1) Cfr. A. M. Baudini, Cat. cod. bit. Bibl. Med. Laur. Tomo III,

           Firenze, 1776, col. 457.

  Orsini patrizio romano, generosa propago, e che il casato Orsini fosse la domus montana, che possedeva il castello di Carsoli, Cellae Carseolorum. Il prof. Pietro Piccirilli di Sulmona (La Marsica. Monumentale, estratto dall’ Arte di Adolfo -Venturi, anno XII. fasc. V. Roma, 1909) dice che nella piazza di Carsoli, a pochi passi dalla Chiesa di Santa Vittoria, fiancheggiante la via Va­leria, è il palazzo degli Orsini, la costruzione del quale può ri­montare ai primi anni del XV secolo. Le quattro bifore gotiche del fronte di questo simpatico tipo di casa civile medioevale, sobrie di decorazione, sono lavorate con grande maestria. Pare al Piccirilli che le finestre a croce non siano state aggiunte posteriormente, ma che siano coeve alla fabbrica. In questo palazzo abitò Paolo fino al 1457 come cliente e familiare di Virgilio Orsini suo be­nefattore. Muzio Febonio, a pag. 207, e il Corsignani, a pag. 217 dicono che nel 1457, morto Virgilio Orsini, il castello di Celle si sottrasse alla signoria degli Orsini e per volontà popolare si diede ad Alfonso re di Napoli.

Nel 1457, all’età di diciassette anni Paolo partì da Carsoli e si recò in Roma: ove si istruì e seguitò ad avere probabilmen­te aiuti dalla famiglia Orsini. Lo spirito dei tempi concorse a fare cli Paolo un distinto professore di umane lettere ed un buon poeta estemporaneo. Si trovò all’epoca che, già dalla fine del se­colo XIV, erano in Roma rinati i buoni studi ed era nel suo pieno sviluppo l’amore per le lettere latine e greche; ed egli, di ingegno svegliato ed ardentemente cupido di apprendere, non tardò ad acquistarsi l’amore degli studiosi (1).

Era venuto a Roma verso 1448 Giulio, appellato comune-niente Calabro (2),- giovine nobilissimo per lignaggio e per sa­pere, figlio naturale (li Giovanni Sanseverino conte di Marsico, nato a Diano ora Teggiano nel principato citeriore, nell’anno 1428. Educato accuratamente in patria, partì all’improvviso da essa, essendo ancor giovinetto, e visitò la Calabria e la Sicilia.

  (1) Inutili sono riuscite le ricerche per avere qualche notizia del padre e per sapere se Paolo fosse più tornato a Pescina.

(2) Il Sabellico, nella vita di Pornponio Leto, lo dice calabrese. ma non lo era,

  Attratto dalla fama di Lorenzo Valla, venne per mare a Roma e quivi si dedicò agli studi classici sotto il Valla. e morto co­stui, sotto Pietro Odi; e fu tanto il suo amore per gli studi del­l’antichità che cambiò il nome i impostogli inell’infanzia in quello di Pomponio Leto. Nel  1468 per la sua prigionia prese il soprannome di Infortunato; uscito dal carcere probabilmente nell’està dello stesso anno aiuto, lo tramutò in quello di Fortunato; ed in un Breve pontificio del 1479 viene appellato Pomponio Balbo, so­prannome derivante dalla sua, balbuzie. Dotato di un ingegno po­tente, per lo studio indefesso dei libri e dei documenti antichi divenne in breve molto dotto nella letteratura ed uno dei più eruditi del suo _tempo; giacché con lo studio aveva acquistata una profonda conoscenza dei costumi, del progresso e delle cause della decadenza dei popoli antichi. In Roma, centro di ogni col­tura, si dedicò alla istruzione della gioventù; ed al vederlo sempre cogitabondo, tutto assorto nella meditazione degli antichi codici e delle pietre scritte, e vestito all’uso degli antichi, sembrava uno zotico; ma non era cosi. Furono celebrati i suoi co­stumi illibati, il cibo parco e semplice, la vita. ingenua e la. catoniana schiettezza: e dal Sabellico e dal Platina fu appellato uomo semplice ed incapace di pensare alcun che di male (1). Ogni giorno costantemente prima dello spuntar dell’alba, fosse

   buono o cattivo il tempo, colla lanterna in mano quando non splendeva la luna. andava a far scuola nell’ Esquilino uscendo dalla casa. che era lì vicino; ed ivi ad un’affollata moltitudine di studenti con romana gravità ma con affettuosa espansione, spie­gava. gli autori greci e latini; e vi accorrevano dotti, artisti. sol­dati, adolescenti, donne, artigiani, non solo italiani, ma. benanche stranieri; ed era tanto ammirato che la folla cominciava ad in­vadere l’aula della scuola dalla mezzanotte. Il suo dire dalla cattedra era chiaro ed elegante, la venustà  dello stile e l’ impeto della locuzione attraente, soave e canora, accompagnati dalla fiamma degli occhi, rendevano quasi più vasta la sua erudizione; ed

  (1) Vedi G. Fioretto. Gli Umanisti o lo studio del latino e del greco nel XV secolo. Verona.. 1881.

  il suo entusiasmo si trasfondeva nei giovani accademici, che lo udivano con attenta emozione e lo onoravano altamente. Idola­tra del classicismo, avrebbe data anche la vita per far risorgere le scienze, le lettere e le arti quali furono ai tempi di Cicerone, Livio, Virgilio, Orazio Ovidio. Il resto lo tempo lo passava muto, errando qua e là fra le rovine, contemplando, annotando e raccogliendo frantumi scritti, pietre e terrecotte incise, bronzi, monete, cammei, cimelii. Istituì un convegno di dotti che a modo greco chiamò Accademia, e così costituì la repubblica delle lettere, iniziando una nuova era letteraria e la restaurazione de­gli antichi studi; ed essa si disputava di filosofia, di lettera­tura e di arte (1).

Alla rinascenza dei buoni studi gli ecclesiastici, che pel passato avevano raccolti nei chiostri e nelle chiese i codici sparsi specialmente religiosi, furono tra i più entusiasti nella riunione dei codici dell’arte classica, anche perché i papi Nicolò V° e Pio II con diligenza e passione avevano riunito quanto di bel­lo e di antico avevano potuto rintracciare ed erano stati protettori dei letterati. Il continuo crescente ardore dei dotti pel culto degli antichi si risvegliò nelle città d’Italia, e ben presto a Ro­ma, a Firenze, a Napoli, a Venezia, si fondarono le accademie. Ad esempio del maestro molti pomponiani cambiarono i loro no­mi, desumendo i nuovi dai nomi greci e romani; ed il Platina, nella vita Paolo II°, dice che Pomponio per amore dell’antichità faceva prendere agli adolescenti quei nomi, affinché la gio­ventù avesse uno sprone di emulazione per seguirne le virtù. Anche nella forma letteraria facevano prevalere lo spirito paga­no, ed appellavano Pomponio Leto pontifex maximus più influ­enti del sodalizio sacerdotes achademiae romanae e i sodali di alto sapere patres Sanctissimi. Celebravano solennemente ai 20 aprile il natale di Roma, ed ai 7 novembre la festa anniversitaria della nascita ad un tempo e della morte di Platone.

  (1) Non è mio compito di parlare estesamente degli Umanisti; solo ne dirò quel poco sufficiente a far conoscere in quali tempi visse e in quale ambiente si trovò Paolo dei Marsi.

  Di que’ tempi il dottissimo greco cardinale Giovanni Bes­sarione, insigne seguace della dottrina di Platone, fu cultore efficace delle lettere e delle scienze e protettore di chi le amava; e la sua casa in Roma divenne il ritrovo degli uomini pia dotti e più illustri del rinascimento. Convenivano in essa Pomponio Leto, Paolo dei Marsi, Pietro Marso e tutti i proofessanti l’u­manesimo.

Sul colle Quirinale Pomponio ebbe una. casa a due piani con orti ameni e con un delizioso laureto adiacente, legatogli da Bartolomeo Platina mentre moriva di peste. a Roma nel 1481, affinché in avvenire nel laureto si coronassero i poeti ed i filo­sofi da ammettersi quel  congresso di dottori, che fossero giudicati degni di laurea (1).

Intanto cou indefesso ardore si seguitarono a scoprire nei vecchi Conventi i codici, e da per tutto si copiavano iscri­zioni, si dissotteravano statue, si raccoglievano frammenti, medaglie  e monete, si compravano a caro prezzo i classici scoperti e si copiavano. Si navigava nel Mediterraneo, si andava in Orien­te, si visitavano Atene e la Grecia e Costantinopoli, si viaggia­va in Germania, in Inghilterra, in Ispagna. Pomponio Leto ne­gli Archivi vaticani ritrovò le due epistole De ordinanda Repu­blica, che furono da lui attribuite a Sallustio (2); e la smania di rinvenire i tesori intellettuali  della prisca età fece frugare i pom­poniani nei monasteri, nelle chiese, nei palagi e perfino nei se­polcri (3). Il trovarsi spesso g1i studiosi fra i mucchi di ruderi

  (1) V. Nicolangelo Caferio. Vita di Bartolomeo Platina, Venezia, 1703.

(2)      V. Bollettino di storia patria Anton Ludouico Antinori, Aquila, 15 luglio     1897. Puntata 18^.

(3)  L’Armellini nelle L’azioni di Archeologia cristiana edite a Roma, a pag. 122, dice: « Nel cimitero di Callisto, ossia nelle gallerie adiacenti, vi è la memoria di Pomponio Leto e compagni letterati del 1475, i  quali vi lasciarono i nomi. Vi furono condotti da curiosità letteraria e i da alcune frasi si scorgono cervelli paganeggianti.  Anzi vi Scrissero la data coll’anno, giorno e mese che vi scesero XV Kal. Feb. 1475 ossia il 18 gennaio 1475. Ed a pag. 146 Io stesso Armellini, parlando del cimitero   dei distrutti monumenti, e l’essere entrati nei sepolcri fece nascere il sospetto di qualche congiura. Al papa Paolo II°, che sempre temeva che si rinnovassero in Roma i passati tumulti e le ribellioni, giunse l’accusa chc i pomponiani profanassero le chiese ed i sepolcri. Il Platina, nella vita di Paolo II°, dice che avuto avviso il papa che in una terra di Tagliacozzo, forse ver­so il 1667, fossero molti eretici, vi mandò tosto, ed avuto nelle mani il Signore di quel luogo con otto uomini e sette donne, quei che pertinaci furono di gravissima ignominia notò; con gli altri, che chiesero perdono, si portò più piacevolmente; ma non dice chi fosse il Signore e quale la terra, nè il Febonio, nè il Corsigtìani fanno menzione di questo fatto.

Ai principii del 1468 furono rinnovate le delazioni che si congiurava contro il papa, che anzi i seguaci di Pomponio avesse­ro relazioni coi principi nemici della Santa Sede e che i princi­pali congiurati fossero Callimaco, Pomponio e Platina. Callimaco che era realmcnte il capo de’ congiurati, avuto sentore del­la burrasca, fuggì in Polonia, da dove tornò dopo venti anni a Roma; ma Platina fu tra i primi arrestati, e poi Pietro Marso ed altri. Pomponio (1), uomo semplice, ma libero, nulla sapeva della congiura e da circa un anno trovavasi a Venezia. Colà venne catturato. assenziente quella Signoria, ricondotto a Roma e rinchiuso cogli altri in Castel Sant’Angelo nel marzo di quell’anno (2). Nelle accuse vi era qualche cosa di vero, giacché molti

cimitero di Pretestato, asserisce: « In questo cimitero discese pure Pomponio Leto.

» Antonietta i Klitsche De La Grauge nel suo Pomponio Leto ri­porta l’iscrizione seguente scoperta dal De Rossi nel Cimitero di Callisto:

Pomponius Pont. Mar. — Mani1ius - Ro. Pantagathus sacerdos achade­miae rom. Questo Pantagato è un vero e proprio sacerdote, perché è il soprannome che ebbe nell’Accademia Giovan Rattista Capranica, che nel 1478 fu fatto Vescovo di Fermo

(1)   Circa le accuse a carico di lui vedi La difesa di Pomponio Leto di Isidoro Carini. Bergamo, 1894.

(2)   Interrogato Pomponio perché mutasse i nomi ai giovani, rispose:

che v’importa, s’e mi voglio chiamare finocchio, se Io fo Senza inganni  e senza frode? Anche ora esiste presso - Roma fuori Porta Maggiore per la via Consilina, sopra al culmine di un monticello l’Osteria del Finoc­chio, nome impostovi dai satirici romani accademici avevano la fama di maldicenti, di detrattori, di sca­pestrati e peggio ancora e di essere indifferenti in fatto di reli­gione. Il papa giusto e clemente, come dice il Platina. assicuratosi che non vi era in essi cosa che sapesse di eresia, dopo do­dici mesi di prigionia, nell’aprile 1409 li fece lasciare liberi. Mi­chele Canesio, nella vita di Paolo II°, appella l’Accademia empia setta e gli accademici disprezzatori della religione; il Tira­boschi invece, nella Storia della letteratura italiana, lib. I, pag. 96, inchina a credere che essi fossero innocenti, e che Paolo II° se li avesse trovati rei, certamente non li avrebbe lasciati impuni­ti; giacché tutti uscirono daI carcere senza alcun castigo.

  L’accademia, dispersa da quella bufera, decadde allora, ma si ricostituì sotto Sisto IV° ed Innocenzo VIII°; e Pomponio nel 1469 dallo stesso Paolo II° ebbe una cattedra. all’Università del­la Sapienza.

In Roma il nostro Paolo dei Marsi frequentò le lezioni di Pomponio Leto, dal quale fu amato in modo speciale (1), appar­tenne fin dai primi tempi all’Accademia romana, e verso l’età di venti anni incominciò i Comenti ai Fasti di Ovidio; anzi egli stesso dice che stava per pubblicarli fin da allora assieme al suo più caro amico Autonio Volsco, ossia Auutonio Costanzi da Piperno, ma poi tutto fu sospeso perchè partì da Roma. Nel medesimo tempo che era assiduo discepolo di Pomponio entrò nel collegio degli abbreviatori pontifici (2). Però il servizio che prestava nella curia magna, la vaticana, insieme a moltissimi altri umanisti, da lui chiamati fratres, era molto duro con un lavoro  improbo di giorno ed anche di notte, e la retribuzione era esigua,

  1) Il Sabellico. nella vita di Pomponio Leto. dice che Pomponio unice dilexit Marsurn senioreìn, ossia Paolo, perché il Marsus iunior è Pietro Marso.

(2)    La maggior parte delle notizie sulla vita di Paolo dei Marsi, ad eccezione di quelle desunte dalle sue opere e di quelle di cui man mano citerò le fonti speciali, le ho attinte dall’erudita opera di Arnaldo della Torre: Paolo Marsi da Pescina. Rocca S. Casciano. Edit. Licinio Cappelli, 1903.

specialmente quando a capo di quel collegio fu posto il cardinale Bartolomeo Roverella.

Avuto Paolo la profferta di un altro impiego fuori di Roma, e più rimunerativo, verso il settembre del 1463 lasciò Roma, ma non si sa dove andasse. E’ certo che al principio de] 1466 trovavasi a Perugia ed ivi stava come cliente della casa Savelli, e vi rimase fino a che vi fu per governatore Monsignor Giovanni Battista Savelli, ossia dal principio dcl 1466 sino ai principii del 1468.

In Perugia, scrisse il poemetto in esametri intitolato: De aureis Augustae Perusiae saeculis per divum Paulum Secundum re­stitutis. libri tres (1). Comincia in esso col descrivere l’ arrivo in Perugia del governatore Savelli, prosiegue col lodare tuttociò che aveva fatto di bene a Perugia il papa Paolo II°, e conchiude con un inno di lode al medesimo papa..

   Allo studio di Perugia il dei Marsi fu professore probabil­mente di lettere latine. Da una elegia inviata da Venezia agli amici di Perugia col titolo: Pauli Marsi epistola ad amicos omnes Perusiam Auyustam incolentes (2) si rileva quali erano i suoi a­mici in questa ultima città. Vi comprende fra i molti, un Tespio Umbro, suo diletto discepolo, Giovanni Rosa da Terracina, che poi fu governatore di Perugia nel 1486, Stefano Guarnieri da Osimo, primo cancelliere della stessa. città nel 1466, il famoso Jacopo Antiquario, Francesco e Fabrizio Baglioni, due figliuoli lei celebre giureconsulto Tindaro Alfani, il poeta Angelo Decembrio Calcondicola, professore. a Perugia di lingua greca. Dalla medesima elegia velatamente traspare che Paolo dei Marsi ave­va lasciato a Perugia un altro prediletto discepolo, che egli chia­ma suo figliuolo, dulcem filiolum, spem et dimidium animae meae, ma non gli era figlio, perché è certo che non ebbe mai moglie, come chiaro apparisce dalla citata prefazione al quarto libro dei Fasti.

  (1) V. Gioan Battista Vermiglioli, Memorie di Jacopo Antiquario. Perugia. 1813, pag. 344-372, che hanno relazione agli anni 1466-67.

(2) Lo stesso Vermiglioli nell’opera citata, pag. 835-341.

 

Durante il suo soggiorno a Perugia, se non fu negli anni posteriori, Paolo dei Marsi andò a Modena a studiarne le anti­chtà, come appare dai seguenti versi di Bartolomeo Prignani (De Imper. Cupid. lib. IV.)

« Interea aspicio vatem cognomine Marsum.

» lnter mortales qui modo clarus erat.

« Venerat et Mutinam, priscae quo signa ruinae

« Cerneret et veterum grammata Pvramidum ».

  Ai principi del 1468 Paolo già stava a Venezia, ove allora si trovava Pomponio Leto da circa un anno, ed ebbe per Mecenate Bernardo Bembo, dotto e distinto patrizio veneto col quale aveva stretto amicizia a Perugia. Aprì una scuola a Venezia col­la protezione di Pomponio e del Bembo e mentre così stava con­tento fra la scuola e la conversazione di quegli umanisti, giun­sero colà, fuggiti da Roma, alcuni sodali, Callimaco. Glauco, Pe­treio ed i suoi buoni amici Berardino Cillenio, Paolo Emilio da Sulmona, Giulio da Borgo e Roberto Orsi, e da questi ebbe la notizia della prigionia di Pietro Marso e di molti altri pomponiani. Allora, preso da sdegno, si decise a partire per l’Oriente, o per l’Europa settentrionale; ma dal suo Mecenate Bernardo Bembo fu distolto da quel pensiero.

La Serenissima repubblica di Venezia in quel tempo diede a Bernardo Bembo l’incarico di andare in Ispagna con uu’ambascerja, al re di Castiglia. Bernardo volle con sè Paolo dei Marsi e l’altro poe­ta umanista Antonio Vinciguerra, che Paolo appella splendor amicitiae.  Partirono da Venezia verso il 15 agosto 1468, in un giorno furono a Pola, e dopo nove giorni di mare burrascoso si trova­rono nel mar Ionio in vista di Siracusa. I due poeti chiesero il permesso di visitare i monumenti 1i quella città ed il foro Tinacrio, ma le autorità siracusane negarono il permesso e Paolo elegia impreca loro ogni male. Costeggiando la Sici­lia dal Capo Passero si diressero alla fertile isola di Malta, che in quell’anno però era sterile per la siccità prolungata. Lasciate indietro le Sirti ed Utica videro da lungi spuntare fuori delle sabbie del deserto le dirute mura di Cartagine e passarono vicino ad Ippona nella Numidia. Finalmente per lo stretto di Gi­bilterra entrarono nell’ Oceano Atlantico e sbarcarono a Cadice bene accolti dalla popolazione. Da Cadice si diressero verso la ubertosa Castiglia, ed in breve giunsero alla bella città di Siviglia. Con entusiastica ammirazione nella Bembice ne descrive lasplendida reggia del sole, il palazzo dell’ Alcazar, i monumenti moreschi e le altre meraviglie.

     Mentre Bernardo Bembo conduceva a buon porto la sua am­basceria ed otteneva dal re di Castiglia ciò che la repubblica veneta desiderava, il dei Marsi si mise in relazione  erotica con Beatrice, trilustre vergine castigliana, figlia unica del vedovo me­dico del paese. Ad essa è intitolata la XX poesia della Bembi­ce: De Beatrice ninpha hispalica; ma dopo pochi mesi dové ab­bandonarla. Compiuta l’ambasceria, il Bembo col seguito ripartì per via di terra e tornò a Venezia il 24 febbraio 1469. Paolo riordinò le poesie, che avea composte durante il viaggio, le inti­tolò Bembice a ricordo ed in onore di Bernardo Bembo e gliele presentò il 1. marzo 1469.

  Paolo non aveva dismesso il pensiero di visitarel’Oriente e gli si presentò propizia l’occasione. Nicolò Canal dottore e se­natore veneto, insigne per coltura e per ambascerie ben riuscite, abbandonata la carriera diplomatica, aveva intrapresa la milita­re, e nel gennaio 1469 veniva eletto ammiraglio della flotta veneta nell’ Oriente contro il Turco. Paolo, appena tornato dalla Spagna, presentato dal suo mecenate e dagli amici al Canal, dallo stesso fu invitato a seguirlo come cantore delle sue gesta. L’ammiraglio salpò da Venezia con venti triremi, e giunto nel­l’Oriente, saccheggiò alcune borgate del golfo di Salonicco. Raf­forzata l’armata con altre sei triremi, fece vela per Lemuo e per Imbro, e poscia verso la città di Enos nclla Tracia, alla foce dell’Ebro, oggi Marizza. Giunto sull’albeggiare del 17 luglio 1469 davanti la città, l’assalì all’improvviso, la prese senza resistenza, la incendio e la saccheggiò spietatamente. Quindi si volse verso la Lidia e prese e saccheggiò Foggia Nuova; però da Foggia Vecchia fu respinto con energia, con gravi perdite e con sua. vergogna. Nel golfo di Corinto fortificò Vostizza sulla costa settentrionale del Peloponneso, poco distante da Patrasso, sebbene vi si fossero opposti inutilmente i Turchi, coi quali venne alle mani Paolo dei Marsi che si trovava nella nave ammiraglia della flotta veneta, dava notizia di tutte queste vittoriose imprese, in una entusiastica elegia (lei 30 luglio 1469, a Giovanni Canal, figlio di Nicolò, che trovavasi in Inghilterra ambasciatore del senato veneto (V. Appenid. X). Ma all’improvviso la fortuna si volse contraria al Canal. Negroponte, Euboea, città fortissima e in posizione strategica, punto di comunicazione fra la Grecia e l’Asia Minore, presidiata dalle flotte e dalle milizie venete, cad­de nelle mani dei Turchi, fu arsa e saccheggiata barbaramente, e gli abitanti con ferocia inaudita, furono vari modi uccisi, impalati, squartati, lapidati, secati, scuoiati. Su1la strage d] Ne­groponte il dei Marsi fece una lunga elegia, che dedicò a Pao­lo II° , intitolata: De crudeli Europontinae urbis excidio, sacrosanctae religionis christianae lamentatio (V. Appenind. XII). Nicolò Canal, col quale Paolo de’ Marsi tornò a Venezia, fu processato e condannato alla relegazione perpetua a Porto Gruaro, ed il poe­ta rimase abbandonato.

La lamentatio ebbe ammirazione e diffusione a Venezia, e il dei Marsi in breve trovò un altro protettore in Marco Coruer (1), uno dei più cospicui e ricchi patrizi veneti, che gli affidò l’educazione del figlio Giorgio. Aveva passata la giovinezza Marco navigando ed accrescendo le sue immense ricchezze colla merca­tura, che esercitò più di tutto in  Cipro, ove si acquistò la fiducia di, quel re, che lo fece cavaliere e suo intimo consigliere. A Venezia fu senatore, ebbe le più alte cariche e si mostrò assai liberale delle sue ricchezze a pro della patria. Quando il dei Mar­si tornò dall’Oriente a Venezia, Marco aveva, iniziate per mezzo del fratello Andrea, residente in Cipro e onnipotente a quella corte, le trattative per dare la propria figlia Caterina in sposa à Giacomo, re di Cipro.

Paolo dei Marsi, mentre soggiornava a Venezia, strinse pure

  (1) Paolo appella Cornelia la famiglia Corner, Cornaro o della Cornia e la fa affine agli Scipioni.

amicizia con Ermolao Barbaro, con Francesco Nursi e con Giaco­mo Bologni, ed ivi rimase come percettore di Giorgio Corner sino ai principii dell’ anno 1473, tornandosene poi a Roma dopo l’assenza di dieci anni. Di questo nuovo soggiorno del dei Marsi a Venezia dal 1469 al 1473 non si hanno notizie; eppure in quel tempo successero colà avvenimenti gloriosi per la famiglia Corner, che dovettero ispirare al poeta entusiastici versi. Il 14 lu­glio 1472 arrivarono a Venezia gli ambasciatori di Cipro, che vennero a prendere Caterina Corner promessa sposa del loro re; co­stei in questa fausta ricorrenza ebbe il grande onore di essere adottata per propria figlia dalla Serenissima repubblica, la quale si dichiarò erede di Caterina, qualora questa non avesse procrea­to figli; e la partenza di questa figlia di San Marco fu celebrata con feste oltremodo sontuose. Eppure nulla sappiamo delle poe­sie che Paolo improvvisò in quella circostanza.

Quando Paolo dei Marsi tornò a Roma, era morto il papa Paolo II, ed il successore Sisto IV era favorevole agli studi dell’umanesimo, che già erano rifioriti. Gli accademici furono lie­ti di riaverlo fra loro, lo festeggiarono e lo posero con Pompo­nio Leto e P. Astreo alla direzione del sodalizio, e Paolo ne di­venne uno dei membri piìi importanti. È probabile, ma noti può asserirsi con certezza, che dopo il ritorno a Roma, se non fu prima, gli fosse stata posta sul capo la corona d’alloro da Pomponio Leto nel suo laureto, acclamante tutta l’Accademia.

L’Accademia nel 1478 si ricostituì su basi durature e con indirizzo religioso, e Paolo dei Marsi seguitò ad esserne un so­dale principale, e ne fu anzi uno dei capi con l’ufficio censo­re. In verità per la vasta erudizione, per la venustà, per lo splen­dore, per l’eleganza dello stile latino puro e fiorito, per la facoudia abbondante della locuzione, per la fecondità della inesauribile vena improvvisatrice e per l’amicizia del fiore dei letterati del suo tempo, fu molto stimato dai coetanei anche perché nel conversare mostrava un animo sincero, aperto e lieto e molta af­fabilità nei modi. Ed i suoi amici poeti fecero a gara nel lodarlo. Il giureconsulto Roberto Orsi di Rimini lo encomia con un epigramma laudativo (V. Append. IX ); Ermolao Barbaro in una poesia epigrammatica ne loda l’abbondante vena poetica e gli domanda: che cosa sarà capace di fare ora che è tornato nel paese dove regna la pace, se gli è riuscito tanto facile di poetare fra lo strepito delle armi e le acque ondeggianti del mare? Callimaco in una saffica ad Marsum, all’ amico cantore della presa di Negroponte, e Girolamo Bologni da Treviso allor­ché Paolo ancora aveva la dimora a Venezia, in un carme elegiaco­, diretto all’amico Paulo Marso poetae illustri, elogia il Co­mento ai Fasti, pcl quale Ovidio, che egli chiama l’antico poeta marso, risorge a vita novella, e fa lusinghiera allusione al poemetto sulla distruzione di Negroponte. Paolo risentì l’influenza. dei suoi tempi e non deve recare meraviglia se la cupidigia della gloria e dell’immortalità traspa­re dai suoi Comenti conte traspare ugualmente dagli scritti di tutti quei fecondi letterati del rinascimento, nei quali la glo­ria è passione, anzi è delirio. Questo febbrile amore della gloria veniva eccitato da varie e potenti cause, che, forse, li potrebbe­ro scusare in parte dalla taccia di vanitosi. L’Italia   d’allora li apprezzava molto e con tutti gli eccessi di una ammirazione sin­cera e profonda. Sono indescrivibili gli entusiasmi pei dotti er­ranti quà e là, quali seguaci dé trovatori, dispensando dottri­na e riscuotendo applausi e danari. Gli umanisti in fondo non erano cattivi, in generale erano affabili, piacevoli allegri; e quel­l’animo gioviale li condusse ai giocondi convegni, ai lieti banchetti, alle dotte conversazioni, alle passeggiate socratiche (1). Lo studio si faceva fra i. campi, per le vie, nelle ville, i negli or­ti. Ogni letterato apriva la sua casa ai giovani, ai forestieri, a tutti di ogni classe, senza distinzione, e vi accorrevano in folla per sentir parlare di cose antiche e per disputare con piacere su di esse. In quelle liete, animate riunioni in quei simposii della scienza si sentiva quanto è potente il sapere, quanto è bella la gloria. E che Paolo dei Marsi risentisse l’influsso del secolo in cui visse, traspare dai suoi Comenti. Nella prefazione al terzo

  (1) Cfr. Gregorovius, Storia di Roma, Vol. VII, lib. XIII, cap. VI, traduz. ital

libro (V. Append. III), in quella al quinto (V. Append. V), nell’ altra al sesto (V. Append. VII), ed in fine dello stesso sesto libro (V Append. VIII) mostra di sentire troppo la propria va­lentia. Nella prefazione al secondo libro (V Append. II) si lagna che vi sieno quelli che lo criticano che sia troppo prolisso, ma si giustifica dell’addebito col fare osservare che insegna in un pubblico ginnasio, agli ignoranti e agli eruditi, ai fanciulli e ai più grandicelli, ai quali niente deve passare sotto silenzio, ma tutto deve spianarsi e chiarire. Nella prefazione al quinto libro (V. Append. VI) torna a lagnarsi di un maledico, che tro­vasi a Venezia, ma non è veneto, il quale lo critica perché co­me poeta estemporaneo vuole innalzarsi al cielo per la fertilità dell’ingegno.

I Comenti  ai Fasti, che egli aveva incominciati prima del 1463, furono da lui proseguiti ed ultimati dal 1474 al 1482; e fu talmente accurato nel completarli che, nel punto di pubbli­carli si faceva prestare i quaderni dai suoi scolari per confron­tarli coi suoi scritti ed ordinarli definitivamente, come egli stesso confessa nella prefazione al secondo libro. Vi aggiunse un’appen­dice astrologica intitolata: Ratio astrologiae, che compilò nell’anno 1479, come egli dice: nam ab eo anno, qno natus est Ovidius,usque in hunc annnun deftuxere anni 1522. Sicconìe Ovidio nacque l’anno 43 av. G. G., così, togliendo 43  dal 1522, si ha l’anno 1479; e dichiara più sotto che vi diede l’ultima mano nel 1482: quo quidem anno (1482, che ha indicato poche linee prima) haec excepsimus et imprimenda dedimus. Verso il giugno del 1482 andò a Venezia per ultimare il suo lavoro da pubblicarsi subito a spe­se del suo mecenate Giorgio Corner, ed i Comenti si pubblicarono.

    In questa andata a Venezia accadde a Paolo de’ Marsi un curioso accidente. Passando vicino Firenze ebbe desiderio di visitare quella bella città dei fiori, di rivedere gli amici Angelo Poliziano e Demetrio Calcondicola e di far visita a Lorenzo dei Medici, il Magnifico, il Mecenate del Poliziano; ma dai custodi gli furono chiuse le porte in faccia perché proveniva da Roma, ove vi era’ la morìa. Ciò si rileva da una poesia di Paolo al Poliziano­

(V. Append. XI^ ), scritta avanti la porta di Firenze, in cui gli narra l’accaduto, gli dice che non ha avuto contatto con appestati e che son 24 giorni che manca da Roma. Lo prega ottenergli il permesso di entrare o almeno che si recasse col Calcondicola alle porte per rivedersi. Non si sa se entrasse o Parlasse avanti le porte coi suoi due amici.

Nella prefazione al sesto libro dice che è imminente il tempo ­della riapertura della università romana, alla quale era stato nominato professore di rettorica nel 1430. Questa volta, con umiltà rara e singolare in lui, dice che con non troppo piacere accolse la nomina, perché si stimava impari a tanto onore, e che l’accettò per la vecchia amicizia coi dottissimi professori di quello studio.

Prosiegue a dire che deve tornate a Roma, dove lo chiamano i suoi colleghi d’insegnamento, il celebre Pomponio Leto, la cui dottrina si estolle alle stelle e il sapere e l’ingegno hanno i confini dell’ universo; Antonio Volsco a lui carissimo e Pietro Marso suo conterraneo, che, per la profondità degli studi, toccò la vet­ta dell’Olimpo, illustre per ingenua assennatezza ed insigne per la profonda conoscenza delle lettere latine.

Gl’invidiosi cercarono anche una volta di porre ostacoli, af­finché la censura veneta negasse la licenza necessaria per la pubblicazione; ma non vi riuscirono, e l’opcra fu pubblicata a Venezia il 24 dicembre 1482; sei mesi ne uscì una edizio­ne a Milano il 5 giugno 1483, cd un’altra a Venezia il 27 ago­sto 1485. Ne abbiamo un’altra di Venezia del 1762, una di Tu­scolo del 1527 ed una di Francoforte del 1601.

Interessante è l’infine la soscrizione dell’edizione di Venezia del 1485, che dice:

« Relligiosae littcrariae sodalitati Viminali et universae

academiae latinae ad viventium  posterorumque usum Pauli Marsi pisci.(natis) poe.(tae) romani fideliss.(imi) Fast.(orum) interpretationem Antonius Bactibonis alexandrinus Venetiis imprimendam curavit anno salutis MCCCCLXXXV, dic XXVII «angusti et a constituta sodalitate a.(uno) VII, d.(ominico. r.(uverio) car.(dinali) divi elemen. (tis) protectore, pont.(ifice) firman.(o) et nestore malvis.(ii) preafectis, Pompino Laeto, P.( ublio)

    Astreo ct Paolo Marso censoribus, IX cal.(endas) ianua­r.(ii). »

11 dominico ruverio è il cardinale. Domenico della Rovere fratello del papa Sisto IV, protettore della religiosa sodalità Vi­minale, il pontifex firmanus è Giambattista Capranica vescovo di Fermo, e nestore malvisii é il patrizio bolognese Nestore Malvcz­zi cavaliere gerosolimitano entrambi prefetti del sodalizio. Il protettore ed i due prefetti erano cariche officiali della corte pontificia, che, come, delegati del governo, avevano l’obbligo d’invi­gilare sul regolare andamento della società Viminale, ed i tre censori, appartenenti al sodalizio, venivano ogni anno detti da­gli accademici nella ricorrenza delle feste palilie e del Natale. di Roma, che, secondo  i loro calcoli, celebravano con solennità ai 20 aprile, e non ai 21. Confrontando la soscrizione del 1482 con quella de 1485, si scorge che le persone che coprono le cariche sono le stesse; eppure mieI 1485 erano già morti Paolo dei Marsi e Giambattista Capranica. Ci troviamo perciò nella soscrizio­ne del 1485 davanti ad una riproduzione materiale di quella del 1482, nella quale, chi la copiò, non seppe cambiare altro l’anno IV nell’anno VII: altrimenti non potrebbe stare.

Nel 1483 i pomponiani con più solennità celebrarono il natale di Roma ed a farne l’orazione  fu invitato Paolo dei  Marsi il quale recitò la sua poesia, che incomincia:

Roma genethliacam tibi nune libatur ad aram.

Egli l’aveva scritta pri ma del 1482, e l’inserì nei suoi   Comenti ai Fasti nell’edizione del 1482. In essa tesse la genealo­gia dei Cesari, che risale ad Elletra figlia di Atlante fino a Ro­molo (V. Append. V.). Infatti comentando i versi del quarto libro dei Fasti (pag. 48) miei ljlIali Ovidio dimostra l’antica e divina originee di Romolo, dice: « Explicat nune poeta romani  generis venustatem, ipsamque genealogiam a Dardano Ioviovi filio usque ad romolum ipsum; quae quidem generationis series, a mnultìs variisquc scriptoribus explicata, a i nobis ex fedelissimis

historiographis, tam graecis, quam latinis excepta, inque breve compendiolum superioribus annis natali quidam romano redacta « est. »

Il      Tiraboschi (storia della Letteratura Italiana, Modena, 1776,tomo IV, parte. prima, pag. 85) afferma che Paulus Marsus ho­rationem habuit, riferendo le parole di Iacopo da Volterra, chc dice avere l’ Accademia celebrato il natale di Roma all’Esquilino presso la casa di Pomponio Leto nella domenica. seguente, ossia il 20 aprile 1483. Lo stesso Tiraboschi (Storia sudetta, torno VI; parte lI. pag. 225-226) dice: « Parla iuoltre con lode il Girardi di Paolo da Pescina, soprannominato Marso, cui dice uomo assai erudito e di facilità ammirabile nel verseggiare e ne ac­cenna, oltre altre poesie, il Genetliaco di Roma e i Comenti sopra i Fasti di Ovidio, delle quali opere niuna a mia notizia ha veduta la luce.  Quest’ultima asserzione non è vera, e non è la prima volta che il Tiraboschi prende un equivoco (1).

   Nel tempo che corre fra il 1473 ed il 1482 fece anche Paolo

i Comenti alla Farsaglia ed alla Rettorica ad Erennio di Marco Anneeo Lucano; e durante questo periodo di tempo il suo nome comparisce con quello del Platina nella raccolta di poesie in lode del peoma De Fastis christianae religionis dell’umanista Lo­renzo Lazzarelli nato a San Severino nelle Marche. In un’altra raccolta poetica onore del sodale Alessandro Cinucci senese, morto a sedici anni, fra le poesie di varii accademici, ve ne sono due di Paolo dei Marsi, una  in lode del sudetto Cinucci ed un’altra assai lunga, ma di soggetto diverso, dedicata al giova­ne patrizio fiorentino Tommaso Tornabuoni, anche esso umanista.

    Della sua famiglia qualche notizia si raccoglie dalla prefazione al quarto libro dei Fasti (V. Append. IV.), la quale, seb­bene in prosa, ha tutta l’eleganza delle elegie ovidiane. In éssa dice che è inconsolabile per la morte di tutti i fratelli; e. sicco­me era affezionatissimo alla famiglia, piange più acerbamente, perchè vede estinta per sempre la numerosa famiglia dei Mar­si, tam numerosa Marsorum familiat, e non vi è più alcuno

   (1) Le notizie del Tiraboschi, di Iacobo da Volterra e del Girardi mi sono state gentilmente comunicate dal dottor Giuseppe Ludovico Perugi, Archivista di Stato a Roma e professore pareggiato di letteratura latina del medio evo nella università di Napoli e che pubblicamente ringrazio.

della stirpe che possa prestargli le affettuose cure nella vecchiaia. Prosieguo a dire che la ancor vivente, ma infelice, madre avea dato alla luce quattordici figli, dei quali dieci morirono nella puerizia. Degli altri quattro ne morirono tre in un quadriennio ed egli rimase solo con la madre. Il primo di essi Angelo, nato nel 1438, religioso di San Francesco mori a quarant’anni nel  1477; l’altro Antonio, nato nel 1436, morì nella guerra di Tosca­na, combattuta dal luglio 1478 al novembre 1479, tra il papa ed il re Ferdinando di Napoli da una parte, e dall’altra Lorenzo dei Medici il Magnifico, I Milanesi, i Veneziani e Luigi XI Francia. Il terzo fratello chiamato anche Angelo, costretto alla milizia, morì nel 1482 nella guerra del Lazio. Egli stesso con cura speciale lo aveva istruito e gli aveva cercata una moglie per avere nipotini che gli rallegrassero la non lontana vecchiaia. Paolo, alla morte di quest’ultimo, era assente da Roma, e probabilmente trovavasi a Venezia per fare accelerare la stampa dei suoi Comenti ovidiani; e da Pomponio Leto, che egli chiama cephalios meus, dietro reiterate ed insistenti lettere seppe la sciagura che avea colpito questo Angelo, il quale era morto sul fiore degli anni nei pressi di Frascati, ucciso da un turco, men­tre egli stesso aveva scavalcato un altro turco, riducendolo a mal punto. Questa guerra del Lazio fu combattuta dal papa collegato coi veneziani contro i ferraresi ed il re di Napoli. Le truppe na­poletane avevano invaso il territorio pontificio sotto il comando li Alfonso duca dl Calabria, che teneva nell’esercito varie cen­tinala di cavalleggeri turchi, i quali erano passati a lui nella presa d’Otranto e che sporgevano il terrore ovunque passavano. Nella strepitosa battaglia di Campomorto, ai 22 agosto 1482, rimasero vittoriosi i pontifici e quei turchi quasi tutti morirono. La suddetta prefazione al quarto libro conferma sempreppiù che non vi era alcuna parentela fra il nostro Paolo ed il filoso­fo Pietro Marso di Cese, perchè pe vi fosse stata, certamente Paolo non l’avrebbe taciuta.

Dai suoi successi letterari Paolo dei Marsi non ritrasse alcun guadagno materiale, perché dopo la morte dell’ ultimo fra­tello verso il 1482 o il 1483 rivolse una petizione in versi al papa Sisto IV. invocando aiuto per le sue condizioni finanziarie disperate, tanto più che era l’unico sostegno della decrepita ma­dre e dei piccoli nipotini. La poesia ha il titolo: Divo Sixto pon­fici maximo Paulus Marsus servulorum minimum, cum umili commendatione faelicitatem (V. Append. XIII). Non si sa se ot­tenesse qualche sussidio; però è certo che proseguì ad essere Pro­fessore della Sapienza fino al 1484, anno in cui morì.

Paolo Cortese (De hominibus doctis dialogus, Firenze, 1817, pag. 235) parlando di Andrea Brenzi da Padova, uomo molto dotto nelle lettere greche, dice: «Hunc defunctum Paulus Marsus quuni laudavisset, fuisetque in ea laudatione a moltitudine «quasi explosus, propterea quod nimia contenzione vocis pronunciasset, tantum animo accepit dolorem, ut pancis interpositis diebus, quum ad animi sollecitudinem morbus accessit, moreretur.» Andrea Brenzi morì di peste in Roma pochi giorni avanti il 13 febbraio 1484 e Paolo de’ Marsi ne recitò l’orazione funebre; ma avendo Paolo declamato con molto calore oratorio quel discorso estemporaneo esequiale e con eccessivo sforzo di voce, fu disapprovato e quasi mandato via dalla moltitudine ru­moreggiante. Il Cortese non dice altro, ma dal suddetto cenno apparisce chiaro il motivo di questa avversione popolare a Paolo dei Marsi. Gli umanisti avevano spesso inveito contro gli orato­ri sacri del loro tempo e dei due secoli precedenti, che riprodu­cevano l’eco delle querimonie medioevali e declamavano a forza di vocativi, di interrotte apostrofi e di periodi balzellanti; ma poi essi medesimi nelle laudi di qualche defunto erano caduti nello stesso difetto che avevano prima apertamente riprovato, intra­mettendovi interiezioni ed appellativi con ritornelli monotoni e con neuie funebri imitanti le antiche prefiche. Forse Paolo dei Marsi dalla veemenza del dire si fece trasportare ad esclamazioni eccessive, e la folla, incitatagli contro, probabilmente da qualche  malevolo, fece tumulto, e col chiasso e colle grida soffocò la voce dell’oratore, che dovè abbandonare l’adunanza.

Paolo non aveva mai provato i subitanei mutamenti dell’in­costante aura popolare, anzi era avvezzo a raccogliere sempre plausi, ammirazione, onori ed allori colla sua affascinante parola; a questa inaspettata ostile dimostrazione non seppe mantene­re mi anino forte e rassegnato, ma ne provò dolore sì vivo ed acerbo che sopraggiuntagli una letale malattia, morì in pochi giorni. Se il Brenzi cessò di vivere fra la fine della prima ed il principio della seconda decade del febbraio 1484, la morte di Paolo dovette avvenire entro gli ultimi otto giorni dello stesso mese.

     Dalle poche notizie sopra riferite ognuno può formarsi un giudizio sopra Paolo dei Marsi. Non ostante che con esagerata vanità, colpa principale di quei tempo, si ripromettesse fama im­mortale dalle sue opere e da se stesso si vantasse ad esuberan­za, se non fu uno dei più insigni umanisti del XV secolo, non ne fu neanche uno degli ultimi. La De aureis Augustae Perusiae saeculis per Divum Paulum Secundum restitutis, la Bembice, la De crudeli Europontinae urbis excidio, sacrosanctae religionis christia­nae lamentatio ed i Comenti ai Fasti di Ovidio sono le opere sue più importanti i contemporanei ne lodarono, come degne di molta ammirazione, la facondia, la vasta erudizione e la felice vena poetica quale improvvisatore in versi latini, ed il Sabellico lo annovera fra gli uomini illustri per dottrina fioriti sotto il pontificato di Sisto Quarto.

Dal lato storico Paolo dei Marsi ha veramente una importanza grande e speciale, perché  appartenne all’Accademia di Pomponio Leto fin dal principio, vi fu sempre fedele, anzi descrisse le diverse fasi della prima dispersione degli accademici; e dopo che l’Accademia  risorse sotto Sisto IV., ne divenne uno dei principali componenti, e con Pomponio Leto e con Publio Astreo di Perugia ne fu censore dal 1478 sino alla morte.

Pescina, di questo suo illustre cittadino che molto la onora, che si gloriava altamente di essere in essa nato, non conserva altro che una strada col suo nome dedicatagli dal Municipio a mia proposta, e la tradizione che in una casa, la cui ubicazione viene additata sotto il fortilizio entro la cinta murata della cit­tà, sia nato l’erudito letterato e poeta improvvisatore del rina­scimento Paolo dei Marsi.

 

Paolo Marso

di Vittoriano Eposito

Paolo Marso nacque a Pescina (1) nel 1440 da una famiglia molto numerosa, che certo non godeva di condizioni agiate (2). Ancora ragazzo si trasferì a Carsoli, alle dipendenze di una « montana domus, generosa propago », da individuare forse nel casato di Virgilio Orsini, che a Carsoli appunto aveva un piccolo feudo. Con la morte del patrizio romano (1457), Paolo ne perse la protezione e il poderetto avuto in dono, sicché fu costretto a lasciare Carsoli e recarsi a Roma, la meta sospirata dei giovani di talento, dove poté procurarsi una formazione culturale eccellente sotto il riguardo umanistico, anche perché ebbe a disposizione delle biblioteche ben fornite (3).

 Per un lustro o poco più, presto servizio presso la Curia Vaticana, nel collegio degli abbreviatori pontifici: fu un impiego, a dir suo, duro e non redditizio, svolto in condizioni di schiavitù (4). In questo primo soggiorno romano egli conobbe senza dubbio Pomponio Leto, Antonio Volsco e altri umanisti, con i quali collaborò alla costituzione della famosa Accademia. Probabilmente nel 1463 lasciò Roma e si recò a Perugia, dove fu ben accolto da Mons. Giovambattista Savelli, protonotario apostolico e poi governatore della città dal 1466 al 1468 (5). Li scrisse un poemetto in esametri dal titolo: « De aureis Augustae Perusiae saeculis, per divum Paulum Secundum restitutis libri tres » (6), corredato di una dedica in distici allo stesso papa Paolo II, al quale il poeta attribuisce i meriti della prosperità che attraversa Perugia.

Nell’Università perugina egli ebbe ad insegnare Grammatica, Lingua greca e Poesia (7), nella stessa cattedra che fu del Varano, del Cantalicio, del Volsco e del Verulano. Ai primi del ’68, forse caduto in disgrazia del vescovo a causa d’una sua relazione amorosa da cui aveva ottenuto un figlio illegittimo, o piuttosto per qualcuno di quegli scherzi così gravi e frequenti negli ambienti universitari di quel tempo (ma, ahimé, anche del nostro!), Paolo dovette lasciare Perugia e passò a Venezia, dove fu senz’altro felice di ritrovare Pomponio Leto (8) e, più ancora, di godere della protezione di Bernardo Bembo, esperto diplomatico di quella repubblica, munifico mecenate, oratore facondo, padre del Cardinale e poeta petrarchista Pietro Bembo. A Venezia, con l’aiuto del Bembo e del Leto, aprì uno Studio letterario che divenne ben presto assai fiorente.

 Tra la fine del ’67, e il principio del 68, progettò di recarsi in oriente con l’amico e maestro Pomponio e, nell’imminenza del viaggio, scrisse in distici elegiaci una « Epistola ad amicos omnes Perusiam Augustam incolentes », per salutare gli amici e i protettori lasciati a Perugia. Ma il viaggio per il momento non fu compiuto, non solo perché Pomponio nel febbraio o marzo dello stesso anno fu arrestato per ordine di Paolo II e condotto a Roma sotto l’accusa di complicità in una presunta congiura politica ordita dai membri dell’Accademia romana, ma anche perché il Bembo lo volle con sé, unitamente al poeta satirico Antonio Vinciguerra, in una ambasceria nel regno di Castiglia, la quale duro sei mesi (circa metà agosto 1468 – 24 febbraio 1469). Il nostro poeta ci ha lasciato un documento di notevole importanza su questa sua avventura in terra spagnola: una raccolta di 21 poesie in metro elegiaco, intitolata « Bembice » dal nome del suo protettore.

 Tornato a Venezia, ebbe subito l’occasione di partirsene nuovamente al seguito di un altro suo mecenate, Nicolò Canal, senatore e ambasciatore della Serenissima, eletto da poco comandante della flotta veneziana in Oriente con il compito preciso di intraprendere una guerra risolutiva contro i Turchi. La spedizione ebbe degli episodi gloriosi, in un primo momento, che il Marso rievoca in una epistola poetica rivolta « ad Joannem Canalem Nicolai Doctoris filium », ma si concluse tristemente con la strage di Negroponte, oggetto di un bel poemetto del Nostro, che s’intitola appunto: « De crudeli Europontinae Urbis excidio – Sacrosanctae religionis Christianae lamentatio ».

Rientrati a Venezia, il Canal fu relegato a vita a Porto Gruaro come responsabile della disfatta subita da parte dei Turchi, e Paolo Marso dovette trovarsi un altro protettore, che fu Marco Cornaro, uomo assai ricco e liberale, senatore della Repubblica (9). Durante questo nuovo soggiorno véneziano il Nostro conobbe E. Barbaro, F. Nursi, G. Bologni e altri umanisti più o meno ragguardevoli.

 Non sappiamo se componesse poesie e se continuasse gli studi ovidiani, iniziati a Roma e condotti un po’ saltuariamente. Intanto, salito sul soglio pontificio Sisto IV (agosto 1471), l’umanesimo comincio a rifiorire lentamente. Forse attratto dalla liberalità del nuovo papa, ai primi del 1473 Paolo Marso decideva di tornare in Roma, per riprendere « ea studia quae tam longo tempore intermiserat » (10) ; poté, cosi, dedicarsi con più serenità al suo commento ai « Fasti » di Ovidio, che aveva avviato già prima del ’63. Il lavoro, portato a termine nel ’74, fu corredato di un’ampia lettera dedicatoria al Cornaro, a ricordo della sua amicizia e protezione, e nel ’79 vi fu aggiunta una « Ratio astrologiae », una sorta di introduzione al mondo astronomico dell’opera ovidiana. Dopo il ’79, il Marso dovette dedicarsi al commento della « Pharsalia » e della « Rethorica ad Erennium », di cui fa cenno nella stessa lettera di dedica al Cornaro, senza trascurare l’attività poetica: collaborà, infatti, col Platina in una raccolta di versi scritti per esaltare il poema « De fastis Christianae religionis » del sodale Lodovico Lazzarelli, e con altri poeti del sodalizio pomponiano nella compilazione di un’antologia, andata poi perduta, in onore di un adolescente senese spentosi all’età di 16 anni (11). In questo periodo Paolo Marso dovette occupare un posto di grande rilievo nella ricostituita Accademia romana.

Per l’esattezza bisogna dire che, riconosciuta questa ufficialmente dal papa come « Religiosa litteraria sodalitas Viminalis et universa Accademia latina » e addirittura consacrata a S. Vittore e S. Fortunato, Paolo Marso ne fu nominato censore con lo stesso Pomponio Leto e con Publio Astreo. Circondato da tanta stima, fu chiamato anche alla cattedra di Retorica nella « Sapienza » e nel primo anno d’insegnamento (1480-81) tenne un corso sui « Carmina » di Orazio e sui « Tristia » di Ovidio, nel secondo (1481-82) un corso sui « Fasti », « magna cura ac vigilantia audi Torumque fiorentia >> (12) . In tale occasione preparò la relazione definitiva del suo commento ai “Fasti”, la stessa che poco dopo fece pubblicare a Giorgio Cornaro, figlio del suo ex protettore.

 Nell’estate dell’82 andò a Venezia appunto per seguire da vicino la stampa del suo lavoro; e sembra che, durante il viaggio, giunto a Firenze, volesse far visita al Magnifico e al Poliziano, ma « gli furono chiuse le porte della città in faccia, perché proveniente da Roma, dove correva voce che ci fosse la moria » (13). Mentre era in attesa che riaprissero le porte, scrisse una epistola poetica al Poliziano « ipsa manu praecipiti et calamo volanti », affinché intercedesse per il suo ingresso in città (14). Si ignora se il permesso fosse poi dato.

 Ripreso il viaggio, giunse a Venezia quando la stampa della sua opera era già a buon punto; ma vi si trattenne poco, poiché alla data della pubblicazione (24 dic. 1482) egli era tornato già a Roma. Qui sembra che venisse a trovarsi ben presto in una situazione economica assai disagiata, se è vero che è di questo periodo la sua lunga epistola intitolata « Divo Sixto pontifici maximo Paulus Marsus, servulorum minimus, cum humili commendatione foelicitatem », intesa ad ottenere un qualche soccorso. Ma ormai poche altre vicende di un qualche rilievo lo attendevano: la riconferma nella cattedra di Retorica alla « Sapienza », una nuova edizione del commento ai « Fasti » (Milano, giugno 1483) e la preparazione di un’altra edizione a Venezia (agosto 1485), che egli non potè vedere perché nel corso dell’anno 1484, forse verso la fine di febbraio, lo colse la morte, all’età di soli 44 anni circa.

  NOTE

 1) La fonte principale di questi cenni bio-bibliografici è la vecchia ed unica monografia che si conosca intorno al nostro poeta umanista, pubblicata da Arnaldo Della Torre (« Paolo Marsi da Pescina – Contributo alla storia dell’Accademia Pomponiana », Rocca S. Casciano, Cappelli Editore, 1903). Dobbiamo aggiungere, tuttavia, che talvolta ce ne siamo allontanati, o dando in forma dubitativa quel che li si dà per certo e certo non è, oppure rettificando secondo il nostro modesto giudizio. A proposito del nome, ad esempio, noi crediamo che la forma esatta sia Paolo Marso e non Marsi, anche se, stando alle prove che adduce il Della Torre, può concedersi che Marso sia un vero e proprio cognome di Paolo, a differenza di altri illustri conterranei che usarono « Marso » come soprannome in quanto originari della Marsica (è il caso di Pietro Marso, Antonio Marso e di altri). Per quanto riguarda, poi, il paese natio del

 

Nostro, è ovvio che sono in errore il Toppi, il Febonio e il Corsignani a dirlo di Cese, quando un suo amico intimo, il Sabellico, parlando di lui, cosi si esprime: « Paulus Piscinensis cognomento Marsus » (cfr. « Opera M. Antonii Sabellici », p. 114, Venezia, 1502) distinguendolo nettamente da « Petrus Marsus Cesensis », e quando molti altri documenti recano solo e sempre il nome di Pescina. Per le stesse ragioni è da respingere anche la tesi recentissima di Vinicio D’Alessandro, che vuole Paolo Marso nativo di Collarmele (cfr. « Regione Abruzzese », n. agosto 1966).

2) Cfr. « Praefatio in quartum librum Fastorum cum deploratione orbitatis morte fratrum Paulus Marsus Piscinas poeta clarissimo Georgio Cornelio Marci Cornelii Equitis filio Salutem ».

3) Cfr. Lettera dedicatoria a Giorgio Cornaro premessa al suo Commento ai « Fasti » ovidiani.

4) Cfr. « Bembice », XII.

5) Cfr. « Bembice », I.

6) Pubblicato da G. Battista Vermiglioli in « Memorie di Jacopo Antiquario », Perugia 1813, pp. 344-372.

7) Cfr. Vincenzo Balzano, « Legisti e artisti abruzzesi lettori nelle celebri Università d’Italia », Roma, 1964.

8) Pomponio Leto era passato a Venezia già dall’estate del ’67, per sfuggire alla polizia pontificia che ricercava gli Accademici accusati di congiura contro il papa (è la tesi dell’Uzielli e del Carini) oppure, come sembra più vero, – dato che l’arresto degli Accademici avvenne più tardi, nel febbraio del ’68 – per imbarcarsi di li verso l’Oriente, allo scopo di apprendere il greco e l’arabo e arricchire così la propria cultura.

9) E’ da notare che B. Bembo nel luglio del ’71 si recò come ambasciatore nella Borgogna, dove rimase fino all’estate del ‘74

10) Cfr. Dedica a G. Cornaro, cit.

11) Cfr. A. Della Torre, op. cit., pp. 230-31; Federico Patetta, « Di una raccolta di componimenti e di una Medaglia in memoria di Alessandro Cinuzzi Senese, paggio del conte Girolamo Riario » (in «Bollettino senese di storia patria », a. VI, 1899, pp. 153, 170, 175).

12) Cfr, Dedica al Corsaro, cit.

13) Cfr. A. Della Torre.

14) E’ da ricordare che Isidoro Del Lungo attribuì questa epistola a Pietro Marso, Senza però addurre ragioni di sorta.

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