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La Stella del Mattino

Laboratorio per il dialogo religioso

nuova serie – trimestrale

n. 2 - aprile - giugno 2003

 

 

 

 

Presentazione

L’insostenibile leggerezza dell’estate

 

In cammino

Luciano Mazzocchi

La pace e la spada del Vangelo

Mauricio Y. Marassi

Un dovere possibile. Libertà è anche libertà dall’appartenenza come identità

 

Canzoniere

Antonio Machado

Cantares

 

Voci

Pier Cesare Bori

Il maestro interiore nella visione dei primi Amici

 

Lettere

 

Schede

a cura di Giuliano Burbello e Valeriano Massimi.

 

 

 

Redazione: Federico Battistutta, Giuseppe Jiso Forzani (coordinatori), Alberto Braida, Giuliano Burbello, Luciana Della Flora. Mauricio Yushin Marassi e Silvia Papi

Sede: via Gaffurio 11, 26900 Lodi

Tel. e fax: 0371.424801

E-mail: laequilibrista@libero.it

Sito web: web.tiscalinet.it/stellamattino, a cura di Andrea Zaniboni

Abbonamento ordinario: Euro 15,50

Abbonamento sostenitore: Euro 25,90

Conto corrente postale: 41527219 intestato a Associazione Culturale L’Equi-librista

Stampa: Cooperativa sociale "Eredi Gutenberg", Piacenza

Autorizzazione del Tribunale di Lodi n. 334/02 del 5.4.2002

Direttore responsabile: Federico Battistutta

Proprietà: Associazione Culturale L’Equi-librista

 

 

 

 

Arretrati:

 

Opuscolo di gennaio - marzo 2001

Opuscolo di aprile - giugno 2001

Opuscolo di luglio - settembre 2001

Opuscolo di ottobre - dicembre 2001

Opuscolo di gennaio - marzo 2002

Opuscolo di luglio - settembre 2002

Opuscolo di ottobre - dicembre 2002

Opuscolo di gennaio - marzo 2003

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Presentazione

 

 

L’insostenibile leggerezza dell’estate

 

 

Il caldo torrido di queste settimane che annuncia l’estate forse invita più a compiere letture amene, distensive, anziché cimentarsi con testi magari brevi ma sicuramente più impegnativi di un giallo o di una spy-story. Non ci sono argomenti contrari, il clima della stagione sembrerebbe andare nella direzione di una maggiore leggerezza. Qualcuno potrebbe aggiungere che sarebbe opportuno sospendere la pubblicazione per il periodo estivo. Ma che cos’è la leggerezza a cui ci riferiamo? E’ solo chiacchiera, disimpegno e distrazione? O allude a un alleggerimento da pesi inutili (e accettazione di altri pesi che divengono dolci)? Leggerezza allora è ricerca di essenzialità, convergendo verso un punto centrale (un centro senza centro, aggiungono però le metafore religiose, complicando così il quadro)? Oppure è un divergere, un saltabeccare qua e là alla ricerca di continui diversivi per rendere accettabile la miseria quotidiana? Nessuno qui desidera giocare la parte del grillo parlante recitando noiose sentenze, né tanto meno offendere il desiderio di riposo e ozio nella stagione estiva. In breve: i vocabolari ci dicono che la parola vacanza deriva dal latino ‘vacuum’ che vuol dire ‘vuoto’. E allora, di che sostanza è fatto il vuoto di queste nostre vacanze?

 

Ma veniamo alla presentazione delle tessere che compongono questo numero.

Sarebbe facile, seguendo una moda giornalistica, considerare l’articolo di Luciano Mazzocchi legato all’attualità. Invece il tema della guerra e della violenza, compiute anche in nome delle religioni, costituiscono uno degli elementi invarianti che attraversano la storia e l’uomo con cui dover fare i conti. Tutte le storie e tutti gli uomini. L’intervento di p. Luciano evita perciò di cadere nel trionfalismo di certo mondo cattolico il quale da una parte è fin troppo disposto a vedere l’odierno papa come l’unico vero messaggero di pace in un mondo senza valori, ma dall’altra preferisce coprire con un velo (anzi: con spesse coltri) precedenti storici della Chiesa ben poco imparentati con il cuore autentico della pace religiosa; quella pace in grado di riunire i brandelli che compongono la veste dell’esistenza per farne un unico manto variopinto. Pace religiosa quindi come ricerca di quel fondo pacifico che sostiene in ogni evenienza. Pace religiosa nella contraddizione e attraverso la contraddizione, affinché anche la difficoltà e l’impedimento più grave, la situazione oltremodo acerrima sappiano tutte convertirsi in vera pace.

Connesso a questi temi, seppure in modo indiretto, è anche l’intervento di Mauricio Marassi. Qui il centro del discorso sta nel passaggio da un contesto plurireligioso ad uno multireligioso, vale a dire da una situazione in cui, per forza di cose, convivono vicine tra loro esperienze e appartenenze religiose differenti, ad un’altra che non si limita a riconoscere un dato di fatto ineliminabile, ma si apre all’accettazione dell’altro attraverso il rispetto e la tolleranza come premesse indispensabili a un rapporto dialogico. Certo il dialogo, qualsiasi dialogo, non si esaurisce in un atteggiamento rispettoso e tollerante, ma è anche vero che senza di questi non può neppure avere inizio.

Marassi parla, seppure con piglio intenzionalmente provocatorio, di ‘liberismo religioso’. Tale espressione può generare equivoci e incomprensioni; nella redazione de "La Stella del Mattino" non tutti hanno apprezzato questa espressione un po’ troppo disinvolta, ma è anche vero che non bisogna confondere la luna e il dito che la indica. Una metafora va intesa per ciò che è, nel caso specifico vuol essere invito a gareggiare nel compiere il bene, rifiutando ogni forma di monopolio e di discriminazione in campo religioso.

Nella sezione "voci" compare un testo di Pier Cesare Bori che ci avvicina a una sensibilità religiosa praticamente ignota in Italia: quella della Società degli Amici o, come sono comunemente conosciuti, dei quaccheri. Parliamo di un’esperienza minoritaria ma di valore a cui una rivista che vuol essere un laboratorio per il dialogo religioso intende tributare il dovuto riconoscimento. L’argomento affrontato è quello del maestro – per essere precisi, del maestro interiore -, riprendendo una riflessione già toccata da angolature diverse su queste pagine.

Oltre alle consuete sezioni dedicate alla parola poetica e alle recensioni librarie pubblichiamo su questo numero alcune lettere. L’intento non è solo quello, di per sé lecito, di dare la parola ai lettori attraverso un’apposita rubrica, ma anche di cercare di calare nella cruda realtà temi che altrimenti sembrerebbero confondersi nei cieli della speculazione intellettuale.

 

F. B.

 

 



In cammino

 

 

La pace e la spada del Vangelo

Luciano Mazzocchi

 

1. La pace sia con voi!

Un uomo poco più che trentenne di nome Gesù, ebreo della Galilea di circa duemila anni fa’, aveva interrotto l’arte di falegname ereditata dal padre Giuseppe, e nell’arco di alcuni anni aveva girato per i villaggi ad annunciare una lieta notizia, trasmessa fino a noi sotto il nome di Vangelo. "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,9): aveva proclamato nel suo discorso inaugurale. Uomo di pace, sotto l’accusa di sovversivo fu condannato alla morte di croce un venerdì pomeriggio, mentre i suoi discepoli stavano rinchiusi in un luogo segreto per timore dei Giudei. Davanti alla minaccia di morte, nessuno aveva avuto il coraggio di schierarsi dalla sua parte; ma pure nessuno riusciva a dimenticare il Vangelo da lui annunciato, rompere del tutto il rapporto e tornarsene a casa. In tale chiaroscuro dell’anima, i discepoli restavano immobili e incerti.

"La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: "Pace a voi!". Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi". Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi" (Gv 20,19-23).

"Pace a voi!… E i discepoli gioirono al vedere il Signore". È pace la gioia dei discepoli dopo aver visto il Signore. Ma è pace anche il chiaroscuro della veglia e dell’attesa prima di vederlo. Ma è pace anche l’incidente che rompe un precedente quieto vivere e crea la situazione di chiaroscuro! Come è via il rettilineo facile e invitante della pianura, è altrettanto via la curva stretta e buia nella gola fra le montagne. Come è pace la gioia dell’incontro e della comprensione, altrettanto è pace l’isolamento e lo smarrimento che precedono ed evocano l’incontro.

"Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi". Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi". Dalla pace scaturisce la gioia e il perdono. La pace c’è e agisce mentre la gioia e il perdono non sono ancora ottenuti. Il Cristo risorto alitò lo Spirito: lo Spirito è il vento o il respiro della pace. Evidentemente il Vangelo non intende la pace come un particolare stato di benessere da proteggere; e nemmeno come il semplice non avere nemici. La pace del Vangelo è religiosa: ri-lega i tanti brandelli della veste dell’esistenza e ne fa un manto. È come un fondo pacifico che sostiene in ogni evenienza, affinché tutto, anche l’impedimento più grave, anche l’inimicizia acerrima, ogni situazione sia convertita in pace. Il seno della pace è grande e profondo; tuttavia l’uomo può ignorare e dimenarsi in altre prospettive di pace, tutte con la caratteristica che per pace intendono l’esclusione di ciò che non piace, con la conseguente lacerazione della realtà in amore e odio.

 

2. Non come la dà il mondo

"Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi" (Gv 14,27). Sono le parole di Gesù ai suoi discepoli all’ultima cena, poche ore prima dell’addio finale. C’è una pace che Gesù chiama sua, e un’altra che egli chiama del mondo. La linea che divide una pace dall’altra è sottile e solo una spada affilata può reciderne l’ambiguità. Disse: "Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra. Non sono venuto a portare pace ma una spada" (Mt 10,34). Queste due affermazioni di Gesù, così contraddittorie, disorientano chiunque intenda far uso del Vangelo per difendere una delle due posizioni in cui spesso, trattando di pace, siamo soliti separare e contrapporre gli uomini: quelli per la pace e quelli per la guerra. In una lettura non pretenziosa dei quattro testi del Vangelo, ossia non tendente a una interpretazione prestabilita ma semplicemente attenta al senso originale delle parole, appare evidente che Gesù non si colloca in nessuna delle categorie che noi oggi declamiamo. Occorre compiere un cammino a ritroso nella storia, fino a calarci nella posizione umana e religiosa in cui e da cui Gesù ha pronunciato il Vangelo, coinvolgendoci nello stesso contesto perché questo, sotto le infinite forme, si ripete nella vita di ciascuno. Senza l’immersione in una reale situazione storica, il pronunciare la parola pace può restare soltanto chiacchierio e frastuono. Non c’è una pace in genere; ma soltanto la pace resa propria nell’esperienza della propria vita, nel contesto in cui questa si svolge. Eppure, detto questo, la pace di cui il Vangelo è annuncio, quella pace così concreta, così contestualizzata, così personalizzata al punto che Gesù la dice mia, è la pace perseguita con il cuore religioso e non si esaurisce né coincide con la pace dei trattati che gli uomini del mondo stipulano fra di loro. La pace è come la propria casa: accudire alla sua struttura e al suo ambiente compete soprattutto all’impegno politico, sociale e culturale. Ma proprio perciò è cosa saggia conoscere e rispettare le grandi leggi della grande casa che è l’universo e la misteriosa energia e armonia che lo governa. Il respiro in grande dà energia per compiere ogni singolo passo della vita, dimorando nella fiducia. La pace grande annunciata da Gesù è sempre più grande di ogni singola pace; eppure non è mai accademica, teorica, tracciata a tavolino. Egli annunciava la pace percorrendo le vie impolverate della Palestina, fermandosi a ogni incontro, e la notte riposando sotto gli alberi. Chi non ha anzitutto percorso il tragitto faticoso verso la pace, ripete quel nome senza avvertirne il peso reale. È proprio questo dimorare nella pace concreta ed esistenziale che allarga la comprensione della pace, comunicando con tutti gli aspetti della vita, anche con quelli che superficialmente appaiono come opposti alla pace perché duri e sofferti. Così Gesù osò proclamare: "Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli" (Mt 5,10). "Il regno di Dio… è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo": testimonia Paolo, il discepolo di Gesù. La pace del Vangelo ri-lega la gioia alla sofferenza, la sofferenza alla gioia. Comprende la pace con il cuore religioso, senza con ciò parlare male della pace del mondo. "Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (Mc 12,27), rispose Gesù ai politicizzati farisei e sacerdoti del tempio. L’accesso al messaggio evangelico della pace passa attraverso la chiara e serena distinzione della pace religiosa e di quella politica, rimanendo che ambedue, per il loro specifico apporto, sono importanti per la pace degli esseri umani.

Quando gli uomini del mondo firmano un patto di pace politicamente vera, anche l’uomo religioso che attinge al Vangelo gioisce. Quindi evangelicamente ricorda i tanti rimasti esclusi dalla pace del mondo e riprende il lungo cammino di una pace più universale, dove, disse Gesù:, l’ultimo è il primo. L’uomo evangelico, unendosi al plauso della pace raggiunta dagli uomini, la destabilizza con il richiamo della pace del regno di Dio. "Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia!" (Mt 5,6).

 

3. La spada a doppio taglio

"Io sono il buon pastore (nel testo originale greco: il pastore quello bello). Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge" (Gv 19,11-12). Dall’offrire la vita o dal fuggire lontano in caso di pericolo, dipende se ciò che si fa sia mio oppure se sia mercenario. C’è il mercenariato del potere economico; ma ci può essere anche quello ideologico: ossia quando si sostiene una ideologia, che però in definitiva non è il proprio midollo. È mercenariato anche l’usare la religione per ottenere la pace politica o il suo contrario. Allora facilmente si baratta la pace con la sicurezza. "Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v'è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi (Eb 5,12-13).

Il cuore e il fulcro dell’annuncio evangelico abita qui: nella fede che la perfetta personalizzazione di ogni uomo corrisponda alla perfetta obbedienza alla volontà di Dio su di lui, come pure nella fede che la perfetta gloria di Dio corrisponda alla libera personalizzazione di ogni uomo. Questa è la fede: l’uomo obbedisce a Dio non quando pronuncia invano il suo nome, ma senza pronunciarlo, mette in atto il suo impegno. Questa è la gloria di Dio: Dio vive e opera nell'uomo senza mai sostituirlo. Gesù, in un momento particolarmente tribolato nel deserto, cacciò satana che lo tentava ad abusare della provvidenza divina, con un secco: "Non tentare il Signore Dio tuo!" (Mt 4,7). Né l’uomo, né Dio sono per se stessi; ma sono se stessi nella loro intima compenetrazione. La pace mette le radici nell’humus di quel rapporto misterioso e fecondo. Agostino ci lasciò una celebre frase che egli trasse dalla sua stessa esperienza: Dio è ciò che è più intimo a me che non me a me stesso. In altre parole: è il me stesso che mi supera! La pace del Vangelo si genera e cresce nello spazio in cui io, persona fisica e storica, comunico con ciò che in questo spazio fisico e in questo tempo storico, mi supera; mentre è più me di me stesso. In questa comunicazione è santa l’opera della spada a doppio taglio che penetra fino alla divisione dell’anima e dello spirito. È brandita dalla parola e la parola echeggia dalla scrittura eterna che obbliga sia l’uomo sia Dio a compiere la propria parte nell’amore. Sì, a questa scrittura eterna anche Dio si deve attenere. Gesù, quando Pietro per difendere il maestro dai soldati venuti ad arrestarlo sguainò la spada, gli intimò: "Rimetti la tua spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada. Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?" (Mt 26,52-54).

La tentazione che sempre ha allettato la chiesa è quella di sostituire la spada della parola con quella di metallo, imprimendovi il simbolo della croce. Il Vangelo della pace nella storia della chiesa è stato motivo di molte contraddizioni. La pace che dà il mondo verte sul benessere immediatamente palpabile; la pace del Vangelo percorre la via lunga dell’oltre le nostre vedute e contiene il germe della fatica e della lotta. Quello stesso lottare è già in pace, è pace! "Cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: "La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate". Poi, andato un po' innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell'ora. E diceva: "Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu" (Mc 14,34-36). Il Vangelo della pace annunciato da Gesù, condannato a morte dai rappresentanti legittimi della religione sotto il pretesto di mantenere la pace politico – religiosa di Israele, non coincide di certo con i programmi di pace proclamati dalle autorità religiose. Non coincide affatto con il pacifico riconoscimento della libertà di culto. Non è nemmeno un semplicistico "stare con il papa contro Bush".

 

4. Il dramma umano

Giovanni Paolo II ha avuto pronunciamenti che spesso hanno indotto a ritenere che la via alla pace dettata dal Vangelo sia la stessa del movimento pacifista; ma un minimo di memoria storica ci disincanta subito. Basti ricordare come Giulio II, il papa mecenate che promosse l’opera artistica di Michelangelo, Raffaello e Bramante, lui stesso in persona, vestendo la corazza, guidasse l’esercito pontificio contro i francesi che avevano invaso l’Italia. Basti ricordare il papa francese Urbano II che percorreva l’Europa esortando i popoli cristiani alle crociate per liberare il Santo Sepolcro. Non c’è chiesa cristiana che non abbia fatto ricorso alle armi per custodire o diffondere il Vangelo, giustificandosi con sottili sofismi. Fece uso delle armi l’impero di Bisanzio per proteggere la chiesa ortodossa, radendo al suolo i templi greci perché pagani; così pure Lutero si avvalse dell’alleanza con i principi protestanti per sradicare l’insurrezione dei contadini; i papi della chiesa cattolica incitarono alle crociate contro i musulmani. Un esempio emblematico: 17 febbraio 1600, Campo dei Fiori - Roma! Una delle menti più eccelse della nazione italiana, Giordano Bruno, veniva sacrificata sul rogo. Aveva creduto e predicato un universo infinito, ricco di infiniti centri, specchio di un’unica divinità, che regge provvidenzialmente dall’interno tutte le cose, i cui effetti devono essere infiniti se infinita è la sua potenza. Il verdetto firmato dal papa raccomandava di infliggere la dovuta pena all’eretico, usando clemenza e senza spargimento di sangue. Anche il mondo protestante plaudì alla condanna di Bruno.

So che anche nel Buddismo, spesso monaci e guerrieri si sono dato la mano! Sottolineo ciò non certo per gettare discredito sulla religione, ma piuttosto per contribuire alla retta comprensione del suo rapporto con la pace. Le religioni non sono state e non saranno mai un alibi alla faticosa via verso la pace. Penso che per non strapazzare il Vangelo riducendolo a citazioni scontate a favore dei moderni movimenti di pacifismo, oppure al contrario per motivare le tendenze al fondamentalismo religioso e culturale che pullulano anche all’interno della chiesa, ci si deve collocare nel cuore del dilemma sperimentato da Gesù di Nazareth. Il Vangelo è nato dalla domanda che Gesù quotidianamente percepiva dentro le fibre più intime della sua anima: Chi è Dio? O, forse più propriamente: Quale è il rapporto di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio? Lo spessore umano e storico di questa domanda travolge ogni risposta pretenziosa e di comodo. Gesù di Nazareth morì su una croce, condannato per motivazioni religiose che i sommi sacerdoti hanno connesso con il mantenimento della pace; proprio come sarà nel 1600 verso Giordano Bruno. "È meglio che un uomo solo muoia per il popolo" (Gv 18,14). I cristiani spesso sorvolano sul fatto che Gesù è morto in croce perché bestemmiatore contro Dio, così dichiarato dalla competente autorità religiosa fondata sulla tradizione biblica. Chiamato "figlio di Dio", morì con l’epiteto di "bestemmiatore contro Dio". Non si può comprendere il Vangelo di Gesù, a meno di sminuirlo, se non partendo dalla constatazione che Gesù è sia il figlio, sia il bestemmiatore di Dio. Il vecchio Simeone, prendendo in braccio il bambino che i genitori avevano portato al tempio, disse "Egli è qui per la risurrezione e la rovina di molti in Israele, segno di contraddizione" (Lc 1,34). Gesù percepiva che dalla predicazione del Vangelo consegue la conversione di alcuni e l’ulteriore allontanamento di altri. Era consapevole che nel cammino storico non si dà il: tutto va bene, tutto è bello, tutti siamo felici! La storia non è certo un giardino di pace idillica. L’Eden, il giardino dell’innocenza incontaminata, è stato chiuso e un angelo con la spada di fuoco impedisce a chiunque di farvi ritorno.

Gesù, segno di contraddizione come ogni esistenza storica, fu reputato "fuori di sé" (Mc 3,21) dai suoi di casa; fu cacciato dai suoi compaesani di Nazareth verso i quali pronunciò la frase rimasta famosa: "Nessun profeta è ben accetto in patria" (Lc 4,24). Sulla croce, prima di morire, gridò con voce forte: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mc 15,34). Queste sono le uniche parole di Gesù sulla croce secondo il più antico Vangelo, quello di Marco. Secondo Luca, Gesù aggiunse anche: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno!" (Lc 23,34); e "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito" (Lc 23,46). In queste parole di Gesù possiamo cogliere come egli fosse immerso nella corrente della storia e per lui il Vangelo della pace scaturisse dall’immersione in quei flutti. Fuori della storia quel nome è vacuo. Gesù, immerso nella corrente e scosso dai flutti, dimorava nella pace, nella profonda convinzione che la storia è la casa in cui egli sta con il Padre e i fratelli. Il perdono che Gesù insegna non è affatto il frivolo perdono del buono che dall’alto compatisce chi reputa inferiore a sé. Il perdono è la via maestra per far circolare la vena dell’esistenza. Il perdono non è affatto una virtù meritoria: è il respiro in cui si vive; è la vita in cui si esiste. Vale la pena rimarcare questo aspetto, perché oggi, anche nell’ambito del dialogo interreligioso, un quieto accontentarsi del modello originario della propria religione di appartenenza, potrebbe ridurre il dialogo a due vetrine contrapposte, ambedue con i propri cimeli. Credo che il dialogo interreligioso anzitutto sia l’unico dialogo religioso che ciascuno compie sondando il senso ultimo dell’esistenza e, sondando, incontra nuovi suggerimenti che gli vengono da una tradizione lontana da quella di appartenenza. Le ode e le sente vibrare dentro di sé, ne percepisce la forza che sconvolge il sistema finora pacificamente adottato. Come una spada a doppio taglio, il dialogo divide le giunture, riporta alla nudità, ripone le domande di fondo, mentre all’orizzonte si intravedono gli albori di un nuovo giorno.

La chiave che introduce nella comprensione della pace vissuta da Gesù e da lui predicata nel Vangelo è la sua intima adesione alla storia come volontà di Dio: quindi come sede di valore eterno e non di valore effimero, di senso e non di vacuità. "Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato… Allora ho detto: Ecco, io vengo … per fare la tua volontà" (Eb 10,5-7). Il mondo valuta il valore della storia contrapponendo avvenimento ad avvenimento, interesse a interesse, perché vede col criterio del mondo. Gesù viveva gli avvenimenti collegandoli uno a uno alla volontà divina e in quella volontà vi scorgeva il legame reciproco: quello sguardo fondava la sua pace. Il mondo invece, assolutizzando, divide e contrappone: da lì promana la violenza. Qualcuno ha interpretato il rapporto di Gesù con la volontà divina come un rimando a un tempo che ancora deve venire: quindi come se Gesù si sentisse in esilio nella storia e come se la storia fosse l’anticamera del tempo ultimo. Da questo terribile fraintendimento furono causate tutte le violenze perpetrate in suo nome dalle chiese cristiane.

 

5. Beati gli operatori di pace

Gesù percepiva il suo corpo come la dimora della pace. "Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato… Allora ho detto: Ecco, io vengo … per fare la tua volontà". I sacramenti della grazia che a lui risalgono sono tutti corporei: l’acqua che lava il corpo logoro e sudato, il pane che lo nutre, il vino che lo rallegra, il balsamo del crisma che lo profuma, l’unione dell’uomo e della donna come il sacramento dell’amore di Dio verso la creazione, l’unzione con l’olio per compiere la funzione a cui Dio chiama ciascuno. È in questa funzione importante del corpo che il Vangelo di Gesù, incarnazione di Dio nella storia, e la via dello Zen che pare condurre verso la direzione opposta negando ogni consistenza alla storia, si possono incontrare in modo fecondo nella vita dell’uomo moderno. Io lo sperimento quando, dopo aver praticato lo zazen, celebro l’eucaristia: il mio corpo, introdotto nel fondo silenzioso del suo esistere, fa comunione più profonda con il corpo di Cristo nel cibo che lo nutre e al suo sangue nella bevanda che lo disseta. Lo percepisce e lo celebra nel convivio di pace cosmica che è l’Eucaristia. "Prendete e mangiatene tutti… Fate questo in memoria di me", comandò ai discepoli.

Il presupposto dogmatico che Gesù è il Figlio di Dio incarnato nella storia umana, quasi un assioma rivelato dall’alto prescindendo dal dramma della storia, ha sminuito assai il fascino umano che l’uomo Gesù proietta nell’avventura esistenziale degli esseri umani. Enfatizzando la sua incarnazione, paradossalmente lo si astrae dalla vicenda della carne, facendone più un automa spirituale ed extraterrestre sceso sulla terra a consolare il dramma umano, più che un uomo vero in cui il dramma umano si attua senza alcuna amnistia. I discepoli credettero a ciò che egli insegnava e lo seguirono; ma "Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti" (Gv 20,9). Avevano accettato l’incarnazione del Logos divino nella realtà storica, ma solo come maestro, come guaritore; non come destino a morire e a risuscitare dai morti. Accettare la natura di morire significa abbandonare ogni mistificazione. Molti che si dicono cristiani sono, come gli apostoli, discepoli di un Cristo che non muore, o che se muore lo fa solo come atto di bontà dall’alto, come atto virtuoso, come un samurai spirituale; e non come la propria natura e il proprio destino.

È evidente, salvo pretenziose mistificazioni, che Gesù non era un pacifista come oggi si intende. Non lo vediamo a gridare slogan contro i sistemi politici. Nelle sue parabole usò il paragone della guerra, come un dato di fatto, senza mostrarsi scandalizzato: "Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda un'ambasceria per la pace. Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo" (Lc 14,31-33). Questo insegnamento, che Gesù pronuncia alla fine della parabola dei due re in guerra, ci guida a comprendere la visione della pace che in lui era comunque fortissima. Per Gesù la via della pace è la via della rinuncia totale, lungo la quale l’uomo risuscita dai morti alla vita nuova. La pace non è la sistemazione della vita vecchia, ma è la risurrezione a vita nuova. Gesù sulla croce pregò il perdono universale: "Padre perdonali perché non sanno quello che fanno". Queste parole le ha elevate un condannato a morte appeso alla croce. Le ha pronunciate dal pozzo del dramma umano, così profondamente accolto da non riuscire a odiare chi lo tormentava, perché conosceva la natura umana con le sue contraddizioni e la grazia che in ognuno può trasformare il male in un bene più grande. Nei suoi aguzzini vedeva il loro volto risorto. Quel non riuscire a odiare è il fondo della pace! Da quelle profondità scaturiva l’energia con cui l’uomo Gesù gridò contro i farisei, tacque davanti a Erode, accarezzò i bambini, frustò i venditori del tempio, curò i malati, difese l’adultera dalla pena di morte, abbracciò la croce salendo al Calvario e stese il suo corpo su di essa. La pace di fondo fu il vigore della sua testimonianza. Sostenuto da una visione di pace così vigorosa, mai ricorse al potere di Erode o di Pilato a pro del Vangelo, né mai si consolò nella pia immaginazione di un mondo in cui non ci fossero contrasti. Lui, segno di contraddizione, era pace nella contraddizione.

"Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio".

 

 

 

 

 

Un dovere possibile.

Libertà è anche libertà dall’appartenenza come identità

Mauricio Y. Marassi

 

 

 

 

Quanto segue è il contributo presentato alla tavola rotonda "Universalità e identità religiosa fra testimonianza e rispetto: è possibile raccontare sé stessi senza irritare l’altro?", svoltasi a Lodi nel giugno di quest’anno, a cui hanno presenziato rappresentanti di diverse religioni con i rispettivi interventi.

 

 

Apparentemente il problema è molto semplice: una religione, attraverso, i suoi esponenti, quando si racconta ha solo tre esigenze: mostrare la sua peculiarità, ovvero costituirsi come identità. Presentare il suo programma, ovvero gli scopi, gli obiettivi o le prede, per usare un termine inusuale, che quella religione promette di raggiungere. Terzo, mostrare, spiegare gli strumenti attraverso i quali quelle mete possono essere raggiunte. Naturalmente vi sono altre cose ma riguardano ambiti che, per quanto importanti restano marginali in senso religioso, ovvero la storia delle idee e la loro evoluzione, ossia le possibilità aggiuntive, sul piano umano, che quella religione offre ai suoi aderenti ed al mondo.

Quindi, teoricamente, visto che ciascuna religione non ha bisogno che di definirsi e proporsi, non si vede come questa operazione possa offendere o irritare. Questa ovvietà, però, è valida solo quando e se, per così dire Bruto è un uomo d’onore, ovvero quando in un modo o nell’altro non entri in gioco l’esclusività, l’applicazione di due pesi e due misure.

Escludere significa chiudere fuori ed è un atto arbitrario qualsiasi siano le motivazioni che poniamo alla base di questa esclusione. Si tratta di arbitraria esclusione delle possibilità alternative anche nel caso in cui io accampi un presunto bene superiore, quando cioè il mio intento sia salvifico: io ti propongo di essere buddista non per mia personale gloria o vantaggio, ma perché così sarai davvero salvo, cosa che non avverrebbe con quei semibarbari dei cristiani, degli ebrei o dei mussulmani.

Dall’escludere, lo abbiamo appena visto brutalmente, nasce facilmente la denigrazione (o l’autocelebrazione che è il suo volto presentabile) affinché io, la mia parte abbia il sopravvento.

Questo è tanto più facile quando diverse religioni esistano da tempo nell’alveo di una stessa cultura, ossia nella medesima area geografica, per cui, almeno in certi casi, l’espansione dell’una potrebbe coincidere con la contrazione e quindi il rischio di estinzione dell’altra.

Tuttavia la preoccupazione che una religione si estingua a causa della completa occupazione degli spiriti da parte di un’altra, è essenzialmente un problema sovrastrutturale, aggiunto dalla voglia di crescere e durare direbbe forse Canetti, ovvero dalla voglia di trasferire nella quantità e nella durata nel mondo ciò che con queste caratteristiche nulla ha a che vedere. Per di più la peculiarità stessa di una religione che soddisfa, dandogli vita, un aspetto più di un altro della spiritualità dell’uomo, è garanzia della sua sopravvivenza in quanto cibo necessario. Una maggior offerta di insalata non diminuisce se non marginalmente il consumo di carne o di pesce. Ma anche dovesse avvenire, be’, esprimendoci in termini teisti potremmo dire: tutto ciò che accade è per maggior gloria dell’Eterno…

 

Presentare, raccontare sé stessi, da parte dei membri di una religione senza creare direttamente conflitti con le altre religioni non solo è un dovere ma è un dovere possibile. Ed il motivo principale di questa convinzione è che la concorrenza, la competizione sia molto utile, direi necessaria, per la buona salute di ogni religione. Nelle cose dello spirito e per ciò che riguarda l’ambito nel quale si condivide la ricerca del bene, il liberismo è un ottima cosa. Tanto quanto è pericoloso nell’altro ambito, quello materiale, dove la crescita del prodotto a mio avviso non è più importante della sua distribuzione.

Non credo sia difficile capire perché dico che il liberismo spirituale, inteso come libera e piena concorrenza tra religioni, sia una buona cosa. Basta pensare all’insorgere dei difetti classici di chi agendo in regime di monopolio non ha concorrenza: statalizzazione, rallentamento e arresto della ricerca, scarsa o assente autoidentità, ripetitività e banalizzazione degli atti della religiosità una volta che siano norma senza alternative… insomma l’assenza di concorrenza può portare anche alla morte spirituale di una religione o, quantomeno al suo declino. Il confronto, la concorrenza mantiene in piena salute una religione e la fa durare nei secoli. Sia che avvenga sul piano delle risposte alle esigenze della vita dell’uomo ma soprattutto e specialmente sul significato di santità, ovvero di realizzazione sul piano del qui e ora delle promesse religiose.

Ci sono altri motivi che mi convincono riguardo alla possibilità di offrirsi senza irritare, di concorrere senza escludere. Storicamente il buddismo nell’arco di 2500 anni si è distinto per non essere mai stato coinvolto, né direttamente né indirettamente in alcuna guerra né in alcun conflitto che non fosse conflitto interiore.

Quello che a mio parere ha permesso al buddismo, e ritengo potrebbe altrettanto permetterlo alle altre religioni, di tenersi fuori dai guai è la sua enorme duttilità di inculturazione. La capacità di inculturazione, ossia di assumere pienamente le forme culturali ed espressive del Paese o della cultura ospitante, è possibile a tutte le religioni universali, ovvero a tutte le religioni aperte almeno a tutto il genere umano. Dico almeno al genere umano perché, per quello che riguarda il buddismo l’apertura di universalità è verso tutti gli esseri viventi, animali e vegetali compresi. Secondo un’altra visuale, diciamo così idealistica l’accoglimento nel mondo della redenzione è aperto a tutto l’universo. Comunque, a parte le disquisizioni riguardo a se anche le pietre vadano in paradiso oppure no, per religioni universali intendo quelle che non fanno questioni fondamentali di un colore invece di un altro, di un vestito o di un altro, di un costume di vita o un altro ma mirano a ciò che l’uomo su questa terra non ha e non avrà mai nella sua completezza: l’infinito, l’eterno, la salvezza definitiva, la beatitudine, il paradiso, l’unione con Dio, la dissolvenza nella perfezione, il nirvana o qualsiasi altra meta che non abbia possibilità di essere realizzata utilizzando i materiali, le sostanze di questo mondo. Ossia le forme mondane, comprendendo in queste forme tutto quello che l’uomo può stabilire.

Quando in una religione la parte centrale è occupata dalla ricerca dell’assoluto, dall’approfondimento del rapporto tra me essere mortale e il richiamo dell’infinito, quando non l’occuparsi dei costumi degli uomini ma dell’infinito bene è il cuore di una religione, allora l’inculturazione è possibile, addirittura scontata.

Così sarà possibile concorrere invece di escludersi a vicenda, perché puoi essere accolto come cristiano o buddista o islamico o ebreo in una società civile che permette e regolamenta il divorzio, che regolamenti la poligamia, che non stabilisca se bisogna nutrirsi di carne o verdure, o che si preghi rivolti a est o a ovest. Poi se il mio essere ebreo, o buddista o islamico o cristiano mi porterà a maturare delle forme di vita che permettono di vivere con più aderenza la propria scelta religiosa, bene.

Avverrà allora che la religione si esprime attraverso di me, modellandomi ma non esautorandomi della mia cultura e dei suoi sapori perché non dovendo travestirmi per appartenenza, allora le mie scelte, benché selettive, si estrinsecheranno con le modalità che sono già mie. È un processo inverso rispetto a quello di mutare la forma per segnare l’appartenenza e, soprattutto è un processo legato alla mia persona quindi alla mia cultura e dimensione.

Nell’Occidente europeo ed in buona parte del Vicino Oriente, da sempre, sono le chiese che ci dicono come ci dobbiamo comportare, sia nella cabina elettorale che nel letto coniugale. Questo è dovuto anche e soprattutto alla grande debolezza di una cultura laica che quando ha provato ad approfondire principi etici o morali indipendenti dalle chiese ha rischiato il rogo o l’anatema. Tuttavia la sfida dell’oggi alle religioni sta proprio nel lasciare davvero a Cesare, inteso come metonimia della laicità, tutto ciò che gli compete, ovvero tutto meno la via di salvezza sovrumana.

Il buddismo, mantenutosi fedele alla sua vocazione iniziale in ogni epoca ed in ogni cambio di geografia ha potuto cambiare tutto, proprio perché nulla cambia quando muta solo un costume o un’abitudine. Questo ha portato a due risultati principali. Il primo, visibilissimo in Giappone, è di difficile comprensione per noi occidentali nei quali lo spirito integralista è in qualche modo sempre presente, magari solo come opposizione intransigente ad ogni compromesso bollato superficialmente con il termine di sincretismo se non di eresia. In Giappone accade facilmente che in una famiglia, i riti dei defunti siano officiati al tempio buddista e così che in casa vi sia un altarino buddista. Ma il battesimo o il matrimonio vengono celebrati nella chiesa cristiana e le ricorrenze annuali sono festeggiate con i riti Shintō, la religione autoctona giapponese e accade che, contemporaneamente, in giardino vi sia una pietra o un albero consacrati al culto shintoista. Così pure è comunissimo vedere all’interno di un tempio o un monastero buddista una pietra o un albero o un altarino consacrati al culto shintoista, senza che questo né disturbi né conduca a doversi schierare. E i visitatori del tempio, passando davanti a quel luogo, lo saluteranno con la gestualità appartenente al Shintō, riservando agli altri luoghi del monastero gli atti o gli atteggiamenti praticati nell’altra religione, e nessuno si sentirà lacerato o omologato per questo.

Siamo abituati che ad un costume corrisponde una religione, ossia che una religione ha un solo costume. Ma in questo modo ci neghiamo la ricchezza della varietà e il dinamismo della concorrenza anche a livello popolare, nella sequela dei riti consolatori, praticamente indispensabili in una società che di fatto è sempre composita. Neghiamo la concorrenza perché neghiamo la libera coabitazione delle religioni.

In ultimo una peculiarità che è venuta esplicitamente alla luce solo a proposito del buddismo, ma che ritengo anch’essa parte legittima di tutte le religioni universali. Il meccanismo che ho rappresentato all’inizio, ovvero i tre aspetti del come una religione si racconta: individuazione, mete da raggiungere e mezzi per raggiungerle sono all’interno di un unico fenomeno che solitamente si chiama testimonianza. Ora, la testimonianza è l’aspetto più difficile di tutta la faccenda. Quello che voglio dire è che una religione può testimoniare di sé in ragione della sua produzione di santi, ovvero sono i santi i suoi testimoni.

Però nel buddismo non c’è un papa che possa dare il sigillo di santità e, soprattutto una forma che possa essere a priori stabilita o garantita come immagine della santità. Per esempio nel cattolicesimo vi sono dei requisiti fissi: dai prodigi alla condotta quotidiana, si escutono testimoni e se i conti tornano il santo è fatto. Per il buddismo non esiste una forma particolare di santità. Ed è proprio qui che entra in gioco lo zen. Ovvero lo zen inizia dove tutte le forme preordinate non hanno più senso. In termini grezzi possiamo dire che lo zen è il fatto religioso stesso. E i fatti della vita, qualsiasi essi siano, non sono eclatanti, non hanno coloriture particolari o appartenenze segnate, marcate da fogge determinate. Ecco allora che un autore cristiano, il monaco trappista Thomas Merton, nel suo libro Lo zen e gli uccelli rapaci ha potuto dire: Lo zen è separabile da ogni matrice religiosa e potrebbe fiorire sul terreno delle religioni non buddiste o di nessuna religione. Spero possiate assaporare una dichiarazione come la precedente: è separabile da ogni matrice religiosa e può fiorire sul terreno di qualsiasi vera religione. Ha un significato dirompente, significa libertà allo stato puro. Ma Merton va oltre, infatti dice: tutte le religioni si incontrano al vertice. Perdoniamo a Merton l’errore di reificazione di un punto d’arrivo e vediamo solo quello che ci vuol comunicare: proprio laddove qualcuno potrebbe pensare di identificare la massima specificità e quindi diversità invalicabile tra le varie religioni, ecco che il sancta sanctorum che ciascuna custodisce più gelosamente, quando è vita vissuta, non potendo che essere stato di purezza priva di ogni caratterizzazione voluta, diventa l’unificazione perfetta. Al vertice, nelle parole di Merton.

Così, rendere testimonianza dell’effettiva efficacia della propria fede non può che condurre là dove già i santi delle altre religioni ci attendono. Non conosco a sufficienza l’ebraismo per poter sostenere che anche la mistica ebraica possa condividere questo punto di vista ma per quanto riguarda l’Islam ed il sufismo vi è la tensione verso il fanà che è l’estinzione dell’io sociale e culturale costituito dalle forme e dalle consuetudini religiose, estinzione che prelude alla costruzione del bagà l’uomo nuovo, libero da forme precostituite. Per ciò che riguarda tutto il cristianesimo basti ricordare le parole di san Paolo nella lettera ai Galati (2, 20): "Non son più io che vivo ma Cristo vive in me" e chiedersi se vi è o vi deve essere qualche forma culturale obbligata, magari occidentale in cui Cristo vive nelle mie sembianze, o se questo è possibile anche a chi abbia la pelle gialla, mangi con le mani o si vesta con la tunica, sia divorziato o abbia due mogli.

Per concludere, sia nel caso in cui guardiamo anche a quella parte della religione che somministra i riti consolatori e i riti di passaggio, sia che leghiamo al termine religione solamente ciò che è sua stretta prerogativa, esiste la piena possibilità di rispondere appieno alla libertà di culto. Senza la reciproca difesa di questa libertà riprende significato la discriminazione ed il carcere o il patibolo come massima attuazione della discriminazione, per allontanare, annullare tutto ciò che vive fuori dal mio: mio controllo, mia identità, mia cultura.

Discriminare, se visto alla radice, significa infatti voler escludere Dio, affinché non mi distolga dal "mio".

 

 

 

Canzoniere

 

Cantares

Antonio Machado

 

Presentiamo alcuni versi del poeta sivigliano Antonio Machado y Ruiz (1875-1939) in cui traspare un intenso e toccante dialogo con quell’altro da noi - totalmente altro - cercato sino al punto nero della disperazione; quell’altro che a volte si cela, altre si fa scorgere, come giocasse a rimpiattino, sino al punto da avvertire che si trova più vicino a noi di noi stessi.

 

 

 

 

Signore, la vita mi stanca,

ho rauca la gola

dal gridare sui mari,

m’assorda la voce del mare.

Signore, la vita mi stanca

e l’universo mi soffoca.

Signore, mi hai lasciato solo,

solo, da solo a solo col mare.

 

* * *

 

O tu ed io stiamo giocando

a rimpiattino, Signore,

o la voce con cui ti chiamo

è la tua voce.

* * *

 

D’ogni parte ti cerco

senza trovarti mai,

e in ogni parte ti trovo

solo per andarti a cercare.

 

Voci

Vedi rivista "La stella del mattino"

 

 

 

 

Lettere

 

 

Lettera aperta alla redazione

 

La mia vita, come quella di molti credo, è composta in gran parte di fatti e gesti che si ripetono, giorno dopo giorno, molto simili l’uno all’altro; e anche della difficoltà di stare nella quotidianità facendo esperienza del suo ripetersi anziché utilizzare le cose di tutti i giorni come spazi liberi per il pensiero di vagare altrove, rincorrendo realtà appartenenti spesso solo alla fantasia o alla memoria.

Ne La cucina scuola della via di Doghen leggo: "se sei il tenzo, devi sapere che cuocere il riso è come fare zazen e fare zazen è come cuocere il riso: il coperchio della pentola è come la tua testa, devi fare attenzione alla valvola della pressione che deve restare libera, così come devi lasciare aperta la valvola che decongestiona la pressione dei tuoi pensieri. L’acqua con cui risciacqui il riso e lo rendi puro e commestibile, è come la vitalità che sgorga in te e scorre nel tuo corpo, che puoi usare per lavare la tua vita e renderla pura"

L’altro giorno avevo da fare il pane (fra le tante cose da fare, questa è una di quelle che più mi piace, perciò la cito come esempio), sentivo che in quei movimenti era coinvolta tutta me stessa, dalla pianta dei piedi ai capelli, insieme a mani, acqua e farina, nel movimento cadenzato del girare e rigirare la massa di pasta, insieme ai profumi delicati che mi salivano su per le narici, insieme ai suoni che entravano dalla finestra…Trenta secondi, forse meno e, dopo non so quanto tempo, mi accorgo di non essere stata più lì, portata via da decine di pensieri di scarsa importanza mentre automaticamente le mani fanno il loro lavoro. Mi infastidisco di me stessa, osservo mentre lavoro ma di nuovo me ne vado, e così di seguito. Il pane si fa comunque ed è buono lo stesso: unica consolazione alla frustrante consapevolezza di stare pochissimo in quello che faccio.

L’esperienza che ho fatto dello zazen mi ha portato a sentire che per avere senso quel fare, quel modo d’essere doveva essere nella mia vita di tutti i giorni, più che una pratica quotidiana dello stare semplicemente seduti; tendere ad avere la stessa qualità di presenza e pulizia nelle cose normali che è necessario sempre fare, perché lo zazen non è uno spazio privilegiato dove la parte "migliore" si dedica alla ricerca spirituale, ma che nulla delle cose belle che ci piace leggere sui libri dei maestri è vera, né ha senso, se non entra ed è in tutto quel che io sono e faccio tutti i giorni, dalle relazioni con i miei familiari, amici, persone, al lavoro domestico e a tutte le altre occupazioni, o quantomeno ci prova e mostra tutte le contraddizioni.

Allora fare zazen è davvero come cucinare il riso e viceversa, perché in entrambi i casi, tranne per qualche manciata di secondi in tutta la mia esistenza, ciò di cui mi rendo conto è che bene o male sono sempre altrove. E’ una trappola? Siamo fatti così e l’unica cosa che possiamo fare è saperlo?

E’ una vita che, per strade diverse, mi confronto con questo fatto dell’attenzione, dell’osservare, dell’essere presenti senza aver già prepensato tutto di tutto. Quelle frazioni di secondo in cui ho sentito oppure ho visto son rimaste in me nonostante il passare degli anni. Allora è un gioco dentro di noi che dura fino alla fine?

Ma la vita è enormemente più ricca e nuova in tutto ciò che è sempre uguale tutti i giorni quando per un attimo ci sono anch’io insieme. (Ammiro le mie mani che continuano a fare quel che sanno fare, e fanno le mani mentre io me ne vado alla ricerca di pensieri più gratificanti. Vorrei essere solo mani.)

E’ lo zazen esercizio quotidiano alla presenza, allo stare di fronte a tutto quel che c’è, se lo si prende sul serio (almeno per noi laici che non viviamo in un monastero) ? E la vita allora, non è già la vita, precedente lo zazen e qualsiasi altra pratica, la stessa cosa, se la si vive sul serio?

Ricordo di avere ascoltato più di una volta l'indicazione, durante lo zazen, a lasciare scorrere/andare tutto quello che la mente insegue e presentifica e riportarsi lì, semplicemente seduti, davanti al muro bianco, con tutto quel che c'è, e ripeterlo di nuovo e di nuovo. Le stesse indicazioni mi pare vengano date in un libretto di Uchiyama Roshi corredato, se non ricordo male, anche di figurine su come stare correttamente seduti.

Se tutto l'universo è in una foglia di insalata, oltre che in ogni altra cosa che vive, noi compresi, e in tutto ciò che accade, sia che noi lo si chiami bello/buono o brutto/cattivo (e questa è una mia intima convinzione, al di là delle parole e dei se) riportarmi lì è l'unica possibilità che mi sembra di avere per accettare che tutto quel che c'è esista senza vincita né perdita di un aspetto sull'altro di ciò che nell'esperienza della vita si mostra in maniera polare: luce-buio, gioia-dolore, male-bene...

Facendo l’esempio del pane intendo dire: se la mia mente se ne va in ciò che tutto sommato mi piace e potrebbe essere anche gratificante, è facile immaginare cosa faccia durante situazioni sgradevoli. Nello zazen ad es. l'esperienza che ho fatto riguardo all'immobilità e al dolore delle gambe è strettamente legata ad una condizione della testa/mente più che del corpo in quanto tale.E’ molto di più il disagio, la fatica e - entro un certo limite - anche il dolore che il corpo può accettare se non è la mente ad opporre resistenza.

Non voglio affermare: mi sento frustrata dalla mia mente che non mi permette di fare esperienze gratificanti (per fortuna ci sono anche quelle!) ma esistono pure eventi che mi potrebbero toccare, dei quali mi è difficile il solo pensiero, anche se so che qualora accadessero dovrò bene o male affrontarli…

C’è una poesia in cui Ryokan, in maniera semplice e pulita, senza nulla enfatizzare, ricorda eventi della sua vita, presentifica la morte imminente e lascia che le lacrime bagnino il suo vestito. Quelle lacrime a me paiono raccontare la possibilità di tenere unito in sè tutto quello che la vita porta, che altrimenti separa, manda in pezzi, distrugge. Mi pare che questo sia il modo religioso di stare nella vita.

Noi siamo fatti come siamo e penso che forse una giornata vissuta nell'ossessione di essere costantemente presenti sia pura follia, però delle volte ho proprio la sensazione che il nostro cervello abbia preso il sopravvento rispetto agli altri organi di percezione che concorrono all'espressione autentica di tutto quel che siamo.

Spesso ho sentito dire che zazen è libertà dalla tirannia della presenza e da quella della fuga perché siamo comunque sempre dove siamo, negli infiniti modi in cui il nostro essere si manifesta. Io dico va bene, è vero, ma mi sembra che a parole sia sempre facile spiegare e per la nostra mente tutto sommato sia sempre facile capire; però poi come sarò io quando la vita mi metterà di fronte a quel dolore che spacca il corpo a pezzetti ?

Se lo zazen non aiuta a con-tenere tutto insieme, e coscienti o non coscienti tutto va sempre bene, allora come fa a essere nutrimento alla fede nella vita? Forse la risposta a tutti questi interrogativi sta nel risedermi davanti a un muro bianco tutte le mattine?

 

SPB

 

Risposta

 

Mi viene recapitata personalmente, oltreché genericamente come ad ogni altro membro della redazione cui è diretta, questa lettera di S., con l'invito, velatamente esplicito, a redigere una risposta. Non indago sui motivi per cui sarei il più indicato, fra i destinatari, a occuparmi della risposta: la "lunga abitudine" allo zazen non fa certo di me un esperto, né la mia qualifica di monaco e missionario zen "garantisce" la qualità e l'adeguatezza della mia eventuale risposta. Anzi: l'esser titolato e come tale prescelto a rispondere, solletica la tentazione alla risposta "giusta", elaborata all'ombra dell'abito e della dottrina, più che alla luce dell'esperienza immediata e personale. Per di più, il fatto che io conosca per diretta frequentazione la persona che scrive e alcune cose della sua vita, come accade fra amici, se da una parte aumenta il mio interesse e la mia partecipazione alle questioni da lei poste, dall'altra insidia appunto il mio "disinteresse", e mi può indurre a inclinare verso una risposta "su misura", inadatta perciò a una veste pubblica, che possa, eventualmente, essere di qualche utilità per i più diversi lettori.

Eppure, nonostante questi doverosi distinguo e le numerose virgolette, mi assumo volentieri la responsabilità di una risposta: le domande che S. pone, e quelle che implica e sottende, non sono infatti, se non in minima parte, retoriche, e dunque attendono risposte, non fosse che per trovare in esse una ragione in più al riproporsi come domande vere.

Zazen è la rappresentazione di un processo di conversione permanente. Dico rappresentazione nel senso che rende presente e manifesto quel processo così come una rappresentazione teatrale invera sulla scena un testo o un canovaccio (se si recita a soggetto). Questo processo di conversione ha un carattere tanto puntuale che disteso, tanto semplice (singolare) che complesso (poliforme): è fatto cioè di singoli momenti immediati, compiuti e a sé stanti, che complessivamente disegnano l'immensa complessità di ciò che si definisce la Via. È conversione perché implica il ri-orientamento di tutto il proprio essere nella direzione di quel flusso che i singoli attimi senza tempo compongono, ed è permanente perché l’attimo precedente non garantisce del successivo, in quanto precedente e successivo non sono che espedienti descrittivi, retaggi di immagine su una retina più "lenta" degli eventi che vede.

Ciò che qualifica lo zazen come veicolo di salvezza, non è la presenza consapevole più che non sia l’oblio incosciente. Zazen appoggia su un solo fatto e solo esso verifica (rappresenta): che io sono sempre dove sono con tutto me stesso nel momento di vita che ora è, senza che vi sia né altro ora né altro qui né altro sempre né altro ovunque. In altre parole, che il me stesso che ora è qui, è tutt’uno con tutto il tempo e tutto lo spazio, proprio mentre vive questa singolarità che chiamo "attimo", "presente", "io", "vuoto" a seconda dell'aspetto che cerco di esprimere a parole. Zazen è sedersi in questo "occhio di Buddha", che è occhio di fede quando non vede e occhio di esperienza quando e fin dove riesce a vedere. In questo senso la mia frustrazione o la mia soddisfazione nel fare zazen sono del tutto irrilevanti.

Tu ci fai partecipi di una tua esperienza assai interessante che ti ha coinvolta nel fare il pane e la cui traccia ti ha spinta alle considerazioni che scrivi. Hai scelto, non per caso, un’esperienza che ti piace per denunciare un frustrante funzionamento della mente che non ti consente una condizione di continuità di presenza consapevole a ciò che fai. Questo mi ha suscitato un accostamento con l’esperienza che io faccio quasi quotidianamente, da alcuni mesi e presumibilmente farò per altri lunghi ancora: esperienza speculare e opposta a quella tua. In coda sulla tangenziale di Milano, inscatolato fra inscatolati per circa due ore al giorno, andata e ritorno, tutti nelle nostre vetturette, nei nostri itinerari, nei nostri pendolari destini, godo sinceramente della facoltà della mente di andare via e di portarmi altrove, sia la radio o il concatenarsi dei pensieri il veicolo del viaggio interiore, lasciando agli automatismi vigili del mio sistema biofisico di condurmi alla meta del viaggio automobilistico in uno stato di presente assenza: di questa possibilità di aprire la valvola che decongestiona i miei pensieri, altrimenti irosi, lasciandoli danzare "altrove", io sono grato. Ricordo spesso, in quei frangenti, una deliziosa novella di Pirandello, "Il treno ha fischiato..." al piacere della cui lettura rimando volentieri chi vorrà trovar dette in modo molto più efficace alcune delle cose anche qui scritte: tra l'altro la novella rende conto di un'esperienza che molti non si periterebbero (forse incautamente) di definire un'esperienza zen.

Tu chiami frustrazione la non capacità di stare dove sei solo perché "dove sei ti piace" e non te ne vuoi perdere neppure un pezzetto: io chiamo liberazione (non libertà) la capacità di vagare con la mente, solo perché "dove sono non mi piace". La differenza sta qui, nel tuo mi piace e nel mio non mi piace, perché questo è il mondo della differenza, e non nella presenza o nell’assenza riferita allo zazen, perché quello è il mondo dove non alberga "differenza" alcuna.

Il fatto è che il tuo momento di "grazia" non fa sì che tu sia dove sei più di quanto il mio momento di "evasione" mi faccia essere altrove da dove sono. Zazen si pone su un altro piano da entrambe le alternative: è libertà (questa sì) dal bisogno tanto di "essere qui" quanto di "andare via". È libertà dalla tirannia della presenza e da quella della fuga. Del resto, lo sappiamo, sono comunque dove sono. Sono semplicemente infiniti i modi dell’essere qui: aperto lo scrigno del tesoro, io pesco liberamente e a piene mani, come dice Doghen.

Tieni conto che la pena del "sapersi esserci" può essere infinita, nei casi della vita: zazen, che trae la sua forma dall’istanza fondante del buddismo, la fine del dolore, non può essere l’apologia della presenza, così come non lo è della fuga. Zazen si pone e ci pone qua, dove presenza e assenza non sono che giochi di specchi.

La conversione di cui parlavo è proprio questa: che la dove tu dici "fare zazen è davvero come cucinare il riso, perché in entrambe i casi, tranne per una manciata di secondi in tutta la mia esistenza, ciò di cui mi rendo conto è che bene o male sono sempre altrove" sia detto "fare zazen è davvero come tutte le altre attività di ogni attimo della vita, perché, quale che sia la cosa di cui mi rendo conto, io sono sempre qui, negli infiniti modi in cui il mio essere qui si manifesta".

Zazen nutre la fede che il mio sapermi qui o il mio perdermi altrove sono solo giochi di specchi, lusinghe di riflessi, perché io qui sono da sempre e per sempre. Diamo da mangiare al nostro corpo, ai nostri figli, al cagnolino e al gatto, ai pesciolini: come non daremmo da mangiare ogni giorno alla nostra fede? Quindi sì, dovresti tornare a sederti davanti al muro tutte le mattine. A patto che quel "dovrei" non sia il segno di un imperativo morale, dell’attesa di un beneficio, ma la molla a compiere un gesto semplice, gratuito, immotivato, come tanti che fai ogni giorno, senza chiederti perché. Zazen, diceva un mio caro maestro, è come un amore, una malattia, un'assuefazione: chi ne viene catturato lo è a modo suo, ma sempre di essere catturati si tratta.

Per cercare di essere più esplicito e chiaro, se ci riesco, mi permetto di anticipare alcune tue possibili obiezioni, che se anche tue non fossero potrebbero però sorgere in chi legge queste riflessioni. Abbiamo sempre detto, seguendo le preziose e geniali indicazioni di Uchiyama Roshi e della scuola di Antaiji in materia, che "aprire le mani del pensiero e tornare alla freschezza della realtà della vita" è la modalità principe dello zazen. Ora può sembrare che io dica che invece tutto sommato è indifferente, per quanto riguarda lo zazen, cosa io faccia di me stesso quando sono seduto. Non è questo ciò che intendo dire. Intanto va detto che lo zazen dello star seduti ha una forma (e dunque anche una modalità) differente dallo zazen di quando fai il pane, o guido l'automobile o qualsivoglia altra attività: lo zazen dello stare seduti è per definizione solo stare seduti. Ora, nel cercare di stare solo seduto io mi accorgo di due cose: una, che non riesco mai a stare solo seduto, perché in un modo o nell'altro me ne vado sempre via di testa, e quindi la mia attività è quella di "tornare" lì seduto; l'altra è che sono comunque sempre lì solo seduto, ovunque io vada col mio pensiero: e che queste due cose sono entrambe vere, per la parte che loro compete, e pur contraddicendosi non si elidono a vicenda. Anzi, una cosa senza l'atra non sussiste, perché che via di salvezza sarebbe quella che ti fa solo vedere il fatto che sei sempre altrove da dove dovresti essere, o che non ti dà la possibilità di sapere che sei davvero dove devi essere, anche se ti sembra di star sempre altrove? Zazen da seduto è il paradigma di come funziona quella che Uchiyama Roshi chiama la realtà della vita: in quanto paradigma è riferibile a ogni altro aspetto della vita quotidiana, e funziona quindi come cartina al tornasole.

Il dilemma che si pone sempre è, mi pare, riducibile a questo: se tutto è al suo posto, ora e sempre, qui e ovunque, e questa è la fede da cui zazen trae il suo senso, che bisogno c'è di fare zazen, di nutrire la fede, di conversione ecc...? La risposta è che la domanda è mal posta, perché mischia due piani non commensurabili: infatti la realtà in cui tutto è al suo posto e in cui quindi zazen trova il suo senso naturale è la realtà libera dal bisogno, da qualunque forma di bisogno, e dunque non ha nessun senso chiedere che bisogno c'è là dove non c'è bisogno. Tutto quello che ti so dire è che una giornata con lo zazen è differente da una giornata senza lo zazen, e chi lo sa lo sa. Un po' come (ma le metafore valgono quel che valgono) una giornata con un sorriso è differente da una giornata senza un sorriso, così, senza perché. Il che non vuol dire che bisogna sorridere ogni giorno, per dar senso alla propria giornata, né che non ci sia anche il tempo di giornate in cui sorridere non sia possibile.

Spero di averti confuso le idee in modo in modo stimolante, e ti ringrazio della fiducia.

Jiso Forzani

 

 

 

Schede

 

 

Dostoesvkij, I fratelli Karamazov, Milano, Rizzoli, 1998

Leonid Cypkin, Estate a Baden Baden, Milano, Rizzoli, 2003

 

Leggere un lungo romanzo di Dostoevskij richiede disponibilità a lasciarsi immischiare nei suoi deliri fissazioni e diavolerie. Qui, parlo de I Fratelli Karamazov, uno dei più grandi romanzi della storia, libro che maggiormente è entrato nel cuore degli uomini. L’edizione BUR, che ho in mano, fa parte della collana I libri dello Spirito cristiano.

E dunque Dostoevskij è bravo ad affrontare, da filosofo che ha il gusto della letteratura., il tema della fede, della misericordia, della libertà: "Siamo in paradiso, mi stupisco che la gente non voglia capirlo" dice il monaco Zosima.

I fratelli Karamazov sono tre ragazzi diversissimi tra loro, più il padre, ubriacone e libertino, che dà l’impostazione del carattere Karamazov a tutta la saga. Ma l’eroe del romanzo è Alesa, il più giovane dei fratelli, che fino a metà romanzo, era monaco sotto la guida amorevole del priore Zosima. Un giovane, Alesa, di toccante bontà e compassione, che da solo, sa essere punto di riferimento e dolce guida per gli altri tre Karamazov.

Leonid Cypkin, sempre da Rizzoli, presenta un altro libro, su Dostoevskij, Estate a Baden Baden, dove D. andava a giocare d’azzardo, e dove in fretta troverà la sua rovina.

L’incriminazione di Mitya, il più grande dei tre Karamazov, incolpato dell’assassinio del padre, condannato ai lavori forzati in Siberia. Colpa per lui innocente, che non gli impedirà di trovare gioia anche nei lavori forzati. Come Alesa, che attraverso il priore/abate -starec in russo- Zosima, trovava consistenza per sé e, al contempo, era fonte di salvezza per gli altri. Egli, morto il priore Zosima, dietro consiglio dello stesso, lascerà il monastero e diventerà monaco nel (del) mondo. Bisogna diventare grandi, e indipendenti.

Ecco, dunque, l’esempio, certo parziale, della spiritualità e compassione del romanzo. Volendo, quella di Mitya, è anche la chiave sacrificale della vicenda.

Valeriano Massimi

 

 

G. Bologna, F. Gesualdi, F. Piazza, A. Saroldi, Invito alla sobrietà felice, Bologna, EMI, 2001

"Se ci limitiamo a un approccio tecnico-scientifico, difficilmente riusciremo a capire come mai la società si è involuta in così alti consumi…Soprattutto, però, l’approccio materialistico-quantitativo non ci può indicare come gli obiettivi di riduzione potrebbero inserirsi nella nostra vita di ogni giorno. In quali innovazioni sociali, in quali progetti spirituali, in quali modelli di comportamento, in quali cambiamenti istituzionali si potrebbe esprimere la ricerca di un uso equilibrato della natura?"

Wuppertal Institut

 

Come sta incidendo il modello di sviluppo delle società del nord del mondo sull’evoluzione della vita sul nostro pianeta? Questo testo, scritto a più mani da esponenti qualificati di tre importanti movimenti di opinione italiani (il WWF, il Centro Nuovo Modello di Sviluppo, il movimento Bilanci di Giustizia), ha il pregio di collocarsi in una via intermedia tra l’eccessiva specializzazione e l’altrettanta eccessiva semplificazione nel riassumere acquisizioni e proposte operative di tutte quelle discipline e movimenti che, ormai da diversi anni, si sono mobilitati nel tentativo di delineare e proporre dei possibili "modelli" di sviluppo alternativi a quello dell’economia capitalista di mercato, la quale si sostiene nella previsione di un’espansione infinita della produzione di beni e di consumi. In questo senso, i diversi interventi tentano di mettere a fuoco tre importanti ambiti di approfondimento: il "dove siamo", il "dove vogliamo andare" e i "possibili percorsi" per un cambiamento che appare sempre più necessario.

Nella prima parte del libro, Bologna e Gesualdi forniscono un quadro di insieme da un lato sulla "salute" del nostro pianeta (con il peso dei nostri consumi sull’ambiente e gli effetti che già da qualche anno si intravedono), dall’altro su che cosa si debba interndere con la categoria "benessere", passando in rassegna le radici da cui è sorto il modello "consumista" (riandando almeno alle risposte date dagli Stati Uniti dopo la grande crisi economica degli anni ’20) che, se in prima battuta vengono individuate nelle strategie del capitale e del mercato, vengono però viste, più in profondità, come spinte non-equilibrate in risposta alla comune esperienza umana del limite e al desiderio di assoluta libertà (a tal riguardo, illuminante risulta il paragrafo "Alle radici del consumismo: la libertà e il limite", il quale si conclude osservando come "… per affermare una libertà autentica è necessario allontanare i fumi dell’alcool consumistico e ritornare a una condizione di sobrietà, che in primo luogo vuol dire capacità di disporre del bisogno……accettare, prima ancora che riconoscere i limiti della biosfera, il ‘limite’ che riguarda ciascuno di noi."). A chiudere la prima parte del libro, ancora interventi di Gesualdi e Saroldi che fanno il punto sullo stato del benessere dei popoli non-occidentali, e, per altri versi, dei nostri figli, delle fasce giovanili nella nostra società.

Nella seconda parte il testo si apre con un nuovo intervento di Bologna che approfondisce il concetto di "sviluppo sostenibile", delineando alcuni dei comportamenti sociali che potrebbero contribuire ad invertire la tendenza allo sfruttamento esponenziale delle risorse della Terra.

Si prosegue poi con una nuova riflessione di Piazza che, continuando quanto proposto nella prima parte, ci invita ad interrogarci su quale sia il benessere che realmente vogliamo, se forse non valga la pena ridare voce, nei comportamenti quotidiani, alla "gratuità", alla riappropriazione del "tempo di vita" (dove "tempo di lavoro" non sia contrapposto a "tempo libero"), all’etica della sobrietà e, infine, a "ritrovare il pensiero" come difesa contro il "…continuo flusso di idee che i media ci veicolano… e che rischia di trasformarci in recettori passivi di un pensiero che non si interroga sui fini, ma soltanto sui mezzi per raggiungerli". Seguono, poi, ancora Gesualdi e Saroldi con uno sguardo alle prospettive future, proseguendo le rispettive riflessioni aperte in precedenza.

Il volume si chiude con la parte riservata ai "percorsi", con la quale i nostri autori tracciano possibili ambiti di azione per aprire sentieri verso un riequilibrio dello sviluppo, quali il consumo critico, i gruppi di acquisto solidale insieme all’attenzione al commercio equo, l’ecologia quotidiana a portata di tutti, il risparmio etico, il turismo responsabile, l’invito provocatorio a usare sempre il proprio cervello anche nel confronto e nell’adesione ad associazioni e gruppi di opinione, quale occasione di leggere la realtà in modo meno superficiale.

A mo’ di conclusione, e per ammissione degli stessi autori, occorre dire che questo lavoro non ha la pretesa di fornire analisi esaustive di problemi troppo complessi per essere ridotti, in modo completo, in così poche pagine, ma che nonostante ciò, può risultare un utile strumento per meglio capire, per avvicinare e conoscere realtà e persone che si muovono magari anche vicino a noi, e che forse sarà possibile incontrare realmente, nel tentativo di dare concretezza ad analisi che possono rischiare, talvolta, di esaurirsi nella mera osservazione e studio dell’accadere della vita.

Giuliano Burbello

 

 

 

 

 

 

 

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