Dopo
l'ottimo
esordio su Burnside di due anni fa, torna a far parlare
di sè Clarence Bucaro, ripresentandosi agli appassionati
di rock delle radici con un disco che si segnala per un lavoro
sui suoni (elemento di solito poco considerato, nelle produzioni
di questo ambito) di grande rigore e intelligenza. Il baricentro
delle canzoni è sempre solidamente assestato su di una serie di
quadretti roots che potrebbero rammentare i ritratti della provincia
americana delineati negli anni '70 da Ry Cooder, nella fattispecie
se questi avesse nutrito una predilezione particolare per New
Orleans e dintorni. Funzionale, in questo senso, la ricorrente
presenza di Tony Koussa al clarinetto e di Jake Wynne
alla tromba, le cui note vengono di volta in volta utilizzate
per evocare lo spirito bandistico degli anni ruggenti d'inizio
secolo oppure per swingare con inconfondibile gusto dixie. Le
novità più eclatanti, quindi, riguardano l'ineccepibile produzione
di Anders Osborne (altro luminare in tema di sonorità della
Louisiana) e l'impiego massiccio del citato Koussa al sax, strumento
oggigiorno abbastanza sottovalutato eppure capace di suggestionare
come pochi altri. Si aggiungano a simile formazione i sinuosi
mugolii del B3 (manovrato dal solito Koussa o da Scott Billington),
il basso acustico e jazzy di Matt Perrine, il banjo di
Scott Carpenter, il tamburo e le percussioni di Chris
Lovejoy; si otterrà appunto questo Sense Of Light,
che non avesse qualche cedimento, qualche sfilacciamento, qualche
prevedibile calo d'ispirazione nell'ipotetico "lato b", lo si
potrebbe considerare candidato ideale a parecchie playlist di
fine anno. Resta comunque la certezza di un pugno di canzoni bellissime
e ottimamente arrangiate quali, per esempio, Of A Trade,
Sugar Maples, una Wartime Prayer in odor di folk-anthem
orgoglioso e straccione, la disperata Light Me A Candle,
l'acustica Carolina Moon o l'altrettanto spoglia (giusto
un pianoforte e una chitarra in più) Further Away From You,
pastorale ballata di encomiabile limpidezza country-rock. La più
bella di tutte, però, si intitola Father Of Our Nation,
un brano che, al di là del misticismo un po' banalotto del testo,
rappresenta l'incursione (peraltro assai riuscita) dell'autore
nei territori di un rock notturno e malinconico, bucolico e al
tempo stesso vivacizzato da spicciolate di dettagli urbani, dove
il timone del ritmo e della melodia è affidato a un sassofono
randagio in grado, dopo essersi prodotto in un assolo di raro
fascino, di portarsi dietro tutti gli altri strumenti per concorrere
a un bridge talmente carico, sentito, classico e trascinante da
rapire all'impronta. I brani in disavanzo - come detto - tendono
a ripetersi, magari a zoppicare nella scrittura, senza tuttavia
disperdere la coerenza formale cui accennavo all'inizio, e che
in fin dei conti resta il pregio migliore di un lavoro cui avvicinarsi
con dosi paritetiche di cautela e fiducia.
(Gianfranco Callieri)
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