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BICI
ONIRICA
Ho
fatto un sogno, cari fratelli silenziosi; sperduti ed eterei, come lucciole in
periferia.
Pedalavo. E la
bici scivolava svelta nella sera estiva. Ed era giugno senza dubbio, perché
soltanto giugno ha quei profumi, solo giugno ha tanto potere da sfidare il
tempo, e gli spiriti nascosti e senza nome, e
il destino, ed i morti persino.
Pedalavo, e
soltanto quando presi consapevolezza di quello sferragliare insistente, che
m’inseguiva come piattola molesta e m’infastidiva il pensare, m’accorsi
che non stavo andando sulla mia bici di sempre; viaggiavo sul vecchio catafalco
nero di mio nonno, quello che cigolò per un paio d’anni nella mia ultima
infanzia, quando una crescita improvvisa e disarmonica mi permise d’un tratto
di cavalcare quell’affare d’una grandezza smisurata. Arnese anacronistico e
fedele, che per qualche tempo m’accompagnò attraverso gli strani territori di
confine fra campagna e metropoli ; là dove gli ultimi condomini insulsi
diradano fra discariche, campi nomadi, capannoni industriali e infine verso una
campagna piatta, che via via si purifica e s’inverdisce, salendo verso i
boschi delle prealpi. Poco tempo dopo,
quel residuato degli anni trenta, coi freni a bacchetta, sarebbe finito ad
arrugginire da solo nel sottoscala. Ormai serviva almeno un motorino per poter
star dietro alle volubili signorine della cintura.
Ma la bici non era
il solo elemento insolito. Quel botolo marrone alto venti centimetri che sbucò
dalla siepe e che prese a corrermi dietro ringhiando
e sbavando e cercando d’afferrarmi l’orlo dei pantaloni me lo ricordavo
bene. Era quel bastardo in tutti i sensi del cane del macellaio, che amava
acquattarsi dietro ai cespugli, per poi saltare fuori all’improvviso,
abbaiando all’impazzata, nel tentativo di farti perdere il controllo della
bici e finire nel fosso. Un cane di cui non ricordavo il nome, ma che doveva
esser defunto da vent’anni almeno. Se ben ricordo, morto sotto le ruote di un
vespino, che l'aveva travolto forse non per caso.
Ebbi un fremito:
poco più in là, appena due isolati più avanti, stava la mia casa
d’infanzia. Lì certamente avrei ancora trovato mio padre. Già pensionato, ma
ancora in forma, col 131 blu notte posteggiato in giardino. Dio santo! Avrei
potuto andare da lui, prenderlo da uomo a uomo e raccontargli come sarebbe
andata a finire. Raccontargli di come le cose, di lì a qualche anno, avrebbero
cominciato a mettersi male. Di come sarebbe scivolato quasi impercettibilmente
in quel lago denso e opaco che i medici avrebbero chiamato depressione. E che
avrebbero curato con chili di medicinali dai nomi ostici e odiosi. Tutto questo
avrei potuto raccontare a mio padre, descrivendogli quei suoi due ultimi anni
infami. E forse anche quel martedì freddo e spietato di fine novembre, quando,
col coltellaccio da cucina, avrebbe deciso di togliere il disturbo. L’avrei
fatto per metterlo in guardia e aiutarlo a sceglierne un altro, fra i tanti
futuri possibili. Ma era davvero la
cosa giusta ?
Fu la bici a
scegliere per me. Vinse l’inerzia,
di moto certo, ma sempre inerzia, e la bici tirò dritto. Lasciando mio padre
alle sue occupa-zioni, in giardino. Felicemente inconsapevole del suo destino. E
mi parve cosa buona.
Erano le strade di
ognigiorno, quelle che percorrevo con la mia bici onirica. Ma avevano qualcosa
di più: erano più colorate, più nitidi i contorni, più evidenti le
prospettive. E c’erano un’infinità di sentieri, che si diramavano dalla
strada principale. Un’infinità di misteri piccoli e grandi e un pianeta
immensamente grande e meraviglioso tutt’intorno. E tutte le strade erano
aperte intorno a me, come accade soltanto quando sei giovane, molto ma molto
giovane.
Ormai neppure più
pedalavo, perché la bicicletta rullava nel verso favorevole di un dolce
falsopiano. Dal ciglio di quella strada piatta e piemontese ora sbucavano palme,
manghi, banani, enormi mangrovie intrecciate come funi marinare.
Poco più avanti,
sul marciapiede, avanzava un’enorme sagoma ciondolante: un elefante indiano,
condotto per la coda, come fosse un guinzaglio, da un guardiano col turbante. Un
elefante come tanti altri, eppure fui certo di riconoscerlo. Non poteva che
essere il famoso Fritz, l’elefante impagliato come fosse vivo che troneggia al
museo di Scienze Naturali di Torino. Scomodo presente, che Carlo Felice di
Savoia ricevette nel 1827 dal Viceré d’Egitto. E per qualche decennio
attrattiva del castello di Stupinigi, dove i torinesi, a frotte, venivano ad
ammirarlo nei fine settimana. Fui contento di vedere Fritz in forma e allegro
col suo guardiano, perché – e
come potevo dimen-ticarlo? - il povero elefante indiano d’Egitto aveva fatto
una ben misera fine. Sopravvissuto ad un paio di re e soddisfatta la curiosità
dei bugia nèn di Torino, aveva cominciato ad essere un ornamento mobile un
po’ troppo scomodo e costoso per la corte subalpina. Alla morte del suo amato
guardiano era stato affidato alle cure di un tipo grezzo e brutale, troppo
propenso all’uso del bastone. Eppure mi riesce di pensarlo buon cattolico,
assertore convinto dell’inferiorità della bestia e della legittimità umana
di soggiogare il mondo e le sue creature. Fritz lo aveva sopportato stoicamente
per qualche tempo, poi, esasperato dall’ottusità umana, lo aveva finito a
colpi di proboscide.
Queste cose le
avevo sapute da mio nonno, gran narratore di storie, come ogni nonno dovrebbe
essere. Fu lui a raccontarmi anche il triste epilogo terreno dell’elefante
Fritz, ormai divenuto intrattabile e cronicamente malinco-nico. Assecondando così
un pensiero che da tempo serpeggiava a corte, di decise di eliminarlo. Si
riunirono i consiglieri del re, che scelsero per lui una morte incruenta. Si
trattava solo di una bestia, certo, ma pur sempre di stirpe nobile.
Si optò per l’asfissia, coi fumi di combustione di una grossa stufa a
legna.
A mano a mano che
il fumo saliva, raccontava mio nonno con un lento, inesorabile
gesti-colare, il povero pachiderma alzava la proboscide, alla ricerca di
aria respirabile.
Quella scena
s’impresse come un tatuaggio; drammatica come un vecchio disegno della
Domenica del Corriere. E mai più avrei scordato quella proboscide disperata,
che s’innalza come un pinnacolo dalla nuvola grigia e letale, che sale lenta
nella stalla.
Più tardi pensai
che mio nonno se li fosse inventati i dettagli della morte di Fritz, con quella
sua fantasia fervida e naif, che ti rapiva, come un incantatore di serpenti. Ma
parecchi anni dopo, scorrendo per puro caso le cronache di Michele Lessona,
scoprii che la storia autentica della morte di Fritz era precisa precisa come mi
era stata raccontata. E quasi non ci credetti.
Passai oltre,
lasciandomi dietro anche il povero pachiderma. E la bicicletta ormai non era
neppure più bicicletta, ma apparecchiatura aliena, silenziosa e trasparente.
Mossa dall’energia stessa del pensiero, della vita. Come se attingesse
carburante da quel mondo dove i colori erano gli stessi che conoscevo, ma più
vivi, e i dettagli più precisi e le forme più nitide. Eppure sapevo bene che
non si trattava di uno stralunato mondo onirico, anzi, dell’esatto contrario:
un mondo iperreale, dove, come in un Aleph, confluivano i tempi, e i futuri non
realizzati convivevano con quelli avverati, e l’essere con il poter essere. E
l’avvenuto con il desiderato. Era il mondo nella sua essenza più intima e
quindi più autentica.
E tutto ciò che
ora popolava quelle mie strade quotidiane, esisteva, eccome, anche durante la
veglia, ma andava perduto tra i chiassosi labirinti della quotidianità. Come
accade agli unicorni, che in effetti pascolano in gran numero sulle praterie del
mondo. Ma soltanto se hai la mente aperta e il cuore puro, soltanto se ti trovi
in un particolare stato di grazia li puoi vedere. A volte per un istante appena,
mentre il tuo sguardo rotola distratto fuori dal finestrino del treno.
Ma se perdi
quell’istante, se ti sfugge quella sensazione, tutto ciò che resta sono gli
stitici prati della cintura, con i loro capannoni, i centri commerciali, i
tralicci dell’alta tensione, su cui dimorano, in attesa di chissà cosa, le
cornacchie.
© luigi
bairo
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