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Clarence Bucaro - Sense of Light Rounder/IRD 2004 1/2

Dopo l'ottimo esordio su Burnside di due anni fa, torna a far parlare di sè Clarence Bucaro, ripresentandosi agli appassionati di rock delle radici con un disco che si segnala per un lavoro sui suoni (elemento di solito poco considerato, nelle produzioni di questo ambito) di grande rigore e intelligenza. Il baricentro delle canzoni è sempre solidamente assestato su di una serie di quadretti roots che potrebbero rammentare i ritratti della provincia americana delineati negli anni '70 da Ry Cooder, nella fattispecie se questi avesse nutrito una predilezione particolare per New Orleans e dintorni. Funzionale, in questo senso, la ricorrente presenza di Tony Koussa al clarinetto e di Jake Wynne alla tromba, le cui note vengono di volta in volta utilizzate per evocare lo spirito bandistico degli anni ruggenti d'inizio secolo oppure per swingare con inconfondibile gusto dixie. Le novità più eclatanti, quindi, riguardano l'ineccepibile produzione di Anders Osborne (altro luminare in tema di sonorità della Louisiana) e l'impiego massiccio del citato Koussa al sax, strumento oggigiorno abbastanza sottovalutato eppure capace di suggestionare come pochi altri. Si aggiungano a simile formazione i sinuosi mugolii del B3 (manovrato dal solito Koussa o da Scott Billington), il basso acustico e jazzy di Matt Perrine, il banjo di Scott Carpenter, il tamburo e le percussioni di Chris Lovejoy; si otterrà appunto questo Sense Of Light, che non avesse qualche cedimento, qualche sfilacciamento, qualche prevedibile calo d'ispirazione nell'ipotetico "lato b", lo si potrebbe considerare candidato ideale a parecchie playlist di fine anno. Resta comunque la certezza di un pugno di canzoni bellissime e ottimamente arrangiate quali, per esempio, Of A Trade, Sugar Maples, una Wartime Prayer in odor di folk-anthem orgoglioso e straccione, la disperata Light Me A Candle, l'acustica Carolina Moon o l'altrettanto spoglia (giusto un pianoforte e una chitarra in più) Further Away From You, pastorale ballata di encomiabile limpidezza country-rock. La più bella di tutte, però, si intitola Father Of Our Nation, un brano che, al di là del misticismo un po' banalotto del testo, rappresenta l'incursione (peraltro assai riuscita) dell'autore nei territori di un rock notturno e malinconico, bucolico e al tempo stesso vivacizzato da spicciolate di dettagli urbani, dove il timone del ritmo e della melodia è affidato a un sassofono randagio in grado, dopo essersi prodotto in un assolo di raro fascino, di portarsi dietro tutti gli altri strumenti per concorrere a un bridge talmente carico, sentito, classico e trascinante da rapire all'impronta. I brani in disavanzo - come detto - tendono a ripetersi, magari a zoppicare nella scrittura, senza tuttavia disperdere la coerenza formale cui accennavo all'inizio, e che in fin dei conti resta il pregio migliore di un lavoro cui avvicinarsi con dosi paritetiche di cautela e fiducia.
(Gianfranco Callieri)

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