" Lungo i sentieri della follia" |
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Franco Basaglia[1](1924 - 1980)“La
prima volta che entrai in prigione ero studente di medicina e vi entrai come
prigioniero politico, ovvero come recluso. Era l’ora in cui si vuotavano i
buglioli delle celle e la mia prima impressione fu di entrare in un enorme sala
anatomica in cui la vita aveva l’aspetto e l’odore della morte. La prigione
mi si presentava come un letamaio impregnato d’un fetore infernale in cui
alcuni uomini con bidoni sopra le spalle sfilavano per versare il loro contenuto
nelle fogne. Il gruppo che compiva queste faccende era composto di detenuti
privilegiati che potevano uscire dalle celle, cosa che metteva in evidenza che
nella prigione esisteva una stratificazione sociale sulla quale si fondava un
tipo di vita del tutto autonoma: la vita della segregazione. L’uomo e il
carcere erano, in realtà, il carceriere e il carcerato e l’uno e l’altro
avevano perso ogni qualità umana, assumendo le caratteristiche che imponeva
l’istituzione. Dopo alcuni anni entrai in un’altra istituzione chiusa: il
manicomio. Questa volta non come internato, ma come direttore. Ero nel gruppo
dei carcerieri, ma la realtà che avevo davanti non era diversa: anche qui
l’uomo aveva perduto tutta la sua dignità umana; anche il manicomio era un
enorme letamaio. C’era tuttavia una differenza: quello che entra in questa
istituzione, definita come ospedaliera, non assume il ruolo di malato, ma di
internato che deve espiare una colpa della quale non conosce le caratteristiche,
né la condanna, né la durata della sua espiazione. Ci sono medici, camici
bianchi, infermieri, infermiere, come se si trattasse d’un ospedale, però si
tratta in realtà soltanto d’un luogo di custodia in cui l’ideologia medica
è un alibi per la legalizzazione d’una violenza di cui nessun organismo ha il
controllo, dal momento che la delega fatta allo psichiatra è totale, nel senso
che il tecnico incarna concretamente la scienza, la morale, e i valori del
gruppo sociale di cui è, nell’ambito dell’istituzione, il rappresentante
delegato.”
(Franco Basaglia) Franco
Basaglia, nato a
Venezia nel 1924 e deceduto nel 1980, è la figura di maggior spicco
della psichiatria italiana contemporanea. Dopo aver studiato medicina
all’università di Padova, si specializza in neuropsichiatria e nel 1961
assume la direzione dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Nel 1970 ricopre la
stessa carica nell’ospedale psichiatrico di Parma e nel 1972 in quello di
Trieste. Molte esperienze pratiche
sono state illustrate dall’autore, con la collaborazione della moglie, in
diverse opere quali: “Che cos’è la psichiatria”, “L’istituzione
negata”, “Morire di classe”, “La maggioranza deviante” e “Crimini di
pace”. Ritratto come uomo di pace,
Franco Basaglia è stato colui che si è tanto battuto per ottenere una legge
che sancisse la chiusura dei manicomi. Proprio nel 1978 è stata sancita la
“Legge 180” che stabiliva la chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici,
con la restituzione dei diritti civili e politici e il riconoscimento della
dignità ai malati mentali precedentemente condannati alla segregazione e a
trattamenti disumani. La chiusura dei manicomi non
era da considerare solo come lo scopo finale dell’operazione di Basaglia, ma
come il mezzo attraverso cui la società poteva fare i conti con quella figura
da sempre inquietante che è il diverso, come il folle, il tossicodipendente o
l’emarginato. Basaglia voleva avviare una rivisitazione dei rapporti sociali a
partire dalla psichiatria clinica, che veniva incaricata dalla società di
fornire giustificazioni scientifiche che rendessero cosa naturale la reclusione
dei sofferenti psichiatrici. La clinica riduceva la follia a malattia, che per
essere curata doveva essere sottratta al mondo della vita. Era nato così il
manicomio che, come affermava Basaglia, “…ha la sua ragion d’essere nel
fatto che fa diventare razionale l’irrazionale. Infatti quando qualcuno entra
in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato, e così diventa
razionale in quanto malato”. Basaglia definiva la follia
in due modi: “La follia è diversità oppure aver paura della diversità.” E
ancora: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è
presente come lo è la ragione. Il problema
è che la società per dirsi civile dovrebbe accettare tanto la ragione
quanto la follia, invece incarica la psichiatria di tradurre la follia in
malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion
d’essere”. A volte, come nel brano che
ho scelto quale introduzione, il manicomio veniva confrontato con il carcere, in
quanto entrambe le istituzioni conservavano la stessa funzione di tutela e
difesa della “norma”. Il malato o il criminale si trasformavano in normali
non appena chiusi tra le mura dell’edificio. Pazzia e criminalità
rappresentavano quella parte dell’uomo che doveva essere eliminata e
sradicata, finché la scienza non avesse fatto una netta distinzione dei due
fenomeni. Secondo Basaglia, la scienza si è limitata a separarli, considerando
la pazzia in termini astratti e la criminalità come elemento umano, ma le
istituzioni predisposte non hanno mai tenuto conto della dignità umana, né
hanno mai modificato la loro funzione o la loro struttura, continuando per vie
parallele. Basaglia ha cercato
costantemente di restituire al folle ciò che gli era sempre stato negato: la
soggettività. Questo passo consentiva al malato di diventare un uomo con cui
entrare in relazione e che, oltre alle cure per la malattia, aveva bisogno di un
rapporto umano con chi lo curava, di risposte reali per il suo essere, di
denaro, di una famiglia e di tutte le necessità utili ad ogni essere umano.
Trattato come uomo, il folle non presentava più una malattia, ma una crisi
esistenziale. La crisi è soggettività, e non oggetto come la diagnosi,
che invece ha valore di un giudizio discriminante. Più volte è stata
sottolineata l’influenza della famiglia nello sviluppo della patologia
psichica di certi malati, ma Basaglia a questo proposito sosteneva il contrario.
La famiglia non è che la scusa di una situazione e, analizzandone la dinamica,
si tende a ridurre il problema ai suoi aspetti psicologici, tralasciando i
motivi reali. Non serve a niente incolpare un membro o l’altro della struttura
familiare, perché si perdono di vista le colpe e perciò si nascondono le vere
ragioni. A questo proposito, la psichiatria tradizionale si preoccupava solo che
le famiglie osservassero le regole dell’organizzazione sociale. La vita dell’ospedale di
Gorizia era regolata dalle
assemblee in cui medici, infermieri, malati e assistenti sociali si riunivano a
discutere, a prendere decisioni e a formulare richieste per possibili
cambiamenti dell’organizzazione ospedaliera. Per Basaglia queste riunioni non
avevano il significato della psicoterapia di gruppo, ma dovevano essenzialmente
offrire al malato varie alternative e creare un terreno di confronto e di
verifica reciproca. Quando un malato partecipava alle riunioni significava che
il suo livello di spontaneità era abbastanza elevato, poiché accettava il
confronto con l’altro. A differenza di sempre, i medici e gli infermieri non
partecipavano a tutte le riunioni e questo faceva in modo che la vita quotidiana
non fosse regolata da un’intelligenza medica, ma fosse il risultato
dell’attività spontanea dei partecipanti. Importante era permettere al malato
di operare delle scelte e di decidere personalmente, senza essere organizzato
secondo un determinato ordine e un determinato fine. Il fatto che infermieri e
medici avessero un ruolo diverso dai malati era motivo di confronto e di
contestazione nelle riunioni. Il paziente vedeva in loro delle persone
“libere”, cui contestava il ruolo di potere che giocavano
nell’istituzione; analizzava quindi, di fronte ad un potere che lo escludeva,
la propria condizione di escluso. D’altra parte i medici e gli infermieri,
oltre a rappresentare il limite della realtà per i malati, rappresentavano ai
loro occhi il rifiuto di essere degli escludenti, attraverso la negazione
dialettica del loro mandato sociale. Il mandato sociale degli psichiatri e
quello degli infermieri coincideva nell’essere oggettivati e determinati nel
ruolo di carcerieri e di difensori della società nei confronti del malato. In
un certo senso gli stessi psichiatri sono degli esclusi, nella misura in cui si
trovano a fare, inconsapevolmente, il gioco della classe dominante. Su questa
base si sosteneva il livello di reciprocità che rendeva valido un confronto. Le alterazioni della
personalità, gli squilibri mentali, corrispondono a una situazione umana, e
questo è sempre valido; in un secondo momento questa situazione umana si
cataloga, ed è qui il momento in cui appaiono la etichette di malattia. Secondo
Basaglia la malattia era la burocratizzazione della necessità che questa
situazione umana rappresentava. Gli psichiatri e i medici prendevano l’aspetto
burocratico della malattia e non la necessità che questa manifestava. Andavano
alla ricerca delle malattie più sofisticate, più complesse, più produttive di
sintomi, per determinare quantità, gradazioni e sfumature della malattia.
Allora ci si trovava di fronte al problema del linguaggio tecnico, un insieme di
parole che rendevano complesso il fenomeno, ma che lasciavano intatta la
necessità. Non interessava né serviva
dire che i manicomi rinchiudevano “gente che rifiuta la propria vita”.
Questa non era teoria. La teoria era possibile solo quando nasceva come
riflessione sulla propria pratica di trasformazione. Se non si teorizzava su
queste basi, l’unica cosa che si otteneva era di riformulare una nuova
ideologia che sistemava parole per spiegare la malattia, ma che non scopriva la
necessità della persona malata, il vero obiettivo su cui Basaglia riteneva
necessario puntare. “Viviamo
in un momento in cui si tende a rendere sempre più complessa la spiegazione dei
fatti. Si fanno analisi complicatissime su situazioni semplici, perché la
complicazione è al servizio della confusione e questa, a
sua volta, è un’arma di dominio.”
(F.Basaglia) [1] La presentazione di Franco Basaglia, come già detto, è dovuta a Michela Mosca.
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