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FILOBICISOFIA       

 

 

La bicicletta è un mezzo di trasporto molto umano : infatti, come noi abbiamo due gambe, lei ha due ruote e questa somiglianza ci avvicina.

Esse non si muovono spinte da un motore, ma dalla forza viva delle nostre gambe.

E’ una ottima alleata per il nostro corpo atrofico.

Si sposta solo con l’energia pulita del nostro sudore, o con l’abbrivio regalato da una discesa. Inaspettata.

E’ fatta per chi non ha fretta di arrivare, ma ha pur sempre una meta, non certo ferma, ma una meta vagante.

Pedali al tuo ritmo e pensi : i tuoi pensieri escono dalla testa e poi, dopo una curva, li hai lasciati indietro ; è un ottimo rimedio contro l’intasamento cerebrale ed è economico, lo si può fare piu’ o meno ovunque, da soli o in compagnia, ma da soli è piu’ efficace.

Senti tutti gli odori mentre pedali, anche le puzze, senti le parole delle persone a piedi, e le sorpassi cullandoti nel rumore liquido della catena ben  oliata, che abbraccia le rotelle dentate e lancia le sfere lucide nel loro solco circolare.

La Bici risveglia i tuoi sensi e il tuo orgoglio, mentre alzi le braccia e tagli l’immaginario traguardo tra le due immaginarie ali di folla in delirio del tuo privato Bici Pride.

 

Felicetta Gimondi

 


 

 

IL CORTILE  

 

 

 

 

Mi ha risvegliato il tuo sguardo.

Stai giocando nella polvere del cortile tra le due grandi case, la luce accecante d’agosto forse mi ha colpito. E tu mi hai guardato.

Ma mi hai visto?

Hai abbassato il viso e hai ricominciato a giocare impastando la terra con l’acqua. Alle tue spalle gli orti ordinati, alla tua destra la vecchia strada del tram ed io, davanti a te, sul tetto della legnaia.

Da quando? Da quanto qualcuno non mi guarda?

Agli inizi della mia esistenza accompagnavo un uomo al lavoro. Partivamo la mattina col buio e tornavamo a notte. Sentivo i suoi pensieri grevi, a volte preoccupati, a volte era felice.

Un giorno abbiamo corso come fulmini verso casa. Nasceva il suo primo figlio e lui sudava e pregava mentre slittavamo sulla ghiaia e volavamo in una nuvola di polvere.

Mi muovevo parecchio prima. Il movimento è la vita stessa, la mia vita. E mi muovevo senza difficoltà, con pneumatica baldanza.

Poi è arrivata la guerra.

L’uomo è partito per il fronte. Io portavo la moglie e il bambino nel tragitto tra la casa e il passo; lì si incontravano con altre persone per un contrabbando di sopravvivenza. Era diverso con lei. Lungo la strada cantava , parlava col bimbo, pensava ad alta voce e si rivolgeva al mondo, al nemico, a Dio, al suo uomo, a se stessa, anche a me, mi incoraggiava, mi elogiava, mi malediva.

Per la prima volta, con lei, ho avuto la certezza di esistere, nelle sue mani che mi stringevano, nelle sue gambe che mi aiutavano, che mi muovevano.

Il movimento è il senso della mia esistenza.

Poi è tornato l’uomo, ferito, zoppo. Ed io non avevo più senso per lui.

Era un uomo stanco, spento, assente. Con tutti.

La sua donna lo guardava persa, mentre usciva col bimbo e me, per lavorare.

Lui restava muto nel cortile, seduto, guardando gli orti con quegli occhi scavati, pieni di fango, odio e morte, battendo il bastone sul legno della sua gamba, nutrendosi del nero e del rosso, mai sazio di silenzio.

Io, lei e il bimbo percorrevamo strade e ponti fino alla fabbrica. Il piccolo ed io restavamo col custode e lei entrava tra i vapori e la polvere, col viso vecchio. A volte si fermava sulla soglia, cogliendo un pensiero che le risuonava estraneo; poi lo ricacciava e entrava a testa bassa.

La sera a casa erano silenzi e rumori di stoviglie e niente altro.

Una sera rincasando, lui non si era mosso da quella sedia, a fianco aveva la sua mancanza e la pozza nera della sua vita che scendeva dal collo e dalla mano, fino alla polvere del cortile.

Partirono, la donna e il figlio.

Chiusero le imposte.

Caricarono su un carro poche cose, ed io non c’ero.

Mi dimenticarono sul tetto della legnaia, come cosa di un morto suicida, nessuno mi ha voluto.

Quasi che fossi io a portare il destino.

Il contrario del movimento mi ha inanimato, un sonno mi ha catturato.

Ho cessato di essere.

Contro il muro maestro, sul tetto di questa legnaia è trascorso qualcosa del quale non conosco il significato, ma che è pur sempre un movimento.

E ancora mi hai guardato. Non mi sbaglio.

La neve bianca abbagliante mi fa risaltare e mi guardi, con le mani nelle tasche della giacca a vento, alle spalle gli orti nascosti. Ti avvicini.

Poi ti chiamano, ti volti e ritorni ad impastare la neve con la neve.

Poi corri via. Ma ti fermi di colpo e mi guardi.

Mi tocca il tuo pensiero, sorrido al tuo sogno.

Ora il verde accecante della primavera è dappertutto.

Hai appoggiato una scala al tetto della legnaia, ti avvicini e mi scosti dal muro maestro ; cigolo mentre mi spingi verso la scala, mi leghi una corda alla canna e mi cali giù con prudenza.

L’odore del gasolio che mi pulisce e mi idrata, l’olio sulle mie giunture arrugginite, l’aria che mi rigonfia di esistenza, la tua mano che gioca con me.

La vita, è il movimento. Insieme.

 

 

Felicetta Gimondi

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