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Abbiamo raggiunto l’estremo nord di Bali con uno scopo preciso: rendere omaggio al dio della bicicletta, che non può che trovarsi qui, nell’isola delle mille divinità. La variopinta e gaia congrega dell’eden induista balinese, ben più lieve e festoso di quello indiano, può stringersi un poco e far posto anche a lui. La nostra meta è il Pura Maduwe Karang, nei pressi di Kubutambahan, sull’estrema punta settentrionale di Bali. Questo bellissimo tempio dedicato alle divinità agresti è per lo più trascurato dai turisti, che gli preferiscono, va’ a capire perché, quello nella vicina Sangsit. Persino lo smandrappato guardiano del tempio si stupisce di vederci arrivare. S’alza trafelato dall’ombra di un patio sciancato, dove stava sonnecchiando, e ci viene incontro:

 “Era da un po’ che non venivano visitatori qui”.

Subito sbucano da non si sa dove tre marmocchi ben determinati, forse figli suoi. Ci fanno indossare il sarong, obbligatorio in ogni tempio induista, poi ci portano, anzi ci trascinano in giro, facendoci da guide. Recitano a memoria la storia del santuario, raccontano di Brahma creatore, Visnù protettore, Shiva distruttore. Talvolta recitano in coro. Si abbandonano pure a virtuosismi, ripetendo le stesse frasi in inglese, francese, tedesco, italiano e giapponese. Tanta erudizione andrà per forza ricambiata con una mancia supplementare; è chiaro.   Ci portano subito a vedere ciò per cui siamo venuti: il bassorilievo del ciclista, il Lotus Bike, sul muro esterno a sinistra del tempio. L’opera raffigura un uomo a cavallo di una bicicletta che ha petali e fiori al posto delle ruote e della moltiplica, e che pedala immerso in una cascata di fiori di loto. Uno dei marmocchi raccoglie un fiore bianco dal prato e lo infila sull’orecchio del ciclista.

Le piccole guide ci dicono che l’opera è del 1904 e raffigurerebbe un olandese di nome Nieuwenkamp.

  Il ciclista di Kubutambahan è del 1904. Molto è cambiato nei rapporti con i conquistatori europei. Appena due anni dopo sarebbe scoppiata la guerra di resistenza contro gli invasori dall’Olanda e molto sangue balinese sarebbe stato versato. Piuttosto che arrendersi alla palese superiorità militare europea, gli indigeni, seguendo l’esempio dei loro principi, avrebbero preferito lanciarsi in combattimenti suicidi. Il cosiddetto puputan, variante indonesiana del kamikaze. Diverse  migliaia di balinesi sarebbero caduti nell’inutile difesa di Denpasar. Ahi! Lo spettro abominevole del colonialismo viene ad adombrare la bellezza del ciclista di Kubutambahan. Questa proprio non me l’aspettavo. Eppure questo Nieuwenkamp mi ha incuriosito. Mi dico: se i balinesi hanno voluto raffigurare un europeo, olandese per di più, su questo importante tempio del nord, qualcosa di buono doveva pure avere.

 

Ubud, capitale artistica e culturale di Bali, recita la guida, precisa fino alla pedanteria. Ci siamo stabiliti al Loka House, una minuscola ma graziosa pensione indiana a pochi passi da una foresta popolata da dispettosi macachi. In una libreria del centro del villaggio trovo ciò che cerco su un pesante e costoso volume illustrato. Un personaggio indubbiamente affascinante: W.O.J. Nieuwenkamp, nato in Olanda nel 1874, fu tra i primi artisti europei a visitare Bali, dove visse per diversi anni, dando inizio al mito europeo dell’isola. Sopranno-minato “The Wanderer”, il vagabondo, fu pittore autodidatta e grafico, studioso di arte, viaggiatore, esploratore, archeologo dilettante, ciclista. Nieuwenkamp girava per l’isola in bicicletta alla ricerca di spunti figurativi e di templi inghiottiti dalla giungla e per questo rimase impresso nell’immaginario locale. Più tardi, quando la presenza di occidentali in Indonesia non era più ben vista, si trasferì in Italia, dove visse fino alla morte, nel 1950. E’ sepolto a Firenze.

 

 

Non ho la più pallida idea di che cosa ne pensasse questo Nieuwenkamp del colonialismo. Oggi la cosa ha ben poca importanza. Ciò che resta è questo bassorilievo che forse lo ritrae, tanto bello nella sua semplicità da lasciare senza parole. Magnifica espressione di un felice connubio tra macchina e natura. Quando tale connubio era ancora possibile. Perché la bicicletta, come aveva colto l’ignoto autore di quest’opera, è macchina soffice e discreta, che penetra la Natura senza violentarla. Ma resta anche qualcos’altro: l’inevitabile malinconia che accompagna noi viaggiatori di quest’epoca di tour operator e di tecnologia bippeggiante: il rimpianto di un’età d’oro dei viaggi; quando viaggiare era davvero un’arte

luigi bairo ©

tratto da Il ciclista di pietra dell'isola di Bali

publicato su L'ESPRESSO web

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