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 Sezione IV
SEZIONE IV - Un artista e l'antico: Arnolfo di Cambio

 

A cura di Paolo Castellani

La cultura romana tardo-duecentesca subì una decisa svolta con l'arrivo nella città papale di Arnolfo di Cambio, autore, prima di Giotto e successivamente insieme a lui, di una vera e propria "rivoluzione" in campo artistico, paragonabile a quella dei poeti del "dolce stil novo" nei confronti della tradizione poetica provenzale e siciliana. Arnolfo (architetto, scultore e pittore), nativo di Colle Val d'Elsa (Siena), sutilisimum et ingeniosum magistrum, come viene definito in un documento perugino del 1277, svolse il suo alunnato artistico nella bottega di Nicola Pisano fino verso la fine degli anni Sessanta del Duecento nonché, presumibilmente, in un cantiere-scuola dell'Ordine cistercense. Negli anni Settanta lo si ritrova legato alla corte di Carlo d'Angiò, in Italia meridionale e a Roma. Da queste esperienze derivarono ad Arnolfo le caratteristiche principali della sua cultura artistica: l'utilizzo massiccio di modelli antichi, una rigorosa volumetria plastica e la diretta conoscenza della contemporanea scultura gotica francese, in particolare parigina.

108 .jpgNon è nota con certezza la data del suo arrivo a Roma, ma a partire dal 1285 Arnolfo divenne protagonista del panorama artistico romano, essendo coinvolto in tutte le maggiori opere commissionate da papa Nicolò IV (1288-1292) e poi da Bonifacio VIII. Le sue opere romane sono: il ciborio di S. Paolo fuori le mura (1285), il monumento funebre di Riccardo Annibaldi in S. Giovanni in Laterano (post 1289), la cappella del presepe in S. Maria Maggiore (1291), il ciborio di S. Cecilia (1293), il monumento funebre e il busto di Bonifacio VIII in Vaticano (1295-1300) e probabilmente la statua bronzea di S. Pietro nella basilica vaticana (1300 circa), oltre alla direzione dei principali cantieri architettonici e decorativi dell'epoca, dalla basilica di S. Cecila, all'Aracoeli, a S. Maria Maggiore.

Il monumento funebre (smembrato e ricomposto più volte in modo lacunoso e scorretto e attualmente in restauro) del cardinale francese Guglielmo de Braye che Arnolfo realizzò nel 1282 circa nella chiesa di S. Domenico a Orvieto, è l'opera che meglio di tutte consente di illustrare il particolare approccio dell'artista nei confronti dell'arte antica; ciò soprattutto in virtù dell'eccezionale scoperta di Angiola Maria Romanini che ha consentito di individuare nella statua della Madonna (qui esposta) (n.105) una statua romana del II secolo d.C., riutilizzata e rilavorata da Arnolfo stesso, appartenente a una serie di opere tra loro parallele, della quale sono esposti in mostra tre esempi, raffiguranti diverse divinità (Giunone, Cibele, Tellus, Fortuna e altre), tutte però collegate in qualche modo ai culti della fertilità e dell'abbondanza. Si tratta infatti di una rappresentazione probabilmente della divinità romana di Giunone, trasformata dall'artista toscano, con poche modifiche, nella raffigurazione di Maria Vergine Madre di Dio. Gli interventi operati da Arnolfo sulla statua romana consistono nell'eliminazione dell'attributo (probabilmente lo scettro e la patera) retto dal braccio sinistro e la sua sostituzione con il Bambino (la cui testa è di restauro) e la mano sinistra della Vergine, realizzati in un unico blocco; l'assottigliamento del busto sul lato destro; lo svuotamento del retro della statua e la riduzione del bordo posteriore; la rielaborazione della testa; la rielaborazione dei piedi e dell'orlo della veste da cui fuoriescono. L'artista formula una vera e propria traduzione nella lingua a lui contemporanea dell'immagine "latina": basti notare i piedi rilavorati e ricoperti di tipiche calzature medievali.

Un'altra citazione e modernizzazione del significato di un'opera antica da parte di Arnolfo la si riscontra nellomad.jpg stesso monumento nel caso dell'accolito (n.110) che, con un altro dal lato opposto, tira la tenda della camera funebre in cui era distesa la statua raffigurante il cardinale defunto, lanciando un'occhiata curiosa al di là della cortina come testimonia la pupilla dipinta: l'opera antica citata, nella postura, nella resa naturalistica della veste e nella messa in risalto del corpo che la veste ricopre, può essere individuata in alcune raffigurazioni di Ifigenia come quella del frammento di sarcofago proveniente da Villa Doria Pamphilj (n.111). Il mito di Ifigenia in Tauride (salvata per intervento degli dei nel momento in cui sta per essere sacrificata dal padre Agamennone e trasformata in dea e trasportata appunto in Tauride) era utilizzato soprattutto nel II secolo in chiave funeraria, esprimendo la fede nella possibilità di vincere la morte per intervento divino, raggiungendo una vita ultraterrena e nella stessa chiave, cristianizzata, Arnolfo o i suoi committenti lo "citano". Arnolfo dunque non copia o imita l'arte antica per ammantarsi di autorità formale, ma la cita citando i suoi significati d'origine e aggiornandoli, cosi come cita le sue forme traducendole in forme gotiche.

Già gli accoliti "curiosi", primo tramite tra la morte e la vita eterna, costituiscono dunque il primo annuncio di quello che si presenta come il "tema" del monumento De Braye, proclamato dalla statua della Madonna con Bambino al suo vertice – la sconfitta della morte per mezzo dell'amore di Cristo: "Là ove il nostro oggi si muove spinto dall'amore di Cristo, vive in esso l'eternità, una eternità affettuosa da cui la morte – la morte oggi: "dov'è morte la tua vittoria?" (I Cor. 15, 55) – è sconfitta" (Romanini).


Statua di Fortuna, ultimo quarto del I – inizio del II sec. D.C., Roma, Musei Capitolini, deposito Montemartini

Arnolfo di Cambio, Madonna con Bambino, post 1282, Orvieto, S. Domenico, monumento funebre del cardinale Guglielmo De Braye

 

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