Paolo dei Marsi di Pescina - 1440
Il poeta improvvisatore della rinascenza
Verso la fine dell’estate nell'
anno 144O nacque a Pescina Paolo dei Marsi, poeta improvvisatore della
seconda metà del secolo delta rinascenza degli stadi classici in Italia,
appellato comunemente Paolo Marso, che nell’ancor giovine età di quaranta
quattro anni morì povero a Roma.
Nei suoi Comenti ai Fasti di
Publio Ovidio Nasone (Vedi
Appendice 1’ e segg.), Paolo dice chiaramente che la sua patria è Pescina, o
lo ripete più volte. Tutte lke notizie che si hanno di lui ce lo indicano in
questa forma:
Paulus Marsus piscinas o
piscinensis, cognomento Marsus, o qui Marsus cognominaius est; ed egli
stesso nei medesimi Comenti (1) si appella Paulus Marsus piscinas poeta
clarus rt rethor. A prima vista pare che Marsus
sia un pseudonimo o soprannome, che Paolo aggiungeva al nome a memoria
della regione d’origine alla maniera degli umanisti del suo secolo; ma non lo
è. I professanti l’umanesimo del secolo XV avevano per legame esteriore il
nome latinizzato, che era il segno visibile del loro entusiasmo per l’antichità.
I nomi tramutati, o erano semplicemente trascritti dall’italiano al latino,
come da Paolini in Paulinus, da Rossi a Ruffus, da Orsi in Ursus, o erano
tradotti dall’italiano al latino, come Platina in Calvus, Mazzotosti in
Ambustus, Ognibene in Pantagathus; o erano soprannomi alludenti a qualche
particolarità
__________
(2)
N.B. Nel citare i Comenti seguo sempre la seconda edizione di Venezia del
1485.
fisica,
come Bonaccorsi appellato Caeculus, Pomponio Leto soprannominato anche Balbus; o
erano soprannomi alludenti alla patria, come Antonio Volsco, Volscus, Pietro
Marso, Marsus. nel nostro Paolo dei Marsi però non è il Marsus un
soprannome a memoria della terra natale, sebbene egli fosse della regione
marsa; ma è un vero e proprio cognome. Io lo chiamo Paolo dei Marsi; e la
ragione è chiara perché debba chiamarsi così.
Nella prefazione al quarto libro dei Fasti (V. Appendice Iva) Paolo parla
del suo casato e lo chiama numerosa Marsorum famiglia,
la numerosa famiglia dei Marsi; e quindi esisteva a Pescina la
famiglia col cognome dei Marsi; e perciò quel Marsus non era il
soprannome, ma il cognome vero. Arnaldo della Torre, nel suo lavoro Paolo
Marsi da Pescina (Rocca San Casciano;
1903), sebbene sia di questo parere, pure a Paolo dà il cognome Marsi e non dei
Marsi, e non ne comprendo la
ragione; giacché egli stesso dice che la famiglia aveva il cognome Marsorum, dei
Marsi.
L’epoca precisa della nascita di Paolo ci viene indicata dall’ottava elegia del suo poemetto Bembice, del quale in appresso si parlerà, ove dice che allora stava per compiere i ventotto anni di età e che ha cantato sempre pudicamente e castamente.
Iam mihi bisdenis_super octo cadentibus
annis
«Usque habuit castos nostra
Thalia modos.»
Siccome questa elegia fu scritta fra il 16 ed il 27 agosto dell'anno 1468
(I); così togliendo dal 1468 i 28 anni che stava per compiere, si ha l' anno
1440, in cui Paolo nacque a Pescina verso la fine dell'estate.
Lo storico Muzio Febonio (Historia Marsorumi, Napoli, 1678, lib. 3
Cap. 1,) sostenendo che Paolo Marso
e Pietro Marso fossero fratelli e nativi ambedue di Cese, asserisce che Paolo
per ambizione si fa nativo di Pescina. Pietrantonio Corsignani ( De viris
Il
popolo marso non interruppe mai le relazioni che ebbe sempre con Roma,
sia per la facilità di accedere ad essa, sia per la vicinanza, sia per la
comodità della via Valeria e sia perché le potenti famiglie romane dei Colonna
e degli Orsini possederono molte castella nella Marsica. Nel tempo antico i
Marsi esercitarono e seguitarono miei tempi di mezzo ad esercitare il commercio
dei prodotti del proprio suolo nell’agro romano; ed i lavoratori della terra
ogni anno dal dicembre al marzo ed in maggio ed in ottobre vi si recavano, e vi
si recano tuttora, per la coltivazione e pel ricolto dei campi. Per questa.
vicinanza le famglie benestanti mandavano a Roma i figliuoli per farli perfezionare
negli studi. In patria, oltre a leggere e scrivere, imparavano il trivio ed
il quatrivio (1); ed, avuto riguardo ai tempi, pare che l’istruzione
fosse sufficiente; anzi nei centri principali
(1)
Il trivio consisteva nelle nozioni della grammatica, della rettorica e
della dialettica; ed il quatrivio in quelle dell’aritmetica-,della geometria,
dell’astronomia e della musica.
Paolo
fu dai suoi primi anni trovò un protettore che lo volle presso di sé
a Carsoli. ove rimase fino all’anno 1457; ma morto il suo protettore e
privato dei campicelli avuti in dono di ogni suo avere, dovè allontanarsi da
quel paese, perché non poteva mantenervisi, nè vi poteva vivere.
Comentando i versi dei IV libro dei Fasti, in cui Ovidio, parlando di Carsoli.
(dice:
«
Terra, sed ad segetes ingeniosns ager, »
Paolo aggiunge i seguenti suoi versi:
«
Carseolana mihi teneros dilecta per annos -
«
Lux erat, et iuris debuit esse mei.
«
Sed fortuna mihi partos invidit agellos
«
Diviciasque omnis sustulit ilIa meas;
«
Nani periit montana. domus. generosa propago.
«
Cui fata atque homines dique fuere truces:
«
Impiaque in miserum fortuna
redundat allumnum,
« Nulla sit ut merito gratia parta mea.
In essi accenna alla morte di una montana domus e di una generosa
propago, di cui egli era un cliente, un protetto, un alumnus, e dalla
quale avea ricevuto in regalo i campicelli e gli averi. Pare che il generoso
protettore dì Paolo fosse stato Virgilio
Firenze, 1776, col. 457.
Nel
1457, all’età di diciassette anni Paolo partì da Carsoli e si recò in Roma:
ove si istruì e seguitò ad avere probabilmente aiuti dalla famiglia Orsini.
Lo spirito dei tempi concorse a fare cli Paolo un distinto professore di umane
lettere ed un buon poeta estemporaneo. Si trovò all’epoca che, già dalla
fine del secolo XIV, erano in Roma rinati i buoni studi ed era nel suo pieno
sviluppo l’amore per le lettere latine e greche; ed egli, di ingegno svegliato
ed ardentemente cupido di apprendere, non tardò ad acquistarsi l’amore degli
studiosi (1).
Era
venuto a Roma verso 1448 Giulio, appellato comune-niente Calabro (2),- giovine
nobilissimo per lignaggio e per sapere, figlio naturale (li Giovanni
Sanseverino conte di Marsico, nato a Diano ora Teggiano nel principato
citeriore, nell’anno 1428. Educato accuratamente in patria, partì
all’improvviso da essa, essendo ancor giovinetto, e visitò la Calabria e la
Sicilia.
(2)
Il Sabellico, nella vita di Pornponio Leto, lo dice calabrese. ma non lo era,
buono o cattivo il tempo, colla lanterna in mano quando
non splendeva la luna. andava a far scuola nell’ Esquilino uscendo dalla casa.
che era lì vicino; ed ivi ad un’affollata moltitudine di studenti con romana
gravità ma con affettuosa espansione, spiegava. gli autori greci e latini; e
vi accorrevano dotti, artisti. soldati, adolescenti, donne, artigiani, non
solo italiani, ma. benanche stranieri; ed era tanto ammirato che la folla
cominciava ad invadere l’aula della scuola dalla mezzanotte. Il suo dire
dalla cattedra era chiaro ed elegante, la venustà
dello stile e l’ impeto della locuzione attraente, soave e canora,
accompagnati dalla fiamma degli occhi, rendevano quasi più vasta la sua
erudizione; ed
Alla
rinascenza dei buoni studi gli ecclesiastici, che pel passato avevano raccolti
nei chiostri e nelle chiese i codici sparsi specialmente religiosi, furono tra i
più entusiasti nella riunione dei codici dell’arte classica, anche perché i
papi Nicolò V° e Pio II con diligenza e passione avevano riunito quanto di bello
e di antico avevano potuto rintracciare ed erano stati protettori dei letterati.
Il continuo crescente ardore dei dotti pel culto degli antichi si risvegliò
nelle città d’Italia, e ben presto a Roma, a Firenze, a Napoli, a Venezia,
si fondarono le accademie. Ad esempio del maestro molti pomponiani
cambiarono i loro nomi, desumendo i nuovi dai nomi greci e romani; ed il
Platina, nella vita Paolo II°, dice che Pomponio per amore dell’antichità
faceva prendere agli adolescenti quei nomi, affinché la gioventù avesse uno
sprone di emulazione per seguirne le virtù. Anche nella forma letteraria
facevano prevalere lo spirito pagano, ed appellavano Pomponio Leto pontifex
maximus più influenti del sodalizio sacerdotes achademiae romanae e
i sodali di alto sapere patres Sanctissimi. Celebravano solennemente ai
20 aprile il natale di Roma, ed ai 7 novembre la festa anniversitaria della
nascita ad un tempo e della morte di Platone.
(1)
Non è mio compito di parlare estesamente degli Umanisti; solo ne dirò
quel poco sufficiente a far conoscere in quali tempi visse e in quale ambiente
si trovò Paolo dei Marsi.
Sul
colle Quirinale Pomponio ebbe una. casa a due piani con orti ameni e con un
delizioso laureto adiacente, legatogli da Bartolomeo Platina mentre moriva di
peste. a Roma nel 1481, affinché in avvenire nel laureto si coronassero i poeti
ed i filosofi da ammettersi quel congresso
di dottori, che fossero giudicati degni di laurea (1).
Intanto
cou indefesso ardore si seguitarono a scoprire nei vecchi Conventi i codici, e
da per tutto si copiavano iscrizioni, si dissotteravano statue, si
raccoglievano frammenti, medaglie e monete, si compravano a caro prezzo i classici scoperti e si
copiavano. Si navigava nel Mediterraneo, si andava in Oriente, si visitavano
Atene e la Grecia e Costantinopoli, si viaggiava in Germania, in Inghilterra,
in Ispagna. Pomponio Leto negli Archivi vaticani ritrovò le due epistole De
ordinanda Republica, che furono da lui attribuite a Sallustio (2); e la
smania di rinvenire i tesori intellettuali
della prisca età fece frugare i pomponiani nei monasteri, nelle
chiese, nei palagi e perfino nei sepolcri (3). Il trovarsi spesso g1i studiosi
fra i mucchi di ruderi
(2)
V. Bollettino di storia patria Anton Ludouico Antinori, Aquila, 15
luglio 1897.
Puntata 18^.
(3)
L’Armellini nelle L’azioni di Archeologia cristiana edite a
Roma, a pag. 122, dice: « Nel cimitero di Callisto, ossia nelle
gallerie adiacenti, vi è la memoria di Pomponio Leto e compagni letterati del
1475, i quali vi lasciarono i nomi.
Vi furono condotti da curiosità letteraria e i da alcune frasi si scorgono
cervelli paganeggianti. Anzi vi
Scrissero la data coll’anno, giorno e mese che vi scesero XV Kal. Feb. 1475
ossia il 18 gennaio 1475. Ed a pag. 146 Io stesso Armellini, parlando del
cimitero
Ai
principii del 1468 furono rinnovate le delazioni che si congiurava contro il
papa, che anzi i seguaci di Pomponio avessero relazioni coi principi nemici
della Santa Sede e che i principali congiurati fossero Callimaco, Pomponio e
Platina. Callimaco che era realmcnte il capo de’ congiurati, avuto sentore
della burrasca, fuggì in Polonia, da dove tornò dopo venti anni a Roma; ma
Platina fu tra i primi arrestati, e poi Pietro Marso ed altri. Pomponio (1),
uomo semplice, ma libero, nulla sapeva della congiura e da circa un anno
trovavasi a Venezia. Colà venne catturato. assenziente quella Signoria,
ricondotto a Roma e rinchiuso cogli altri in Castel Sant’Angelo nel marzo di
quell’anno (2). Nelle accuse vi era qualche cosa di vero, giacché molti
cimitero
di Pretestato, asserisce: « In questo cimitero discese pure Pomponio Leto.
»
Antonietta i Klitsche De La Grauge nel suo Pomponio Leto riporta
l’iscrizione seguente scoperta dal De Rossi nel Cimitero di Callisto:
Pomponius
Pont. Mar. — Mani1ius -
Ro. Pantagathus sacerdos achademiae rom. Questo Pantagato è un vero e
proprio sacerdote, perché è il soprannome che ebbe nell’Accademia Giovan
Rattista Capranica, che nel 1478 fu fatto Vescovo di Fermo
(1)
Circa le accuse a carico di lui vedi La difesa di Pomponio Leto di
Isidoro Carini. Bergamo, 1894.
(2)
Interrogato Pomponio perché mutasse i nomi ai giovani, rispose:
che
v’importa, s’e mi voglio chiamare finocchio, se Io fo Senza inganni
e senza frode? Anche
ora esiste presso - Roma fuori Porta Maggiore per la via Consilina, sopra al
culmine di un monticello l’Osteria del Finocchio, nome impostovi dai
satirici romani
L’accademia,
dispersa da quella bufera, decadde allora, ma si ricostituì sotto Sisto IV°
ed Innocenzo VIII°; e Pomponio nel 1469 dallo stesso Paolo II° ebbe una
cattedra. all’Università della Sapienza.
In Roma il nostro Paolo dei Marsi frequentò le lezioni di Pomponio Leto, dal quale fu amato in modo speciale (1), appartenne fin dai primi tempi all’Accademia romana, e verso l’età di venti anni incominciò i Comenti ai Fasti di Ovidio; anzi egli stesso dice che stava per pubblicarli fin da allora assieme al suo più caro amico Autonio Volsco, ossia Auutonio Costanzi da Piperno, ma poi tutto fu sospeso perchè partì da Roma. Nel medesimo tempo che era assiduo discepolo di Pomponio entrò nel collegio degli abbreviatori pontifici (2). Però il servizio che prestava nella curia magna, la vaticana, insieme a moltissimi altri umanisti, da lui chiamati fratres, era molto duro con un lavoro improbo di giorno ed anche di notte, e la retribuzione era esigua,
(2) La maggior parte delle notizie sulla vita di Paolo dei Marsi,
ad eccezione di quelle desunte dalle sue opere e di quelle di cui man mano citerò
le fonti speciali, le ho attinte dall’erudita opera di Arnaldo della
Torre: Paolo Marsi da Pescina. Rocca S. Casciano. Edit. Licinio Cappelli,
1903.
specialmente quando a capo di quel collegio fu posto il cardinale Bartolomeo
Roverella.
Avuto
Paolo la profferta di un altro impiego fuori di Roma, e più rimunerativo, verso
il settembre del 1463 lasciò Roma, ma non si sa dove andasse. E’ certo che al
principio de] 1466 trovavasi a Perugia ed ivi stava come cliente della casa
Savelli, e vi rimase fino a che vi fu per governatore Monsignor Giovanni
Battista Savelli, ossia dal principio dcl 1466 sino ai principii del 1468.
In
Perugia, scrisse il poemetto in esametri intitolato: De aureis Augustae
Perusiae saeculis per divum Paulum Secundum restitutis. libri tres (1).
Comincia in esso col descrivere l’ arrivo in Perugia del governatore Savelli,
prosiegue col lodare tuttociò che aveva fatto di bene a Perugia il papa Paolo
II°, e conchiude con un inno di lode al medesimo papa..
Allo
studio di Perugia il dei Marsi fu professore probabilmente di lettere latine.
Da una elegia inviata da Venezia agli amici di Perugia col titolo: Pauli
Marsi epistola ad amicos omnes Perusiam Auyustam incolentes (2) si rileva
quali erano i suoi amici in questa ultima città. Vi comprende fra i molti, un
Tespio Umbro, suo diletto discepolo, Giovanni Rosa da Terracina, che poi fu
governatore di Perugia nel 1486, Stefano Guarnieri da Osimo, primo cancelliere
della stessa. città nel 1466, il famoso Jacopo Antiquario, Francesco e Fabrizio
Baglioni, due figliuoli lei celebre giureconsulto Tindaro Alfani, il poeta
Angelo Decembrio Calcondicola, professore. a Perugia di lingua greca. Dalla
medesima elegia velatamente traspare che Paolo dei Marsi aveva lasciato a
Perugia un altro prediletto discepolo, che egli chiama suo figliuolo, dulcem
filiolum, spem et dimidium animae meae, ma non gli era figlio, perché è
certo che non ebbe mai moglie, come chiaro apparisce dalla citata prefazione al
quarto libro dei Fasti.
(2) Lo stesso
Vermiglioli nell’opera citata, pag. 835-341.
Durante
il suo soggiorno a Perugia, se non fu negli anni posteriori, Paolo dei Marsi andò
a Modena a studiarne le antichtà, come appare dai seguenti versi di
Bartolomeo Prignani (De Imper. Cupid.
lib. IV.)
«
Interea aspicio vatem cognomine Marsum.
»
lnter mortales qui modo clarus erat.
« Venerat et Mutinam, priscae quo signa ruinae
«
Cerneret et veterum grammata Pvramidum ».
La
Serenissima repubblica di Venezia in quel tempo diede a Bernardo Bembo
l’incarico di andare in Ispagna con uu’ambascerja, al re di Castiglia.
Bernardo volle con sè Paolo dei Marsi e l’altro poeta umanista Antonio
Vinciguerra, che Paolo appella splendor amicitiae.
Partirono da Venezia verso il 15 agosto 1468, in un giorno furono a
Pola, e dopo nove giorni di mare burrascoso si trovarono nel mar Ionio in
vista di Siracusa. I due poeti chiesero il permesso di visitare i monumenti 1i
quella città ed il foro Tinacrio, ma le autorità siracusane negarono il
permesso e Paolo elegia impreca loro ogni male. Costeggiando la Sicilia dal
Capo Passero si diressero alla fertile isola di Malta, che in quell’anno però
era sterile per la siccità prolungata. Lasciate indietro le Sirti ed Utica
videro da lungi spuntare fuori delle sabbie del deserto le dirute mura di
Cartagine e passarono vicino ad Ippona nella Numidia. Finalmente per lo stretto
di Gibilterra entrarono nell’ Oceano Atlantico e sbarcarono a Cadice bene
accolti dalla popolazione. Da Cadice si diressero verso la ubertosa Castiglia,
ed in breve giunsero alla bella città di Siviglia. Con entusiastica ammirazione
nella Bembice ne descrive lasplendida reggia del sole, il palazzo dell’
Alcazar, i monumenti moreschi e le altre meraviglie.
Mentre
Bernardo Bembo conduceva a buon porto la sua ambasceria ed otteneva dal re di
Castiglia ciò che la repubblica veneta desiderava, il dei Marsi si mise in
relazione erotica con Beatrice, trilustre vergine castigliana, figlia
unica del vedovo medico del paese. Ad essa è intitolata la XX poesia
della Bembice: De Beatrice ninpha hispalica; ma dopo pochi mesi dové
abbandonarla. Compiuta l’ambasceria, il Bembo col seguito ripartì per via
di terra e tornò a Venezia il 24 febbraio 1469. Paolo riordinò le
poesie, che avea composte durante il viaggio, le intitolò Bembice a
ricordo ed in onore di Bernardo Bembo e gliele presentò il 1. marzo 1469.
Paolo non aveva dismesso il
pensiero di visitarel’Oriente e gli si presentò propizia l’occasione. Nicolò
Canal dottore e senatore veneto, insigne per coltura e per ambascerie ben
riuscite, abbandonata la carriera diplomatica, aveva intrapresa la militare, e
nel gennaio 1469 veniva eletto ammiraglio della flotta veneta nell’ Oriente
contro il Turco. Paolo, appena tornato dalla Spagna, presentato dal suo mecenate
e dagli amici al Canal, dallo stesso fu invitato a seguirlo come cantore delle
sue gesta. L’ammiraglio salpò da Venezia con venti triremi, e giunto nell’Oriente,
saccheggiò alcune borgate del golfo di Salonicco. Rafforzata l’armata con
altre sei triremi, fece vela per Lemuo e per Imbro, e poscia verso la città di
Enos nclla Tracia, alla foce dell’Ebro, oggi Marizza. Giunto sull’albeggiare
del 17 luglio 1469 davanti la città, l’assalì all’improvviso, la prese
senza resistenza, la incendio e la saccheggiò spietatamente. Quindi si volse
verso la Lidia e prese e saccheggiò Foggia Nuova; però da Foggia Vecchia fu
respinto con energia, con gravi perdite e con sua. vergogna. Nel golfo di
Corinto fortificò Vostizza sulla costa settentrionale del Peloponneso, poco distante da
Patrasso, sebbene vi si fossero opposti inutilmente i Turchi, coi quali venne
alle mani Paolo dei Marsi che si trovava nella nave ammiraglia della flotta
veneta, dava notizia di tutte queste vittoriose imprese, in una entusiastica
elegia (lei 30 luglio 1469, a Giovanni Canal, figlio di Nicolò, che
trovavasi in Inghilterra ambasciatore del senato veneto (V. Appenid. X). Ma
all’improvviso la fortuna si volse contraria al Canal. Negroponte, Euboea, città
fortissima e in posizione strategica, punto di comunicazione fra la Grecia e
l’Asia Minore, presidiata dalle flotte e dalle milizie venete, cadde nelle
mani dei Turchi, fu arsa e saccheggiata barbaramente, e gli abitanti con ferocia
inaudita, furono vari modi uccisi, impalati, squartati, lapidati, secati,
scuoiati. Su1la strage d] Negroponte il dei Marsi fece una lunga elegia, che
dedicò a Paolo II° , intitolata: De crudeli Europontinae urbis excidio,
sacrosanctae religionis christianae lamentatio (V. Appenind. XII). Nicolò
Canal, col quale Paolo de’ Marsi tornò a Venezia, fu processato e condannato
alla relegazione perpetua a Porto Gruaro, ed il poeta rimase abbandonato.
La lamentatio
ebbe ammirazione e diffusione a Venezia, e il dei Marsi in breve trovò un
altro protettore in Marco Coruer (1), uno dei più cospicui e ricchi patrizi
veneti, che gli affidò l’educazione del figlio Giorgio. Aveva passata la
giovinezza Marco navigando ed accrescendo le sue immense ricchezze colla mercatura,
che esercitò più di tutto in Cipro,
ove si acquistò la fiducia di, quel re, che lo fece cavaliere e suo intimo
consigliere. A Venezia fu senatore, ebbe le più alte cariche e si mostrò assai
liberale delle sue ricchezze a pro della patria. Quando il dei Marsi tornò
dall’Oriente a Venezia, Marco aveva, iniziate per mezzo del fratello Andrea,
residente in Cipro e onnipotente a quella corte, le trattative per dare la
propria figlia Caterina in sposa à Giacomo, re di Cipro.
Paolo dei Marsi,
mentre soggiornava a Venezia, strinse pure
amicizia
con Ermolao Barbaro, con Francesco Nursi e con Giacomo Bologni, ed ivi rimase
come percettore di Giorgio Corner sino ai principii dell’ anno 1473,
tornandosene poi a Roma dopo l’assenza di dieci anni. Di questo nuovo
soggiorno del dei Marsi a Venezia dal 1469 al 1473 non si hanno notizie; eppure
in quel tempo successero colà avvenimenti gloriosi per la famiglia Corner, che
dovettero ispirare al poeta entusiastici versi. Il 14 luglio 1472 arrivarono a
Venezia gli ambasciatori di Cipro, che vennero a prendere Caterina Corner
promessa sposa del loro re; costei in questa fausta ricorrenza ebbe il grande
onore di essere adottata per propria figlia dalla Serenissima repubblica,
la quale si dichiarò erede di Caterina, qualora questa non avesse procreato
figli; e la partenza di questa figlia di San Marco fu celebrata con feste
oltremodo sontuose. Eppure nulla sappiamo delle poesie che Paolo improvvisò
in quella circostanza.
Quando
Paolo dei Marsi tornò a Roma, era morto il papa Paolo II, ed il successore
Sisto IV era favorevole agli studi dell’umanesimo, che già erano rifioriti.
Gli accademici furono lieti di riaverlo fra loro, lo festeggiarono e lo posero
con Pomponio Leto e P. Astreo alla direzione del sodalizio, e Paolo ne divenne
uno dei membri piìi importanti. È probabile, ma noti può asserirsi con
certezza, che dopo il ritorno a Roma, se non fu prima, gli fosse stata posta sul
capo la corona d’alloro da Pomponio Leto nel suo laureto, acclamante tutta
l’Accademia.
L’Accademia
nel 1478 si ricostituì su basi durature e con indirizzo religioso, e Paolo dei
Marsi seguitò ad esserne un sodale principale, e ne fu anzi uno dei capi con
l’ufficio censore. In verità per la vasta erudizione, per la venustà, per
lo splendore, per l’eleganza dello stile latino puro e fiorito, per la
facoudia abbondante della locuzione, per la fecondità della inesauribile vena
improvvisatrice e per l’amicizia del fiore dei letterati del suo tempo, fu
molto stimato dai coetanei anche perché nel conversare mostrava un animo
sincero, aperto e lieto e molta affabilità nei modi. Ed i suoi amici poeti
fecero a gara nel lodarlo. Il giureconsulto Roberto Orsi di Rimini lo encomia
con un epigramma laudativo (V. Append. IX ); Ermolao Barbaro in una poesia
epigrammatica ne loda l’abbondante vena poetica e gli domanda: che cosa sarà
capace di fare ora che è tornato nel paese dove regna la pace, se gli è
riuscito tanto facile di poetare fra lo strepito delle armi e le acque
ondeggianti del mare? Callimaco in una saffica ad Marsum, all’ amico
cantore della presa di Negroponte, e Girolamo Bologni da Treviso allorché
Paolo ancora aveva la dimora a Venezia, in un carme elegiaco, diretto
all’amico Paulo Marso poetae illustri, elogia il Comento ai Fasti,
pcl quale Ovidio, che egli chiama l’antico poeta marso, risorge a vita
novella, e fa lusinghiera allusione al poemetto sulla distruzione di Negroponte.
Paolo risentì l’influenza. dei suoi tempi e non deve recare meraviglia se la
cupidigia della gloria e dell’immortalità traspare dai suoi Comenti conte
traspare ugualmente dagli scritti di tutti quei fecondi letterati del
rinascimento, nei quali la gloria è passione, anzi è delirio. Questo
febbrile amore della gloria veniva eccitato da varie e potenti cause, che,
forse, li potrebbero scusare in parte dalla taccia di vanitosi. L’Italia
d’allora li apprezzava molto e con tutti gli eccessi di una ammirazione
sincera e profonda. Sono indescrivibili gli entusiasmi pei dotti erranti quà
e là, quali seguaci dé trovatori, dispensando dottrina e riscuotendo
applausi e danari. Gli umanisti in fondo non erano cattivi, in generale erano
affabili, piacevoli allegri; e quell’animo gioviale li condusse ai giocondi
convegni, ai lieti banchetti, alle dotte conversazioni, alle passeggiate
socratiche (1). Lo studio si faceva fra i. campi, per le vie, nelle ville, i
negli orti. Ogni letterato apriva la sua casa ai giovani, ai forestieri, a
tutti di ogni classe, senza distinzione, e vi accorrevano in folla per sentir
parlare di cose antiche e per disputare con piacere su di esse. In quelle liete,
animate riunioni in quei simposii della scienza si sentiva quanto è potente il
sapere, quanto è bella la gloria. E che Paolo dei Marsi risentisse l’influsso
del secolo in cui visse, traspare dai suoi Comenti. Nella prefazione al terzo
libro
(V. Append. III), in quella al quinto (V. Append. V), nell’ altra al sesto (V.
Append. VII), ed in fine dello stesso sesto libro (V Append. VIII) mostra di
sentire troppo la propria valentia. Nella prefazione al secondo libro (V
Append. II) si lagna che vi sieno quelli che lo criticano che sia troppo
prolisso, ma si giustifica dell’addebito col fare osservare che insegna in un
pubblico ginnasio, agli ignoranti e agli eruditi, ai fanciulli e ai più
grandicelli, ai quali niente deve passare sotto silenzio, ma tutto deve
spianarsi e chiarire. Nella prefazione al quinto libro (V. Append. VI) torna a
lagnarsi di un maledico, che trovasi a Venezia, ma non è veneto, il quale lo
critica perché come poeta estemporaneo vuole innalzarsi al cielo per la
fertilità dell’ingegno.
I
Comenti ai Fasti, che egli aveva
incominciati prima del 1463, furono da lui proseguiti ed ultimati dal 1474 al
1482; e fu talmente accurato nel completarli che, nel punto di pubblicarli si
faceva prestare i quaderni dai suoi scolari per confrontarli coi suoi scritti
ed ordinarli definitivamente, come egli stesso confessa nella prefazione al
secondo libro. Vi aggiunse un’appendice astrologica intitolata: Ratio
astrologiae, che compilò nell’anno 1479, come egli dice: nam ab eo
anno, qno natus est Ovidius,usque in hunc annnun deftuxere anni 1522. Sicconìe
Ovidio nacque l’anno 43 av. G. G., così, togliendo 43
dal 1522, si ha l’anno 1479; e dichiara più sotto che vi diede
l’ultima mano nel 1482: quo quidem anno (1482, che ha indicato poche
linee prima) haec excepsimus et imprimenda dedimus. Verso il giugno del
1482 andò a Venezia per ultimare il suo lavoro da pubblicarsi subito a spese
del suo mecenate Giorgio Corner, ed i Comenti si pubblicarono.
In
questa andata a Venezia accadde a Paolo de’ Marsi un curioso accidente.
Passando vicino Firenze ebbe desiderio di visitare quella bella città dei
fiori, di rivedere gli amici Angelo Poliziano e Demetrio Calcondicola e di far
visita a Lorenzo dei Medici, il Magnifico, il Mecenate del Poliziano; ma dai
custodi gli furono chiuse le porte in faccia perché proveniva da Roma, ove vi
era’ la morìa. Ciò si rileva da una poesia di Paolo al Poliziano
(V.
Append. XI^ ), scritta avanti la porta di Firenze, in cui gli narra
l’accaduto, gli dice che non ha avuto contatto con appestati e che son 24
giorni che manca da Roma. Lo prega ottenergli il permesso di entrare o almeno
che si recasse col Calcondicola alle porte per rivedersi. Non si sa se entrasse
o Parlasse avanti le porte coi suoi due amici.
Nella
prefazione al sesto libro dice che è imminente il tempo della riapertura
della università romana, alla quale era stato nominato professore di rettorica
nel 1430. Questa volta, con umiltà rara e singolare in lui, dice che con non
troppo piacere accolse la nomina, perché si stimava impari a tanto onore, e che
l’accettò per la vecchia amicizia coi dottissimi professori di quello studio.
Prosiegue
a dire che deve tornate a Roma, dove lo chiamano i suoi colleghi
d’insegnamento, il celebre Pomponio Leto, la cui dottrina si estolle alle
stelle e il sapere e l’ingegno hanno i confini dell’ universo; Antonio
Volsco a lui carissimo e Pietro Marso suo conterraneo, che, per la profondità
degli studi, toccò la vetta dell’Olimpo, illustre per ingenua assennatezza
ed insigne per la profonda conoscenza delle lettere latine.
Gl’invidiosi
cercarono anche una volta di porre ostacoli, affinché la censura veneta
negasse la licenza necessaria per la pubblicazione; ma non vi riuscirono, e l’opcra
fu pubblicata a Venezia il 24 dicembre 1482; sei mesi ne uscì una edizione a
Milano il 5 giugno 1483, cd un’altra a Venezia il 27 agosto 1485. Ne abbiamo
un’altra di Venezia del 1762, una di Tuscolo del 1527 ed una di Francoforte
del 1601.
Interessante
è l’infine la soscrizione dell’edizione di Venezia del 1485, che
dice:
«
Relligiosae littcrariae sodalitati Viminali et universae
academiae
latinae ad viventium posterorumque
usum Pauli Marsi pisci.(natis) poe.(tae) romani fideliss.(imi) Fast.(orum)
interpretationem Antonius Bactibonis alexandrinus Venetiis imprimendam curavit
anno salutis MCCCCLXXXV, dic XXVII «angusti et a constituta sodalitate a.(uno)
VII, d.(ominico. r.(uverio) car.(dinali) divi elemen. (tis) protectore, pont.(ifice)
firman.(o) et nestore malvis.(ii) preafectis, Pompino Laeto, P.( ublio)
Astreo
ct Paolo Marso censoribus, IX cal.(endas) ianuar.(ii). »
11
dominico ruverio è il cardinale. Domenico della Rovere fratello del papa
Sisto IV, protettore della religiosa sodalità Viminale, il pontifex
firmanus è Giambattista Capranica vescovo di Fermo, e nestore
malvisii é il patrizio bolognese Nestore Malvczzi cavaliere
gerosolimitano entrambi prefetti del sodalizio. Il protettore ed i due prefetti
erano cariche officiali della corte pontificia, che, come, delegati del governo,
avevano l’obbligo d’invigilare sul regolare andamento della società
Viminale, ed i tre censori, appartenenti al sodalizio, venivano ogni anno detti
dagli accademici nella ricorrenza delle feste palilie e del Natale. di Roma,
che, secondo i loro calcoli,
celebravano con solennità ai 20 aprile, e non ai 21. Confrontando la
soscrizione del 1482 con quella de 1485, si scorge che le persone che coprono le
cariche sono le stesse; eppure mieI 1485 erano già morti Paolo dei Marsi e
Giambattista Capranica. Ci troviamo perciò nella soscrizione del 1485 davanti
ad una riproduzione materiale di quella del 1482, nella quale, chi la copiò,
non seppe cambiare altro l’anno IV nell’anno VII: altrimenti non potrebbe
stare.
Nel
1483 i pomponiani con più solennità celebrarono il natale di Roma ed a
farne l’orazione fu invitato Paolo dei Marsi
il quale recitò la sua poesia, che incomincia:
Roma
genethliacam tibi nune libatur ad aram.
Egli
l’aveva scritta pri ma del 1482, e l’inserì nei suoi Comenti ai Fasti nell’edizione del 1482. In essa
tesse la genealogia dei Cesari, che risale ad Elletra figlia di Atlante fino a
Romolo (V. Append. V.). Infatti comentando i versi del quarto
libro dei Fasti (pag. 48) miei ljlIali Ovidio dimostra l’antica e divina
originee di Romolo, dice: « Explicat nune poeta romani generis venustatem, ipsamque genealogiam a Dardano Ioviovi
filio usque ad romolum ipsum; quae quidem generationis series, a mnultìs
variisquc scriptoribus explicata, a i nobis ex fedelissimis
historiographis,
tam graecis, quam latinis excepta, inque breve compendiolum superioribus
annis natali quidam romano redacta « est. »
Il Tiraboschi (storia della Letteratura
Italiana, Modena, 1776,tomo IV, parte. prima, pag. 85) afferma che Paulus
Marsus horationem habuit, riferendo le parole di Iacopo da Volterra, chc
dice avere l’ Accademia celebrato il natale di Roma all’Esquilino presso la
casa di Pomponio Leto nella domenica. seguente, ossia il 20 aprile 1483.
Lo stesso Tiraboschi (Storia sudetta, torno VI; parte lI. pag. 225-226) dice:
« Parla iuoltre con lode il Girardi di Paolo da Pescina, soprannominato Marso,
cui dice uomo assai erudito e di facilità ammirabile nel verseggiare e ne accenna,
oltre altre poesie, il Genetliaco di Roma e i Comenti sopra i Fasti di Ovidio,
delle quali opere niuna a mia notizia ha veduta la luce. Quest’ultima
asserzione non è vera, e non è la prima volta che il Tiraboschi prende un
equivoco (1).
Nel
tempo che corre fra il 1473 ed il 1482 fece anche Paolo
i
Comenti alla Farsaglia ed alla Rettorica ad Erennio di Marco Anneeo
Lucano; e durante questo periodo di tempo il suo nome comparisce con quello del
Platina nella raccolta di poesie in lode del peoma De Fastis christianae
religionis dell’umanista Lorenzo Lazzarelli nato a San Severino nelle
Marche. In un’altra raccolta poetica onore del sodale Alessandro Cinucci
senese, morto a sedici anni, fra le poesie di varii accademici, ve ne
sono due di Paolo dei Marsi, una in
lode del sudetto Cinucci ed un’altra assai lunga, ma di soggetto diverso,
dedicata al giovane patrizio fiorentino Tommaso Tornabuoni, anche esso
umanista.
Della
sua famiglia qualche notizia si raccoglie dalla prefazione al quarto libro dei
Fasti (V. Append. IV.), la quale, sebbene in prosa, ha tutta l’eleganza
delle elegie ovidiane. In éssa dice che è inconsolabile per la morte di tutti
i fratelli; e. siccome era affezionatissimo alla famiglia, piange più
acerbamente, perchè vede estinta per sempre la numerosa famiglia dei Marsi, tam
numerosa Marsorum familiat, e non vi è più alcuno
(1) Le notizie del Tiraboschi, di Iacobo da Volterra e del Girardi mi
sono state gentilmente comunicate dal dottor Giuseppe Ludovico Perugi,
Archivista di Stato a Roma e professore pareggiato di letteratura latina del
medio evo nella università di Napoli e che pubblicamente ringrazio.
della
stirpe che possa prestargli le affettuose cure nella vecchiaia. Prosieguo a dire
che la ancor vivente, ma infelice, madre avea dato alla luce quattordici figli,
dei quali dieci morirono nella puerizia. Degli altri quattro ne morirono tre in
un quadriennio ed egli rimase solo con la madre. Il primo di essi Angelo, nato
nel 1438, religioso di San Francesco mori a quarant’anni nel
1477; l’altro Antonio, nato nel 1436, morì nella guerra di Toscana,
combattuta dal luglio 1478 al novembre 1479, tra il papa ed il re Ferdinando di
Napoli da una parte, e dall’altra Lorenzo dei Medici il Magnifico, I Milanesi,
i Veneziani e Luigi XI Francia. Il terzo fratello chiamato anche Angelo,
costretto alla milizia, morì nel 1482 nella guerra del Lazio. Egli stesso con
cura speciale lo aveva istruito e gli aveva cercata una moglie per avere
nipotini che gli rallegrassero la non lontana vecchiaia. Paolo, alla morte di
quest’ultimo, era assente da Roma, e probabilmente trovavasi a Venezia per
fare accelerare la stampa dei suoi Comenti ovidiani; e da Pomponio Leto, che
egli chiama cephalios meus, dietro reiterate ed insistenti lettere seppe
la sciagura che avea colpito questo Angelo, il quale era morto sul fiore degli
anni nei pressi di Frascati, ucciso da un turco, mentre egli stesso aveva
scavalcato un altro turco, riducendolo a mal punto. Questa guerra del Lazio fu
combattuta dal papa collegato coi veneziani contro i ferraresi ed il re di
Napoli. Le truppe napoletane avevano invaso il territorio pontificio sotto il
comando li Alfonso duca dl Calabria, che teneva nell’esercito varie centinala
di cavalleggeri turchi, i quali erano passati a lui nella presa d’Otranto e
che sporgevano il terrore ovunque passavano. Nella strepitosa battaglia di
Campomorto, ai 22 agosto 1482, rimasero vittoriosi i pontifici e quei turchi
quasi tutti morirono. La suddetta prefazione al quarto libro conferma sempreppiù
che non vi era alcuna parentela fra il nostro Paolo ed il filosofo Pietro
Marso di Cese, perchè pe vi fosse stata, certamente Paolo non l’avrebbe
taciuta.
Dai
suoi successi letterari Paolo dei Marsi non ritrasse alcun guadagno materiale,
perché dopo la morte dell’ ultimo fratello verso il 1482 o il 1483 rivolse
una petizione in versi al papa Sisto IV. invocando aiuto per le sue condizioni
finanziarie disperate, tanto più che era l’unico sostegno della
decrepita madre e dei piccoli nipotini. La poesia ha il titolo: Divo
Sixto ponfici maximo Paulus Marsus servulorum minimum, cum umili
commendatione faelicitatem (V. Append. XIII). Non si sa se ottenesse
qualche sussidio; però è certo che proseguì ad essere Professore della
Sapienza fino al 1484, anno in cui morì.
Paolo
Cortese (De hominibus doctis dialogus, Firenze, 1817, pag. 235) parlando
di Andrea Brenzi da Padova, uomo molto dotto nelle lettere greche, dice: «Hunc
defunctum Paulus Marsus quuni laudavisset, fuisetque in ea laudatione a
moltitudine «quasi explosus, propterea quod nimia contenzione vocis
pronunciasset, tantum animo accepit dolorem, ut pancis interpositis diebus, quum
ad animi sollecitudinem morbus accessit, moreretur.» Andrea Brenzi morì di
peste in Roma pochi giorni avanti il 13 febbraio 1484 e Paolo de’ Marsi ne
recitò l’orazione funebre; ma avendo Paolo declamato con molto calore
oratorio quel discorso estemporaneo esequiale e con eccessivo sforzo di voce, fu
disapprovato e quasi mandato via dalla moltitudine rumoreggiante. Il Cortese
non dice altro, ma dal suddetto cenno apparisce chiaro il motivo di questa
avversione popolare a Paolo dei Marsi. Gli umanisti avevano spesso inveito
contro gli oratori sacri del loro tempo e dei due secoli precedenti, che
riproducevano l’eco delle querimonie medioevali e declamavano a forza di
vocativi, di interrotte apostrofi e di periodi balzellanti; ma poi essi medesimi
nelle laudi di qualche defunto erano caduti nello stesso difetto che avevano
prima apertamente riprovato, intramettendovi interiezioni ed appellativi con
ritornelli monotoni e con neuie funebri imitanti le antiche prefiche. Forse
Paolo dei Marsi dalla veemenza del dire si fece trasportare ad esclamazioni
eccessive, e la folla, incitatagli contro, probabilmente da qualche malevolo,
fece tumulto, e col chiasso e colle grida soffocò la voce dell’oratore, che
dovè abbandonare l’adunanza.
Paolo
non aveva mai provato i subitanei mutamenti dell’incostante aura popolare,
anzi era avvezzo a raccogliere sempre plausi, ammirazione, onori ed allori colla
sua affascinante parola; a questa inaspettata ostile dimostrazione non seppe
mantenere mi anino forte e rassegnato, ma ne provò dolore sì vivo ed acerbo
che sopraggiuntagli una letale malattia, morì in pochi giorni. Se il Brenzi
cessò di vivere fra la fine della prima ed il principio della seconda decade
del febbraio 1484, la morte di Paolo dovette avvenire entro gli ultimi
otto giorni dello stesso mese.
Dalle
poche notizie sopra riferite ognuno può formarsi un giudizio sopra Paolo dei
Marsi. Non ostante che con esagerata vanità, colpa principale di quei tempo, si
ripromettesse fama immortale dalle sue opere e da se stesso si vantasse ad
esuberanza, se non fu uno dei più insigni umanisti del XV secolo, non ne fu
neanche uno degli ultimi. La De aureis Augustae Perusiae saeculis per Divum
Paulum Secundum restitutis, la Bembice, la De crudeli Europontinae urbis excidio,
sacrosanctae religionis christianae lamentatio ed i Comenti ai Fasti di
Ovidio sono le opere sue più importanti i contemporanei ne lodarono, come
degne di molta ammirazione, la facondia, la vasta erudizione e la felice vena
poetica quale improvvisatore in versi latini, ed il Sabellico lo annovera fra
gli uomini illustri per dottrina fioriti sotto il pontificato di Sisto Quarto.
Dal
lato storico Paolo dei Marsi ha veramente una importanza grande e speciale,
perché appartenne all’Accademia
di Pomponio Leto fin dal principio, vi fu sempre fedele, anzi descrisse le
diverse fasi della prima dispersione degli accademici; e dopo che
l’Accademia risorse sotto Sisto
IV., ne divenne uno dei principali componenti, e con Pomponio Leto e con Publio
Astreo di Perugia ne fu censore dal 1478 sino alla morte.
Pescina,
di questo suo illustre cittadino che molto la onora, che si gloriava altamente
di essere in essa nato, non conserva altro che una strada col suo nome
dedicatagli dal Municipio a mia proposta, e la tradizione che in una casa, la
cui ubicazione viene additata sotto il fortilizio entro la cinta murata della
città, sia nato l’erudito letterato e poeta improvvisatore del rinascimento
Paolo dei Marsi.
di
Vittoriano Eposito
Paolo
Marso nacque a Pescina (1) nel 1440 da una famiglia molto numerosa, che certo
non godeva di condizioni agiate (2). Ancora ragazzo si trasferì a Carsoli, alle
dipendenze di una « montana domus, generosa propago », da individuare forse
nel casato di Virgilio Orsini, che a Carsoli appunto aveva un piccolo feudo. Con
la morte del patrizio romano (1457), Paolo ne perse la protezione e il poderetto
avuto in dono, sicché fu costretto a lasciare Carsoli e recarsi a Roma, la meta
sospirata dei giovani di talento, dove poté procurarsi una formazione culturale
eccellente sotto il riguardo umanistico, anche perché ebbe a disposizione delle
biblioteche ben fornite (3).
Per
un lustro o poco più, presto servizio presso la Curia Vaticana, nel collegio
degli abbreviatori pontifici: fu un impiego, a dir suo, duro e non redditizio,
svolto in condizioni di schiavitù (4). In questo primo soggiorno romano egli
conobbe senza dubbio Pomponio Leto, Antonio Volsco e altri umanisti, con i quali
collaborò alla costituzione della famosa Accademia. Probabilmente nel 1463
lasciò Roma e si recò a Perugia, dove fu ben accolto da Mons. Giovambattista
Savelli, protonotario apostolico e poi governatore della città dal 1466 al 1468
(5). Li scrisse un poemetto in esametri dal titolo: « De aureis Augustae
Perusiae saeculis, per divum Paulum Secundum restitutis libri tres » (6),
corredato di una dedica in distici allo stesso papa Paolo II, al quale il poeta
attribuisce i meriti della prosperità che attraversa Perugia.
Nell’Università
perugina egli ebbe ad insegnare Grammatica, Lingua greca e Poesia (7), nella
stessa cattedra che fu del Varano, del Cantalicio, del Volsco e del Verulano. Ai
primi del ’68, forse caduto in disgrazia del vescovo a causa d’una sua
relazione amorosa da cui aveva ottenuto un figlio illegittimo, o piuttosto per
qualcuno di quegli scherzi così gravi e frequenti negli ambienti universitari
di quel tempo (ma, ahimé, anche del nostro!), Paolo dovette lasciare Perugia e
passò a Venezia, dove fu senz’altro felice di ritrovare Pomponio Leto (8) e,
più ancora, di godere della protezione di Bernardo Bembo, esperto diplomatico
di quella repubblica, munifico mecenate, oratore facondo, padre del Cardinale e
poeta petrarchista Pietro Bembo. A Venezia, con l’aiuto del Bembo e del Leto,
aprì uno Studio letterario che divenne ben presto assai fiorente.
Tra
la fine del ’67, e il principio del 68, progettò di recarsi in oriente con
l’amico e maestro Pomponio e, nell’imminenza del viaggio, scrisse in distici
elegiaci una « Epistola ad amicos omnes Perusiam Augustam incolentes », per
salutare gli amici e i protettori lasciati a Perugia. Ma il viaggio per il
momento non fu compiuto, non solo perché Pomponio nel febbraio o marzo dello
stesso anno fu arrestato per ordine di Paolo II e condotto a Roma sotto
l’accusa di complicità in una presunta congiura politica ordita dai membri
dell’Accademia romana, ma anche perché il Bembo lo volle con sé, unitamente
al poeta satirico Antonio Vinciguerra, in una ambasceria nel regno di Castiglia,
la quale duro sei mesi (circa metà agosto 1468 – 24 febbraio 1469). Il nostro
poeta ci ha lasciato un documento di notevole importanza su questa sua avventura
in terra spagnola: una raccolta di 21 poesie in metro elegiaco, intitolata «
Bembice » dal nome del suo protettore.
Tornato
a Venezia, ebbe subito l’occasione di partirsene nuovamente al seguito di un
altro suo mecenate, Nicolò Canal, senatore e ambasciatore della Serenissima,
eletto da poco comandante della flotta veneziana in Oriente con il compito
preciso di intraprendere una guerra risolutiva contro i Turchi. La spedizione
ebbe degli episodi gloriosi, in un primo momento, che il Marso rievoca in una
epistola poetica rivolta « ad Joannem Canalem Nicolai Doctoris filium », ma si
concluse tristemente con la strage di Negroponte, oggetto di un bel poemetto del
Nostro, che s’intitola appunto: « De crudeli Europontinae Urbis excidio –
Sacrosanctae religionis Christianae lamentatio ».
Rientrati
a Venezia, il Canal fu relegato a vita a Porto Gruaro come responsabile della
disfatta subita da parte dei Turchi, e Paolo Marso dovette trovarsi un altro
protettore, che fu Marco Cornaro, uomo assai ricco e liberale, senatore della
Repubblica (9). Durante questo nuovo soggiorno véneziano il Nostro conobbe E.
Barbaro, F. Nursi, G. Bologni e altri umanisti più o meno ragguardevoli.
Non
sappiamo se componesse poesie e se continuasse gli studi ovidiani, iniziati a
Roma e condotti un po’ saltuariamente. Intanto, salito sul soglio pontificio
Sisto IV (agosto 1471), l’umanesimo comincio a rifiorire lentamente. Forse
attratto dalla liberalità del nuovo papa, ai primi del 1473 Paolo Marso
decideva di tornare in Roma, per riprendere « ea studia quae tam longo tempore
intermiserat » (10) ; poté, cosi, dedicarsi con più serenità al suo commento
ai « Fasti » di Ovidio, che aveva avviato già prima del ’63. Il lavoro,
portato a termine nel ’74, fu corredato di un’ampia lettera dedicatoria al
Cornaro, a ricordo della sua amicizia e protezione, e nel ’79 vi fu aggiunta
una « Ratio astrologiae », una sorta di introduzione al mondo astronomico
dell’opera ovidiana. Dopo il ’79, il Marso dovette dedicarsi al commento
della « Pharsalia » e della « Rethorica ad Erennium », di cui fa cenno nella
stessa lettera di dedica al Cornaro, senza trascurare l’attività poetica:
collaborà, infatti, col Platina in una raccolta di versi scritti per esaltare
il poema « De fastis Christianae religionis » del sodale Lodovico Lazzarelli,
e con altri poeti del sodalizio pomponiano nella compilazione di un’antologia,
andata poi perduta, in onore di un adolescente senese spentosi all’età di 16
anni (11). In questo periodo Paolo Marso dovette occupare un posto di grande
rilievo nella ricostituita Accademia romana.
Per
l’esattezza bisogna dire che, riconosciuta questa ufficialmente dal papa come
« Religiosa litteraria sodalitas Viminalis et universa Accademia latina » e
addirittura consacrata a S. Vittore e S. Fortunato, Paolo Marso ne fu nominato
censore con lo stesso Pomponio Leto e con Publio Astreo. Circondato da tanta
stima, fu chiamato anche alla cattedra di Retorica nella « Sapienza » e nel
primo anno d’insegnamento (1480-81) tenne un corso sui « Carmina » di Orazio
e sui « Tristia » di Ovidio, nel secondo (1481-82) un corso sui « Fasti »,
« magna cura ac vigilantia audi Torumque fiorentia >> (12) . In tale
occasione preparò la relazione definitiva del suo commento ai “Fasti”, la
stessa che poco dopo fece pubblicare a Giorgio Cornaro, figlio del suo ex
protettore.
Nell’estate
dell’82 andò a Venezia appunto per seguire da vicino la stampa del suo
lavoro; e sembra che, durante il viaggio, giunto a Firenze, volesse far visita
al Magnifico e al Poliziano, ma « gli furono chiuse le porte della città in
faccia, perché proveniente da Roma, dove correva voce che ci fosse la moria »
(13). Mentre era in attesa che riaprissero le porte, scrisse una epistola
poetica al Poliziano « ipsa manu praecipiti et calamo volanti », affinché
intercedesse per il suo ingresso in città (14). Si ignora se il permesso fosse
poi dato.
Ripreso
il viaggio, giunse a Venezia quando la stampa della sua opera era già a buon
punto; ma vi si trattenne poco, poiché alla data della pubblicazione (24 dic.
1482) egli era tornato già a Roma. Qui sembra che venisse a trovarsi ben presto
in una situazione economica assai disagiata, se è vero che è di questo periodo
la sua lunga epistola intitolata « Divo Sixto pontifici maximo Paulus Marsus,
servulorum minimus, cum humili commendatione foelicitatem », intesa ad ottenere
un qualche soccorso. Ma ormai poche altre vicende di un qualche rilievo lo
attendevano: la riconferma nella cattedra di Retorica alla « Sapienza », una
nuova edizione del commento ai « Fasti » (Milano, giugno 1483) e la
preparazione di un’altra edizione a Venezia (agosto 1485), che egli non potè
vedere perché nel corso dell’anno 1484, forse verso la fine di febbraio, lo
colse la morte, all’età di soli 44 anni circa.
NOTE
1) La fonte principale di questi cenni bio-bibliografici è la vecchia ed unica monografia che si conosca intorno al nostro poeta umanista, pubblicata da Arnaldo Della Torre (« Paolo Marsi da Pescina – Contributo alla storia dell’Accademia Pomponiana », Rocca S. Casciano, Cappelli Editore, 1903). Dobbiamo aggiungere, tuttavia, che talvolta ce ne siamo allontanati, o dando in forma dubitativa quel che li si dà per certo e certo non è, oppure rettificando secondo il nostro modesto giudizio. A proposito del nome, ad esempio, noi crediamo che la forma esatta sia Paolo Marso e non Marsi, anche se, stando alle prove che adduce il Della Torre, può concedersi che Marso sia un vero e proprio cognome di Paolo, a differenza di altri illustri conterranei che usarono « Marso » come soprannome in quanto originari della Marsica (è il caso di Pietro Marso, Antonio Marso e di altri). Per quanto riguarda, poi, il paese natio del
Nostro,
è ovvio che sono in errore il Toppi, il Febonio e il Corsignani a dirlo di Cese,
quando un suo amico intimo, il Sabellico, parlando di lui, cosi si esprime: «
Paulus Piscinensis cognomento Marsus » (cfr. « Opera M. Antonii Sabellici »,
p. 114, Venezia, 1502) distinguendolo nettamente da « Petrus Marsus Cesensis »,
e quando molti altri documenti recano solo e sempre il nome di Pescina. Per le
stesse ragioni è da respingere anche la tesi recentissima di Vinicio
D’Alessandro, che vuole Paolo Marso nativo di Collarmele (cfr. « Regione
Abruzzese », n. agosto 1966).
2)
Cfr. « Praefatio in quartum librum Fastorum cum deploratione orbitatis morte
fratrum Paulus Marsus Piscinas poeta clarissimo Georgio Cornelio Marci Cornelii
Equitis filio Salutem ».
3)
Cfr. Lettera dedicatoria a Giorgio Cornaro premessa al suo Commento ai « Fasti
» ovidiani.
4)
Cfr. « Bembice », XII.
5)
Cfr. « Bembice », I.
6)
Pubblicato da G. Battista Vermiglioli in « Memorie di Jacopo Antiquario »,
Perugia 1813, pp. 344-372.
7)
Cfr. Vincenzo Balzano, « Legisti e artisti abruzzesi lettori nelle celebri
Università d’Italia », Roma, 1964.
8)
Pomponio Leto era passato a Venezia già dall’estate del ’67, per sfuggire
alla polizia pontificia che ricercava gli Accademici accusati di congiura contro
il papa (è la tesi dell’Uzielli e del Carini) oppure, come sembra più vero,
– dato che l’arresto degli Accademici avvenne più tardi, nel febbraio del
’68 – per imbarcarsi di li verso l’Oriente, allo scopo di apprendere il
greco e l’arabo e arricchire così la propria cultura.
9)
E’ da notare che B. Bembo nel luglio del ’71 si recò come ambasciatore
nella Borgogna, dove rimase fino all’estate del ‘74
10)
Cfr. Dedica a G. Cornaro, cit.
11)
Cfr. A. Della Torre, op. cit., pp. 230-31; Federico Patetta, « Di una raccolta
di componimenti e di una Medaglia in memoria di Alessandro Cinuzzi Senese,
paggio del conte Girolamo Riario » (in «Bollettino senese di storia patria »,
a. VI, 1899, pp. 153, 170, 175).
12)
Cfr, Dedica al Corsaro, cit.
13)
Cfr. A. Della Torre.
14)
E’ da ricordare che Isidoro Del Lungo attribuì questa epistola a Pietro Marso,
Senza però addurre ragioni di sorta.
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