" Lungo i sentieri della follia"

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Storia della Psichiatria

La questione psichiatrica nel contesto dei progetti di riforma psichiatrica

 

La questione psichiatrica nel contesto dei progetti di riforma.

L’Italia negli anni ’70 era in una condizione di profondo disagio per quanto riguarda l’assistenza psichiatrica: era quindi palese il bisogno di superare la legge del 1904.

Ma la questione psichiatrica non è un fatto meramente tecnico, così che un radicale rinnovamento della legislazione psichiatrica implicava un conseguente mutamento sociale e politico profondo.

Dal 1968 in poi, la lotta per la riforma sanitaria ha inglobato in sé la riforma psichiatrica, evitando di procedere separatamente e trasferendo a quest’ultima i suoi presupposti più qualificanti.

La psichiatria presa in considerazione nel suo contesto socio-sanitario, è stata supportata dalla forza unificante delle masse popolari che non ammettono interventi separati sulla loro salute e sul loro benessere fisico, psichico e sociale. Questo ha indotto gruppi consistenti d’operatori psichiatrici a collocarsi politicamente a sinistra e a fornire preziosi contributi culturali, assimilati prontamente dai sindacati e dai partiti di sinistra, traducendoli in formule legislative. Si è usciti dalla diatriba tecnico-scientifica quando si è fatta sentire la voce del “cittadino”. Esperienze significative in questo senso si sono avute a Gorizia e a Trieste, grazie alla presenza di figure di spicco dell' antipsichiatria italiana, come Franco Basaglia.

Il convegno di Bologna (1964) e la psichiatria di settore: il progetto di legge Balconi nel 1965

Prima del 1964 furono elaborati già sette progetti di legge, a testimonianza del profondo disagio che da decenni investiva l’assistenza psichiatrica in Italia, anche se sempre i problemi della psichiatria erano sempre considerati in modo separato da quelli della sanità e dell’assistenza. L’igiene mentale cercava una sua identità collocando la propria sede fuori degli ospedali psichiatrici, direttamente sul territorio. Si tendeva, quindi, a separare la prevenzione dalla cura, e un certo tipo di terapia (extra-ospedaliera) da un altro (post-ospedaliera).

Rimane comunque l’impressione che molte soluzioni tecniche contenute nei progetti di legge riflettessero problemi economici e di potere dei medici e che dietro alle varie proposte non stessero l’ideologia di un diverso rapporto con l’utenza né una scelta di classe che intendesse inquadrare il diverso modo di fare psichiatria in una prospettiva volta a mutare i vecchi rapporti di produzione e potere.

In questa direzione va invece l’operato di L. Bonafè, esponente del Partito Comunista Francese, e F. Tosquelles, rifugiato spagnolo, gli psichiatri che diedero inizio al lavoro di èquipe tra medici e infermieri teso a un’opera di “disalienazione” detta “geopsichiatria”, cioè l’inserimento della psichiatria nel territorio, ovvero nella popolazione, allo scopo di combattere e cercare di superare tre secoli di internamento e di tentare di stabilire un rapporto diverso tra società e follia.

In questo senso il convegno dell’aprile ’64 a Bologna si rivela un punto nodale di partenza. Esso pone al centro del dibattito la questione psichiatria - territorio e sottopone a critica i vari progetti di legge fino allora presentati, proponendo, pur fra varie incertezze e voci discordi, una prospettiva diversa da quella fino allora seguita. La soggezione all’oligarchia psichiatrica era allora molto pesante.

Traspare evidente in questo convegno la contraddizione tra il lodare l’ospedale psichiatrico e il volerlo trasformare profondamente; appariva necessaria la rassicurazione che di fatto tutto era conciliabile con la società attuale e che non sarebbe avvenuto nulla di rivoluzionario.

Si discusse inoltre del traguardo ambizioso che lo psichiatra avrebbe dovuto raggiungere interessandosi di psico-analisi e di problemi come quelli dei bambini e degli adolescenti, quelli dell’alcolismo, quelli dei rapporti coniugali e della famiglia e del lavoro. Una vera e propria lotta contro le sociopatie, causa primaria di ogni malattia mentale.

Nel convegno del marzo ’65 a Varese si ridiscusse ciò che era emerso dal convegno di Bologna per fare in modo che non venissero elaborate leggi in contrasto con esso.

In questo convegno appare Franco Basaglia, che presenta l’esperienza di Gorizia per sottolineare la lotta contro l’istituzionalizzazione sia interna che esterna e per giungere, tramite la distruzione del manicomio come luogo di isolamento e di mortificazione, alla costruzione di una comunità terapeutica con ramificazioni esterne in cui sia presente un equilibrio di forza e di potere fra malati, personale e medici. Per Basaglia si vuole costruire una coscienza comunitaria all’interno dell’ospedale, comunicandone la percezione all’esterno, mantenere legami con il dimesso, distruggere l’immagine del manicomio quale luogo di mortificazione e “vuoto emozionale”. Sarebbe inutile aprire ambulatori periferici fintanto che il ricovero viene visto come una minaccia: è necessario portare la struttura ad essere vista come luogo benefico atto al reinserimento sociale. Giungere a questo comporterebbe realmente l’assolvimento delle funzioni del servizio psichiatrico.

Il gruppo goriziano individua nella società fattori istituzionalizzanti che devono essere combattuti con alternative come la comunità terapeutica, che permette la ricostruzione di nuovi rapporti tra gli uomini.

Ciò viene recepito nella proposta di legge presentata nel ’65: “Tutela della salute mentale ed assistenza ospedaliera”. Questa prevede infatti la suddivisione di ogni provincia in settori di 70-100 mila abitanti, nei quali operano un servizio psichiatrico per adulti e uno per soggetti in età evolutiva, strettamente connessi. In sintesi questa proposta di legge prevedeva:

1) l’estensione dell’assistenza psichiatrica a tutti i cittadini; 2) una larga azione di prevenzione ad ogni livello; 3) una continuità nell’azione di prevenzione; 4) l’abolizione dei manicomi quali istituti di ricovero per malati pericolosi per sé e per gli altri; 5) l’abolizione di ogni intervento da parte dell’autorità giudiziaria e di pubblica sicurezza nei confronti dei malati affetti da disturbi mentali, ad eccezione di quelli richiesti a difesa dei diritti del malato

Tutto ciò però risultò infruttuoso alla luce di quello che accadde a seguito del ’68. La mancanza di una prospettiva politica per le riforme psichiatriche fu comunque una delle cause del mancato successo di quegli anni.

Dalla legge del 1904 alla legge 431 del 1968

Il socialista Mariotti dà vita il 18 marzo 1968 alla legge n. 431

Questa prevede la possibilità per chi soffre di disturbi psichici di accedere volontariamente all’ospedale psichiatrico; dispone l’abolizione dell’iscrizione al casellario giudiziario; il manicomio deve assomigliare ad un ospedale specializzato (non più di 625 posti letto); lo Stato avrebbe concorso alle spese degli enti pubblici e delle province. Malgrado la copertura finanziaria, queste norme sono state disattese per molti anni dalla maggior parte delle province, negando così il legame ospedale- territorio. E’ probabile che il raggiungimento solo parziale degli obiettivi che la legge si proponeva sia dovuto al fatto che la legge non era stata inquadrata in una riforma sanitaria ed in un progetto politico rivoluzionario, non sostenuto né da lotte sociali adeguate né da un ampio movimento di massa.

1968: la negazione dell’istituzione; 1969: l’incontro con il movimento operaio

Nel 1968 compare sulla scena psichiatrica la contestazione. Questo anno così cruciale per la nostra storia politica e sociale non lo è di meno per la psichiatria.

Punto cruciale è la pubblicazione a cura di Franco Basaglia di “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”, e il dibattito acceso che ne è seguito. In questo contesto il lavoro svolto nel 1962 a Gorizia diventa termine di confronto per tutta la psichiatria italiana.

L’azione politica che coinvolgeva ampi strati di cittadini poteva essere usata anche per portare allo scoperto i problemi della questione psichiatrica, in modo che le masse potessero collegare un progetto politico complessivo a problemi reali.

Il discorso di fondo di Basaglia era la negazione del manicomio come istituzione, basando la sua critica su fatti reali, su realtà disumane sotto gli occhi di tutti. Evidenziava poi il fallimento terapeutico del manicomio. L’istituzione era analizzata come strumento di esclusione sociale, di emarginazione e custodia separata, non solo per i devianti psichici, ma per molti indesiderati, ”rifiuti” della società: la si intendeva come di violenza capace di depersonalizzare, oggettivare e destorificare il malato, proprio in quanto istituzione totale.

Una critica così radicale non poteva rimanere localizzata al manicomio e la sua capacità eversiva stava nella possibilità di diventare un discorso generale, di critica al sistema sociale. Ciò che caratterizza le istituzioni è la netta divisione tra chi ha il potere e chi no. L’istituzione psichiatrica è violenta e repressiva (e non terapeutica) in quanto strumento di un sistema sociale violento e repressivo in ogni sua manifestazione. Ora la critica ha un’altra direttrice che va per linee interne, colpendo non solo il metodo terapeutico, ma il ruolo stesso di terapeuta, e infine non solo la psichiatria tradizionale, ma tutta la psichiatria, mettendo in discussione l’esistenza stessa della malattia mentale.

Il metodo goriziano è stato quello della comunità terapeutica, dove si vuole la maggior partecipazione possibile da parte di personale e pazienti; quindi: 1) libertà di comunicazione in tutti i sensi; 2) analisi individuale ed interindividuale di ciò che accade nella comunità; 3) tendenza alla modificazione del tradizionale rapporto di autorità; 4) possibilità di godere di occasione di ri-apprendimento sociale; 5) presenza di una riunione giornaliera di tutta la comunità e di frequenti e regolari riunioni più ristrette a tutti i livelli, le quali sono il luogo naturale dove tutti i processi menzionati prima si svolgono. E’ quindi inteso come un modo di lavoro dialettico e dunque anche per questo terapeutico.

L’esperienza goriziana viene presentata quindi come concreto agire psichiatrico, ma anche come luogo di negazione istituzionale (e così anche statale) della repressione fisica e morale: e si riallaccia anche al più vasto movimento di radicale contestazione del sistema che in quegli anni aveva raggiunto il culmine. “L’istituzione negata” viene scritto nel periodo della contestazione giovanile, così che il “nuovo” del ’68 si riflette anche in psichiatria segnando l’inizio di una svolta.

Nel 1969 momenti importanti vengono segnati nei convegni di Venezia e di Roma su “Psicologia e rapporti di potere". L’ultimo rappresenta un punto d’incontro e scontro politico–culturale fra tecnici, specialisti, medici, studenti, un folto gruppo di quadri del movimento operaio, dirigenti politici, sindacalisti, amministratori comunali e provinciali, con problemi, posizioni, esigenze e ottiche spesso non coincidenti, ma tutti orientati politicamente a sinistra.

La presenza di fattori ambientali e sociali nocivi anche a livello psichico, la necessità di prevenire i disturbi psichici e di promuovere un completo benessere psichico oltre che fisico e sociale, sono alcuni dei temi di fondo del movimento operaio.

Infine: gli psichiatri denunciano la segregazione dell’ospedale psichiatrico; tra l’assistenza medica in genere e quella psichiatrica vi è un aspetto comune e cioè quello segregante; ciò che distingue il malato psichico da quello generico è che esso risulta segregato rispetto ai segregati, discriminato rispetto ai discriminati.

I congressi di Venezia 1969 e di Reggio Emilia 1970: l’emergenza di una nuova linea psichiatrica

Al convegno di Venezia del 22-23 maggio 1969, si verificò un’importante svolta nella linea psichiatrica italiana: vi parteciparono le maggiori forze politiche come Dc, Pci e Psi. Quindi si attua una svolta di ufficialità, anche se non avrà effetti governativi a breve termine. In sostanza si dice no a una riforma psichiatrica che non sia integrata nella riforma sanitaria, si dice no a interventi frazionati e settoriali e sì a interventi globali e integrati; si dice no all’ospedale e sì al territorio. La tutela della salute mentale si fa nell’Unità Sanitaria Locale, dove si attua un intervento globale preventivo, curativo e riabilitativo. Vi è quindi un incitamento a lottare e sperimentare anche al di fuori di un quadro legislativo, al fine di contribuire a determinarlo.

Questa indicazione venne raccolta e sviluppata nel convegno di Reggio Emilia del 24-25 marzo 1970, che pone l’accento più sulla responsabilità dell’amministrazione e dei tecnici che della legge; anzi, si deve lottare per istituire il Servizio Sanitario Nazionale. Partendo dalla riforma, il convegno inizia la sua analisi collocando la psichiatria nell’ambito della medicina e rilevandone i vantaggi rispetto all’impostazione tradizionale. Anche la medicina è vista in modo nuovo e sociale e la psichiatria si trova all’avanguardia di questo nuovo modo di fare medicina. La psichiatria moderna, nei suoi aspetti più attendibili, si allontana dalla medicina e dalla neurologia, legandosi agli studi psicoanalitici, alla psicologia individuale e di gruppo, alle indagini sulla esperienza di sé e dell’altro nel rapporto interpersonale, alla sociologia dei piccoli gruppi, alla sociologia in generale e anche alla politica.

Due altri pregi di questo convegno sono le affermazioni che: il servizio di salute mentale è un servizio di base dell’USL; l’ospedale psichiatrico non deve essere un ente a sé stante, ma uno strumento dell’USL.

Le lotte operaie e il progetto di legge Mariotti (1971)

Il progetto di riforma sanitaria che il ministro della sanità Mariotti aveva approntato nei primi mesi del ’71 non sarà mai discusso dal Consiglio dei Ministri. Esso è tuttavia il primo, e il modello, dei progetti che nascono dopo le grandi lotte operaie e popolari del triennio 1968-’70. Si ha inoltre un momento di incontro e confronto tra forze sociali come proletariato, borghesia, tecnici, intellettuali. Attraverso le lotte sindacali, i lavoratori si rendono conto che l’obiettivo principale è la prevenzione delle malattie e quindi anche delle malattie mentali. Lo stress può esserne un precursore ed è considerato fonte di stress qualunque agente fisico o psicologico che sia nocivo per l’organismo. La lotta per la tutela della salute nell’ambiente di lavoro divenne la lotta per la riforma sanitaria. Lo Stato e gli enti locali dovevano essere considerati espressione e strumenti dei cittadini e quindi dei lavoratori e pertanto il problema non poteva essere che quello di farli funzionare bene e a favore di queste categorie. Momento di organizzazione del movimento, di incontro, confronto e fusione fra operai, tecnici, intellettuali e studenti, di elaborazione concettuale e di formazione personale fu il sindacato. In questi spazi, ciò che appariva naturale, e spesso aproblematico per l’operaio, destava non poche riflessioni agli psichiatri e agli psicologi sul rapporto dell'individuo (e il suo mondo soggettivo e fantastico) con il gruppo lavorativo e con le esperienze reali e le idee collettive. Quando le esperienze di sofferenza e di malattia erano riconosciute come comuni, esse diventavano oggetto di intervento terapeutico o preventivo extra-individuale; si pensava che l’angoscia individuale per la sofferenza diminuisca proporzionalmente all'accrescersi dell’eccitazione collettiva per essa e al suo trasformarsi in una risolutrice lotta sociale. Così operando però si riconosce l’esistenza effettiva del problema e di questa sofferenza e devianza. Altro dilemma del medico è se l’operato da lui svolto dovesse significare la reintegrazione del soggetto in una società in se stessa patologicamente negativa o la sua liberazione ed emancipazione. L’emancipazione individuale appare illusoria, essa non può che essere collettiva e basarsi in primo luogo sul mutamento dei rapporti di produzione e sulla eliminazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

In realtà, i punti riguardanti la psichiatria nel progetto di legge sono pochi e di scarso interesse; è evidente la volontà del legislatore di mantenere l’ospedale psichiatrico quale è, come ospedale mono-specialistico con tutte le nefandezze di cui è stato accusato.

Quella del governo è una strada che ignora i criteri della riforma del settore psichiatrico emersi dal convegno di Reggio Emilia, che affermavano la necessità: 1) del superamento e della graduale eliminazione degli ospedali psichiatrici; 2) dell'inserimento della tutela della salute mentale nelle USL attraverso nuove strutture aperte, flessibilmente adatte alle situazioni ambientali e soprattutto rivolte alla prevenzione, con l'intervento nell’ambiente in cui il paziente si trova a vivere.

La parte psichiatrica del progetto Mariotti è pertanto inaccettabile e in sostanza va nello spirito della legge 431 del ’68, ma forse con minore chiarezza. Comunque nel 1971 nessun progetto di riforma avrebbe visto la luce.

 

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