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C.I.C.L.O.S.C.R.I.T.T.U.R.E.

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La vera bicicletta, quella che popola le strade della Bassa, non ha freno e i suoi copertoni devono essere debitamente sbudellati indi tamponati con trance di vecchie gomme, in modo da creare nel tubo pneumatico quei rigonfiamenti che poi permettono alla ruota di assumere uno spiritoso movimento sussultorio.

Giovannino Guareschi, La bicicletta, in Don
Camillo e il suo gregge

 


1. Hispaniola recondita di Luigi Bairo

2. Inno al dio della bicicletta di Luigi Bairo

3. Filobicisofia di Felicetta Gimondi

4. Canto ribelle del pedalatore notturno di Luigi Bairo

5. Il cortile di Felicetta Gimondi

6. Bici onirica di Luigi Bairo

7. Il passo Gaivia e altri spauracchi di A.D. Ascari


SCRITTURE VIANDANTI

 

green flower

 

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 HISPANIOLA RECONDITA

Repubblica Dominicana,
da qualche parte, non distante da Iguey

 

 

 

Se infili una delle strade di terra battuta che s'inoltrano nel mare verde sconfinato delle piantagioni di canna da zucchero, abbandoni l'isola che credevi di conoscere. Ti lasci alle spalle il fracasso torrido della provinciale, con i suoi camioncini scassati, le automobili prive di ogni accessorio, targa, frecce e fari compresi, ma con otto viaggiatori stipati non si sa come. Ti lasci alle spalle il ronzio insistente e onnipresente dei motorini, che sfrecciano con tre o quattro passeggeri e una quantità inverosimile di mercanzia. Esci dalle strade variopinte dei colori rosso bianco e viola dei partiti di Danìlo, Hippolito e del vecchio Balaguèr, che si stanno per scontrare nelle prossime elezioni.
Se con la bicicletta imbocchi una di queste strade di terra, abbandoni l’isola battuta dai turisti all inclusive intruppati negli autopullman e penetri in un mondo d’una bellezza lugubre e quasi onirica. Un mare silenzioso, disturbato soltanto dal ticchettio lieve della catena e dei pedali e dal vento che sibila tra le piante.
Mi viene in mente un racconto di George Lemming, scrittore antilliano di Barbados, che ricorda quando, da piccolo, per andare a messa, doveva camminare da solo per diversi chilometri in un paesaggio simile. Ed era terrorizzato dall’idea che dal folto delle piante balzasse fuori all’improvviso il terribile Uomo delle Canne, creatura bastarda e maligna come poche.
In effetti un paesaggio del genere, che s’ingoia persino la luce e la calura tropicale, non può che far venire i brividi.
E’ un inferno, in effetti, questo luogo, ma principalmente un inferno terreno : l’inferno desolato e inverosimile della schiavitù del Terzo Millennio.
"Laggiù non lavorano dominicani !", m’aveva detto con orgoglio Pedro, un conoscente di Santo Domingo, mentre scarabocchiava una mappa per la mia escursione.
La schiavitù ha generato figli e nipoti. I dominicani sono fieri di essersi affrancati dal disumano lavoro nelle piantagioni e di averlo lasciato ai "cugini" haitiani. I lavoratori, anzi, gli schiavi di Haiti entrano nel paese con permessi temporanei e dopo essersi spaccati la schiena nelle piantagioni per tre dollari la tonnellata, venfono immediatamente rimpatriati.
Haiti, l’altra faccia di Hispaniola, sul versante occidentale dell’isola. Mentre a Punta Cana i turisti all inclusive si abbuffano fino alla nausea in mense eliogabalesche, ad Haiti si muore di fame. Conseguenza di ferite colonialiste ancora infette e purulente, che non riescono a rimarginarsi.
Quando raggiunsero l’isola gli spagnoli si insediarono sul versante orientale, quello che ospita l’odierna Repubblica Dominicana e qui, in pochi decenni, riuscirono a sterminare la popolazione locale dei Tainos. Per lavorare nei campi vennero importati schiavi dall’Africa, più resistenti alla fatica. Quando riuscivano a sfuggire ai loro padroni, questi si rifugiavano nei selvaggi territori occidentali, dove formarono comunità e bande difficilmente controllabili. Per questo gli Spagnoli cedettero volentieri quei territori ai francesi. Ancora oggi la popolazione di Haiti è quasi totalmente nera, discendente di quegli antichi schiavi ribelli.
La piantagione che sto attraversando è di proprietà di una strapotente famiglia cubano-statunitense. Pedalo. In fondo ad un campo vedo alcuni contadini e un carro trainato da due buoi giganteschi. Una scena di agricoltura medioevale. I contadini si bloccano, mi guardano allibiti. Mai prima di allora la mia fatica pedalatoria m’era apparsa tanto stupida, inutile, borghese.
Pedalo e rimugino. Da dieci chilometri sono immerso in quel mondo e dubito che riuscirò ad uscirne fra appena cinque, come mi aveva indicato Pedro. Le distanze, i prezzi, le misure di tempo sono concetti relativi da queste parti.
All’improvviso sento qualcosa agitarsi in mezzo alla vegetazione. Il cuore ha un tonfo. Una figura sbuca all’improvviso in mezzo al sentiero. Non è l’Uomo delle Canne, per fortuna, ma un mar- mocchio di un metro, vestito di bianco. Altri bambini, una decina, si materializzano da quel mare verde. Restano un po’ interdetti trovandosi dinanzi questo strano viaggiatore, poi vengono all’assalto. Bambini ben curati e puliti, nonostante la terribile povertà. Mi fermano per chiedermi caramelle e penne, neanche soldi. Se Pedro me l’avesse detto...

Supero il villaggio haitiano : dieci baracche colorate in mezzo alla piantagione, dove alcune donne forse giovani, intente a stender panni mi osservano con la stessa incredulità di loro uomini e dei loro figli.
La piantagione sparisce all’improvviso, diradando in un paesaggio da pampa argentina, dove pedalo affannato fra ruminanti incredibilmente voluminosi che mi osservano con curiosità bovina. Poi, finalmente, in fondo alla discesa, l’asfalto...

Inno al dio della bicicletta

 


Tu che risorgi, anno
dopo anno
da queste bastarde
nebbie padane,
da questi inverni insulsi di cornacchie
e provinciali e settimane non percepite,
in attesa di poter
finalmente
trasgredire quel poco
tirando tardi il sabato notte.

 

Tu, dio per niente bucolico
come ingenuamente verrebbe
da pensare
e nemmeno dio bonario,
estatico sempre,
sorridente,
tutto tollerante
anche la merda smarmittante
che ingoi ogni giorno.

 

Tu, anzi,
dio futurista
cattivo
spaventoso,
come appare tutto
ciò che non ha radici,
ma che potrebbe, se
mai volesse, piantare
radici ovunque.

 

Tu, dio della bicicletta,
che vieni ogni anno, quando maggio
volge al termine e la magia, non di fata
turchina ma vudù
trasfigura questo mondo
ai miei occhi.

 

E tu vieni
dio stregone
a salvarmi da questo mondo
fetente
ricordandomi quanto basti poco
per chiudersi un’infinità di porte alle spalle
e pedalare e pedalare...
Seguire
questo flusso silente e profumato
di tropico
verso una strada
che gli ottusi chiamano fuga
ma che tu sai,
noi sappiamo,
è
l’alternativa,
l’alternativa nomade.

 

Tu, dio
beduino,
che risorgi quando maggio
volge dentro a giugno
e sciogli in un istante i nodi
incomprensibili
della mia irrequietezza
che inutilmente
sezionavo e sezionavo e sezionavo.

 

Tu dio potente
satiro
dio/vagabondo
del dharma,
che mi sussurri una vita
come un viaggio continuo.
Dio/metafora
di ribellione,
a te dedico questi miei
viaggi saltuari
e le frequenti visite
di pellegrino
a luoghi che ti santifico,
come quella piazzetta sperduta
o la quercia nodosa
o la rupe in cima alla salita
su cui esorcizzo il mio dolore
esistenziale,
sudandolo insieme a miliardi
di tossine.

 

Così,
mio caro dio,
mi ricordo di te,
pregustando il viaggio
drastico, definitivo,
quello che mi riserverò per ultimo,
quando raccoglierò le mie ultime
quattro cose
e chiuderò le ultime porte
alle mie spalle
e pedalerò pedalerò...

© luigi bairo


tornasù

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