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G. Cusin, "Sessualità e conoscenza"
A cura di/Edited by: A. Cusin & G. Leo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Biografie dell'Inconscio
Anno/Year: 2013
Pagine/Pages: 476
ISBN: 978-88-97479-03-1
Prezzo/Price: €
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AA.VV.,
"Psicoanalisi e luoghi della riabilitazione", a cura
di G. Leo e G. Riefolo (Editors)
A cura di/Edited by: G. Leo & G. Riefolo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Id-entità mediterranee
Anno/Year: 2013
Pagine/Pages: 426
ISBN: 978-88-903710-9-7
Prezzo/Price: €
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AA.VV.,
"Scrittura e memoria", a cura di R. Bolletti (Editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, A. Arslan, R. Bolletti, P. De
Silvestris, M. Morello, A. Sabatini Scalmati.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Cordoglio e pregiudizio
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 136
ISBN: 978-88-903710-7-3
Prezzo/Price: € 23,00
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AA.VV., "Lo
spazio velato. Femminile e discorso
psicoanalitico"
a cura di G. Leo e L. Montani (Editors)
Writings by: A.
Cusin, J. Kristeva, A. Loncan, S. Marino, B.
Massimilla, L. Montani, A. Nunziante Cesaro, S.
Parrello, M. Sommantico, G. Stanziano, L.
Tarantini, A. Zurolo.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Confini della psicoanalisi
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 382
ISBN: 978-88-903710-6-6
Prezzo/Price: € 39,00
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AA.VV., Psychoanalysis
and its Borders, a cura di
G. Leo (Editor)
Writings by: J. Altounian, P.
Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P.
Jimenez, O.F. Kernberg, S. Resnik.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Borders of Psychoanalysis
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 348
ISBN: 978-88-974790-2-4
Prezzo/Price: € 19,00
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AA.VV.,
"Psicoanalisi e luoghi della negazione", a cura di A.
Cusin e G. Leo
Writings by:J.
Altounian, S. Amati Sas, M. e M. Avakian, W. A.
Cusin, N. Janigro, G. Leo, B. E. Litowitz, S. Resnik, A.
Sabatini Scalmati, G. Schneider, M. Šebek,
F. Sironi, L. Tarantini.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Id-entità mediterranee
Anno/Year: 2011
Pagine/Pages: 400
ISBN: 978-88-903710-4-2
Prezzo/Price: € 38,00
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"The Voyage Out" by Virginia
Woolf
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-97479-01-7
Anno/Year: 2011
Pages: 672
Prezzo/Price: € 25,00
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"Psicologia
dell'antisemitismo" di Imre Hermann
Author:Imre Hermann
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-3-5
Anno/Year: 2011
Pages: 158
Prezzo/Price: € 18,00
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"Id-entità mediterranee.
Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo
(editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A.
Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y.
Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M.
Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-2-8
Anno/Year: 2010
Pages: 520
Prezzo/Price: € 41,00
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"Vite soffiate. I vinti della
psicoanalisi" di Giuseppe Leo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Edizione: 2a
ISBN: 978-88-903710-5-9
Anno/Year: 2011
Prezzo/Price: € 34,00
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D.
Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik
Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini
ISBN: 978-88-340155-7-5
Anno/Year: 2009
Pages: 224
Prezzo/Price: € 20,00
"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi
Confini"
Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.
Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.
Publisher: Schena Editore
ISBN 88-8229-567-2
Price: € 15,00
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Comincia
con una scena. A scriverla è Mario Colucci, e sembra quasi la
prosecuzione di scene psichiatriche descritte da Foucault nel
“potere psichiatrico” . Si chiama “ Un caffè con Fabrizio”,
ci ritorneremo.
Premessa,
il numero di Aut Aut su
“ La diagnosi in psichiatria” è lavoro straordinario per
ricchezza di contenuti e scelta dei temi. In genere, due
elementi sono sufficienti per indurci a leggere qualcosa: la
bibliografia e gli autori.
Colucci
ha
curato il numero in questione proponendo interventi di Saraceno,
Dell’Acqua, Migone, Frances, Minard, Lingiardi, Gonon, Beneduce,
Degano Kieser, Gallio, Bertani, Marone, Schiacchitano, Stoppa, Rovatti
e Di Vittorio.
Si
parla di moltissimi temi nei vari articoli. La nota di Pier Aldo
Rovatti, in premessa, sintetizza nel modo più chiaro le direttrici di
ricerca. Un tema apparentemente specialistico, quello della
“diagnosi in psichiatria” affrontato con sguardi: “storico-genealogici, di analisi comparativa tra le
culture, di sondaggio sullo stato di salute della psichiatria
dominante, di nuovi dispositivi istituzionali, di valutazione delle
buone pratiche”.
Il
dibattito degli ultimi anni relativo alla pubblicazione della quinta
edizione del DSM riecheggia in alcuni passaggi. Penso, tuttavia, che
tutto il ragionamento intorno al sistema DSM svolga semplicemente una
funzione metonimica. Si parla per un bel po’ di DSM e ICD ma in
realtà l’oggetto di indagine è altro, si tratta del rapporto tra
psichiatria e salute mentale, per lo meno, e di quello che segue ad
astrazioni teoriche e implicazioni pragmatiche più ampie ( tra queste
la biopolitica e il neoliberalismo, of course).
Un
avvertimento, se qualcuno cercasse nei vari articoli facili ricette
pro o contro la diagnosi, nel rinnovarsi di un vecchio cliché
“repressione vs. liberazione”, resterebbe deluso. Il livello di
analisi è più sofisticato, meno lineare, a tratti complesso e con
sovrapposizioni di piani.
L’orizzonte
teorico della ricerca proposta, in cui possono situarsi anche le
problematiche più specialistiche e circoscritte, è definito, a mio
avviso, dalle considerazioni di Pierangelo di Vittorio, cui seguono su
un piano diverso quelle di Mario Colucci. Per inciso, Mario e
Pierangelo, qualche anno fa, hanno pubblicato una splendida monografia
su Basaglia e da tempo si confrontano con poste teoriche inaugurate da
Foucault.
Riporto
il passaggio di P. Di Vittorio che per me rappresenta il core teorico
del lavoro in questione: “ Si
può considerare la riforma della psichiatria come un processo storico
che si è biforcato in due direzioni diverse, persino opposte: da un
lato c’è la modernizzazione che, prendendo spunto dalla crisi del
manicomio come dispositivo di prevenzione contro i pericoli della
malattia mentale, si sviluppa nella direzione, prima di un
potenziamento della psichiatria come scienza della protezione
biologica della specie, poi di una gestione medico-politica delle
popolazioni finalizzata al miglioramento del loro “capitale
umano”; dall’altro c’è la trasformazione che, facendo leva
sulle contraddizioni della psichiatria cristallizzate nel manicomio,
investe la società della responsabilità politica di tutelare e
promuovere la salute mentale dei cittadini. Il problema è che questi
due movimenti hanno finito per convergere nella comune tendenza ad
andare oltre la psichiatria, verso la salute mentale. Tendenza perciò
rafforzata, ma al prezzo di una fondamentale opacità: quando parliamo
di salute mentale, ci riferiamo sempre, confondendole, a due opposte
“filosofie” della salute mentale. In questo modo, non solo la
differenza, ma anche il rapporto di forza esistente tra loro tende a
scomparire, con tutte le conseguenze che ne derivano”.
Un
bel colpo alle visioni progressiste. Insomma, c’è poco da stare
allegri a voler promuovere salute mentale: “
Se il patologico nel senso dell’alienismo tende a eclissarsi,
d’altra parte la medicalizzazione dell’anormale tende a
patologizzare una serie di comportamenti diffusi che, pur non essendo
codificati come malattie, sono giudicati pericolosi per la vita e la
salute della società” ( Di Vittorio, 2013).
Le
osservazioni di Pierangelo Di Vittorio meritano riflessioni e analisi
ulteriori. Mi scuso per una autocitazione, qualche tempo fa, suggerivo
il seguente schema: “ Castel
si proponeva di assiomatizzare il sistema dei dati che costituiscono
una ” politica della salute mentale”, articolando un numero finito
di elementi:
un
codice teorico (per esempio, nel XIX secolo, le nosografie
classiche); una tecnologia d’intervento ( per esempio il
“trattamento morale”), un dispositivo istituzionale ( per esempio
il manicomio); un corpo di professionisti ( per esempio i medici
primari), uno statuto dell’utente ( per esempio l’alienato
definito come minore assistito dalla legge del 1838 in Francia)
Semplificando:
al manicomio stava la dementia praecox e la privazione dei
diritti civili degli internati.
Nell’alveo
di tale concettualizzazione, oggi, dovremmo far corrispondere al
modello della vulnerabilità una politica della salute mentale di
comunità ed una attenzione ai diritti civili: cittadinanza,
inclusione, integrazione ( in sintesi: dalla legge di riforma 180 alla
Convenzione di Oviedo, alla legge sull’Amministrazione di sostegno).
Se
a un cambiamento in un “elemento” non corrispondono mutamenti
negli altri, anche le riforme più avanzate possono essere riassorbite
e neutralizzate”
( Nigro, 2011).
Tra
le cose scritte, benissimo, da Mario Colucci mi
soffermerei su due aspetti. In primo luogo sulla differenza che pone,
via Foucault de “Il potere psichiatrico”, tra diagnosi assoluta e
diagnosi differenziale. La psichiatria come scienza di cesura, che
ripete in una coazione infinita l’operazione di suddividere i
soggetti in sani o malati. La diagnosi differenziale quasi un residuo,
una ambizione teorica che a partire da Kraepelin impegna i
ricercatori. Da questa condivisibile osservazione translittera
comunque ipotizzando che la diagnosi categoriale del DSM in realtà
riproponga questo meccanismo. Vero in parte, ma in contraddizione con
l’altra ipotesi che vede nella proliferazione di categorie
diagnostiche del DSM l’apripista ad una patologizzazione sempre più
estesa della popolazione. L’altro punto importante della sua analisi
risiede nel tracciare elementi per un descrizione storica della
psichiatria italiana a partire dall’uso della diagnosi: “
operatori “volenterosi” riescono a mettere tra parentesi la
diagnosi facendosi promotori di pratiche di liberazione. Ma questi
operatori, che sembrano non prestare attenzione alla clinica e alle
nosografie, fanno davvero un buon lavoro? Pratiche di buona volontà,
ma pretenziose e scientificamente retrive. Vecchia/nuova polemica che
nella sua ultima versione è arrivata persino a stravolgere la
negazione dell’istituzione psichiatrica in negazione della
razionalità scientifica. Si è fatta valere una divisione tra
“quelli delle pratiche” da un lato, che tuteleranno pure i diritti
dei pazienti ma che sono “superficiali e ignoranti”, e “quelli
che fanno scienza” dall’altro, che sono invece “seri e
preparati” e per i quali questi pazienti sono innanzitutto oggetto
di studio e di terapia (vengo omesse le contenzioni e le porte
chiuse).
Quello
che non viene detto è che nella pratica tutti indistintamente fanno
diagnosi. Anche “quelli delle pratiche” non possono certo
sottrarsi a un inquadramento nosografico: semmai ci sarebbe da
domandarsi, da parte di “quelli che fanno scienza”, come questo
venga concretamente costruito, attraverso quali codici nella realtà
quotidiana dell’incontro clinico e con quanta consapevolezza che in
ogni caso nella loro operazione diagnostica mescoleranno, a dosi
differenti, pretesi fatti con misconosciute opinioni” (
Colucci, 2013).
Sin
qui bene, forse però è giunto il tempo di pensare strategie per la
salute mentale e dunque di rinvenire genealogie storiche più
produttive.
Sulla
diagnosi, sul DSM non possiamo che dire “ è un sistema di
classificazione. Ceci est un DSM!”. Il problema che si pone consiste
nel riconoscere che la sola diagnosi psichiatrica è insufficiente non
solo a descrivere un soggetto ma anche a formulare progetti di cura o
prospettare prognosi. E’ patrimonio diffuso quello di riconoscere la
povertà delle diagnosi categoriali vs. quelle dimensionali ed ancora
quello di utilizzare negli studi di esito altre variabili oltre, non
dico la diagnosi, ma la sola dimensione psicopatologica. Si
utilizzano, lo sappiamo tutti, altri indicatori
(
funzionamento sociale, qualità di vita, soddisfacimento dei bisogni).
Sono
accadute un po’ di cose nel panorama della salute mentale. Cronicità
e difettualità, per molti decenni del novecento, hanno rappresentato
elementi essenziali del paradigma kraepeliniano della schizofrenia.
Gli studi epidemiologici sui decorsi ed esiti
delle sindromi schizofreniche, a partire dagli anni ’70,
falsificando il concetto di cronicità e difettualità hanno
rivoluzionato il tradizionale modello della schizofrenia.
Un
altro filone di ricerca, a partire dallo stesso periodo, che ha
notevolmente contribuito al
cambiamento di paradigma interpretativo sulla sindrome
schizofrenica, è stato rappresentato dal cosiddetto modello della
vulnerabilità (Zubin e Spring 1977, Nuechterlein e Dawson 1984, Kapur
2010).
Alla
luce dei risultati di questi studi empirici e di questo nuovo quadro
di riferimento non è più possibile assimilare schizofrenia a
cronicità. La schizofrenia non è una malattia cronica il cui
organizzatore psicopatologico è rappresentato dalla ingravescente
demenzialità, ma non è nemmeno riducibile alla "sindrome di
Schneider" e cioè ad una costellazione di sintomi acuti e
produttivi che di fatto compaiono in talune fasi del percorso
schizofrenico (Rossi Monti e Stanghellini 1999).
Gli
studi sull’esito clinico e sociale della schizofrenia sono assai
numerosi (Ruggeri e Lasalvia 2003) e ricchi di dati, a partire dagli
studi longitudinali retrospettivi di “ prima generazione” (
Bleuler 1974, Huber et al. 1975,
Ciompi 1980, Winokur e Tsuang 1975)
che evidenziavano, in studi catamnestici
assai prolungati nel tempo ( 23 anni, nello studio di M.
Bleuler, e 37 anni in quello di Ciompi)
la presenza di diversi pattern di decorso e differenti pattern
di esito.
In
particolare, nello studio di M. Bleuler risultavano individuati otto
diversi pattern di decorso e quattro differenti pattern di esito:
esito favorevole nel 20% dei casi (remissione completa della
sintomatologia e presenza di un soddisfacente funzionamento sociale
nel corso degli ultimi cinque anni); remissione incompleta dei sintomi
associata a un adeguato funzionamento per il 32% dei soggetti; nel 24%
dei casi una remissione incompleta dei sintomi in presenza di un
funzionamento adeguato solo in alcune aree, e un esito sfavorevole (
caratterizzato da sintomatologia persistente, ritiro sociale ed
incapacità lavorativa) nel restante 24%.
Nello
studio di Ciompi venivano descritti otto diversi pattern di decorso,
tra i più frequenti quello caratterizzato da esordio acuto, andamento
fasico, esito con remissione o disturbi lievi ( 25% ), un secondo
contraddistinto da esordio cronico, evoluzione semplice, esito con
disturbi moderati o gravi ( 24% ) e uno con esordio cronico e
andamento fasico nel 15% dei casi; e quattro pattern di esito:
remissione completa della sintomatologia nel 27% dei soggetti,
condizione di lieve deterioramento nel 22% dei casi, deterioramento
moderato nel 24% ed una condizione di grave deterioramento nel
restante 18% dei soggetti (
Ruggeri e Lasalvia 2003 ). Le dimensioni cliniche e sociali dei
decorsi e degli esiti seguono percorsi che configurano modelli a
sistemi aperti, dotati di relativa autonomia (Eaton et al. 1998).
Un
vasto insieme di ricercatori ha contribuito all’elaborazione del
concetto di vulnerabilità.
Nel 1977, Zubin e Spring proposero un modello della
vulnerabilità, in cui sostenevano che: “ i sintomi schizofrenici emergono quando soggetti vulnerabili sono
sottoposti ad accadimenti stressanti soprasoglia di origine esogena
(eventi esterni) o endogena (eventi biochimici)” (Zubin e Spring
1977).
Analogamente,
Nuechterlein e Dawson nel 1984 descrissero un modello vulnerabilità/stress
per lo studio dello sviluppo di episodi schizofrenici. Caratteristiche
di vulnerabilità individuale ( quali riduzione della capacità di
elaborazione, iperreattività del sistema nervoso autonomo agli
stimoli stressanti, deficit della competenza sociale ed adattabilità)
interagendo con stimoli ambientali stressanti possono dar luogo ad
episodi schizofrenici (Nuechterlein e Dawson 1984). Nello stesso
periodo e provenendo da tradizione psichiatrica differente, Ciompi
proponeva un modello di vulnerabilità nel quale assumevano importanza
gli schemi logico-affettivi di riferimento (Ciompi 1982). Al concetto
di vulnerabilità individuale sono state rivolte ricerche da parte di
Carlo Perris. Nel modello di Perris si assume che la vulnerabilità
individuale non sia esclusivamente di tipo biologico, ma sia il
risultato di interazioni continue tra fattori biologici e psicosociali,
che avvengono nel corso dello sviluppo ( anche nel contesto di
relazioni precoci) e determinano l’interiorizzazione di modelli
operativi interni di sé e delle relazioni con gli altri più
o meno adattivi ( Perris 1989 ). Interessante risulta il
tentativo, operato da Stanghellini, di confrontare il modello della
vulnerabilità con quello dei sintomi ( o fenomeni) base elaborato
dalle scuole tedesche (Stanghellini 1997).
Al
di là della dicotomia acuzie-cronicità si situa il concetto di
vulnerabilità secondo il quale ciò che perdura nel tempo sono tratti
preesistenti e persistenti identificati come esperienze disturbanti
dal soggetto stesso, a partire dalle quali possono svilupparsi - in
particolari condizioni di sollecitazione ambientale - fenomeni
psicotici conclamati (Rossi Monti e Stanghellini 1999).
Recovery
e early psychosis
Due
filoni di ricerca, in particolare, a mio avviso, meritano attenzione
nella fase attuale. Quello del recovery e quello degli interventi
precoci nelle psicosi.
Il
tema della guarigione (recovery) sta assumendo un peso
considerevole nella letteratura scientifica internazionale e, in molti
Paesi, le politiche per l’assistenza psichiatrica hanno iniziato a
prevedere in modo esplicito le strategie per garantire un’assistenza
recovery-oriented (CSIP et al. 2007). Questo rilievo nella
letteratura e nelle politiche è anche una prima risposta alle
sollecitazioni in tal senso che sono venute dalle organizzazioni dei
familiari e degli utenti, che non accettano che l’efficacia dei
trattamenti offerti venga disgiunta dalla presenza di aspettative
favorevoli e di strategie di empowerment.
Nella
letteratura scientifica una ricca mole di dati evidenzia che
intervenire precocemente negli esordi psicotici, riducendo la DUP
(Durata di psicosi non trattata), predice il miglioramento degli
esiti, che vi è un periodo critico compreso tra due e cinque anni
dall’esordio in cui è importante utilizzare interventi psicosociali
oltre a quelli farmacologici, che i miglioramenti realizzati con tali
interventi intensivi, presso servizi dedicati, possono essere
conservati se si continuano a erogare interventi psicosociali anche di
minor intensità (Harrison 2001, Marshall 2005, Yung 2012, McGorry
2013, Bertelsen 2008, Norman 2011).
Numerosi
dati di ricerca evidenziano che quanto più precoce è l’intervento
nelle psicosi all’esordio tanto migliore è l’esito, sia sulle
dimensioni cliniche che sul funzionamento psicosociale e che i
risultati conseguiti con trattamenti psicosociali intensivi
nei primi anni vengono conservati nel tempo, quando si
garantisca la prosecuzione di cure di mantenimento ( Marshall 2005,
Opus trial 2008, Norman 2011, Yung 2012).
In particolare, la meta-analisi condotta da Marshall e coll.
evidenzia il ruolo della DUP sugli outcomes, sottolineando che
quanto minore è la DUP tanto migliori risultano gli esiti misurati su
diversi assi: psicopatologia, funzionamento psicosociale e qualità di
vita.
Bertelsen
e coll. hanno condotto in Danimarca
un trial RCT
(OPUS trial)
per valutare l’efficacia di interventi early psychosis verso
interventi standard,
su una coorte di 547 pazienti seguiti per due anni. Gli
interventi evidence based utilizzati erano l’assertive community
treatment (ACT), la psicoeducazione familiare e il social skills
training. Gli interventi intensivi precoci, al follow-up di due anni,
mostravano, verso quelli standard, outcome migliori, in particolare,
consentendo più efficace remissione sintomatologica e
più elevati livelli di funzionamento sociale
Al
termine dei due anni, gli interventi intensivi, nello studio di
Bertelsen, vennero sospesi. Al follow-up a cinque anni i risultati
conseguiti risultavano quasi tutti persi, non riscontrandosi alcuna
differenza tra i due gruppi
early psychosis /vs standard, tranne per alcune dimensioni (
come per es. il riuscire a vivere autonomamente senza ricorrere a
supported housing, anche a cinque anni, per i soggetti della coorte
early psychosis).
Tale
dato ha sollecitato ulteriori ricerche, al fine di poter programmare
interventi intensivi, per un certo periodo, seguiti da interventi
estensivi, con lo scopo di conservare i risultati conseguiti per
periodi prolungati, anche dopo la cessazione degli interventi
intensivi.
Il
gruppo canadese di Norman e coll., in tal senso ha condotto una
ricerca in cui si evidenzia che i risultati conseguiti a due anni,
dopo l’erogazione di interventi intensivi, vengono conservati a
cinque anni,
purchè,
allo scadere del periodo intensivo segua una fase estensiva con
erogazione di interventi a minore intensità, ma pur sempre presenti e
strutturati.
Proposte
per dibattiti e pratiche
In
qualche parte di “Sorvegliare e punire” Foucault afferma che “
la disciplina è un’anatomia politica del dettaglio” e un po’
oltre “ Non basta aver il gusto dell’architettura. Bisogna
conoscere il taglio delle pietre”.
Penso
perciò che quando si parla di interventi precoci nelle psicosi, al
fine di sfatare il problema della somministrazione
farmacologica a falsi positivi, sarebbe bene ricordare che
l’uso di antipsicotici non è previsto come prima scelta; per i
pazienti UHR (
ultra high risk) si tratta di progettare
interventi psicosociali che evitino la transizione in psicosi.
Cercando
però di riassumere la mia proposta di discussione, la riformulerei in
tali termini. Il potere esiste, disciplina e produce, i meccanismi
biopolitici pervadono e strutturano le nostre esistenze; come
rinvenire spazi di produttività e liberazione dunque? In salute
mentale per lo meno ( resto fedele alla microfisica ). Credo ci sia
bisogno per lo meno di alleanze o progetti tra operatori con una
visione recovery-oriented e, va da sé con utenti e società civile (
mi piace di più che associazioni familiari. Il rapporto tra
psichiatria e famiglie non è stato poi sempre così progressista).
Qualche
spunto ulteriore vorrei trarlo dalle osservazioni di Benedetto
Saraceno. Direttore del Dipartimento di salute Mentale e abuso di
sostanze dell’OMS dal 1999 al 2010, autore di numerosissimi paper
per l’OMS e dello splendido testo dal sapore blanchottiano “La
fine dell’intrattenimento” ( e in cui esordiva dicendo di
appartenere a quella comunità di psichiatri che mescolavano letture
di studi di esito a saggi di Foucault e Deleuze e poi intitolava il
libro, almeno a mio avviso, sulla scia de “ L’infinito
intrattenimento” di Blanchot). Saraceno, dopo aver fatto notare che
nel mondo su cento persone
che soffrono di un disturbo mentale solo quaranta sono
destinate a incontrare un medico, e solo quindici uno psichiatra,
osserva “ man mano che il modello biomedico della psichiatria ha
dovuto, in coincidenza con la nascita del welfare, confrontarsi con
modelli organizzativi diversi, ipotesi eziologiche diverse, spinte
culturali
extramediche, istanze sociali e mutamenti politici, invece che
porsi in uno stato di crisi e auto interrogazione ( in quello stato
epocale in cui Basaglia
l’aveva salutarmente costretta), gli psichiatri si sono
limitati ad “ aggiungere”. Includere nuovi ambiti di osservazione
e nuove competenze, senza elaborare l’inevitabile trasformazione
epistemologica e metodologica che ogni inclusione comportava. In tal
modo il nucleo centrale della “questione psichiatrica” è venuto
allo scoperto: ci si è cominciati a chiedere fino a che punto questa
disciplina possa continuare a esistere come una branca della medicina,
o se invece, nel momento in cui assume come oggetto di osservazione e
intervento aspetti sempre più lontani dal suo campo tradizionale di
applicazione, cessi di esistere come specialità medica e diventi
qualcosa d’altro: qualcosa di indefinito e forse da definire. Anche
rispetto alla diagnosi la cultura additiva si è limitata a prendere
atto dell’insufficienza dei precedenti strumenti, aggregando sempre
nuove informazioni. L’impressione è che gli psichiatri non sappiano
o non vogliano prendere atto che il contenitore non è infinito. Da
qui anche l’inutilità del dibattito pro o contro la diagnosi. La
questione andrebbe piuttosto formulata nel modo seguente: fino a che
punto la diagnosi continua a essere un informatore efficace se le
variabili che utilizziamo come informatori parziali si moltiplicano e
si sommano, ed entro quali limiti questa somma di informazioni serve a
rendere la diagnosi più articolata e ricca, o ( anche) a metterla in
discussione e invalidarne il potere informativo. Se la comunità
scientifica produceva diagnosi differenziate, la comunità dei curanti
in pratica le ignorava, dato che no proponevano alcuna
differenziazione di natura prognostica o di strategia di intervento.
Da alcuni decenni la comunità scientifica e la comunità dei curanti
hanno un interesse in comune che prima non avevano: differenziare la
diagnosi. Questo tuttavia è vero solo parzialmente; se da un lato le
offerte terapeutiche e gli “ scenari” dell’intervento si sono
articolati e diffusi, in modo da favorire la progressiva
individualizzazione dei percorsi di cura e la differenziazione degli
esiti, dall’altro le strategie di intervento, cioè i trattamenti,
sono a tuttora fortemente standardizzati, poveri di strumenti e di
contenuti, e poco o per nulla modulati sui bisogni dei singoli
individui. In altre parole, la separazione fra comunità scientifica e
comunità dei curanti, che è palese quando esistevano i manicomi,
tutto sommato permane anche fuori dai manicomi. E mentre la comunità
scientifica vive nell’illusione ( e mistificazione) della diagnosi
come strumento altamente differenziato, la comunità dei curanti
continua a praticare terapie standardizzate che non “ vedono” le
differenze, mantenendo i propri pazienti all’interno di una
indifferenziazione ( e indifferenza) clinica e morale”.
In
sintesi, condividendo l’osservazione di Beneduce sulla debolezza
epistemologica della diagnosi a fronte della sua forza performativa,
penso che dovremmo definire meglio il concetto di “comunità di
curanti”, pensandola meno contrapposta alla “comunità
scientifica”. Insomma, “quelli delle pratiche” sono anche quelli
che debbono avere know how molto aggiornato e debbono abituarsi a
produrre dati scientifici. Perciò ritengo importante mettere in
comune conoscenze
recovery oriented.
L’ho
detto all’inizio, mi è piaciuta molto, nello scritto di Mario
Colucci, la scena di apertura “ Un caffè con Fabrizio”. Fabrizio
è legato al letto di un SPDC, alla domanda del giovane psichiatra sul
perché ciò possa accadere il collega anziano risponde lapidario: “
Perché è schiZZofrenico, Colucci!Figlio di schizzofrenica e fratello
di schizzofrenica”.
Bene, suppongo nella stessa città ove ipotizzo si sia svolta
la scena venti anni fa del “ Perché è schiZZofrenico”,
recentemente un ricercatore, scientificamente molto valido, si è
rivolto ad un centro per gli interventi precoci negli esordi,
chiedendo “ tra i vostri ragazzi vi sono schizofrenici?”, risposta
della psicoterapeuta: “ cerchiamo di non farli diventare”.
P.s.:
Gli altri articoli, trattano poi ambiti più specialistici. Esemplare,
ad es. l’articolo di Minard nel tracciare una sorta di genealogia
del sistema DSM mostrandone le direttrici di ricerca delle diverse
task force ( a partire dalla iniziale impostazione psicoanalitica del
DSM-I alla più nota formulazione ateoretica del DSM-III di Bob
Spitzer) e aspetti di contesto di importanza notevolissima; ci
riferiamo
alla lotta degli omosessuali americani che porterà alla
derubricazione come categoria diagnostica
dell’omosessualità nel DSM-III ( lo era nel DSM-II del 1968)
e alla lotta dei veterani del Vietnam per il riconoscimento nel
DSM-III del PTSD.
E
poi, articoli di Allen Frances, direttore della task force del DSM-IV,
per chi voglia entrare più in dettaglio sul dibattito “prossima
uscita del DSM5”, e Migone e Lingiardi per uno sguardo sulla
diagnosi, a partire dal sistema DSM, verso la psicoanalisi (PDM e SWAP).
Piccola
nota su Peppe Dell’Acqua. Articolo bellissimo che si dipana tra
violenze istituzionali,
esperienze
anti istituzionali, metodi di lavoro alieni da tecnicismi. Due
osservazioni, la prima: a furia di smarcarsi dalle tecniche ( la
psicofarmacologia, le psicoterapie, la riabilitazione, la
fenomenologia ) si ha l’impressione di osservare una psichiatria
allo stato nascente, perennemente fondativa (pineliana,
almeno come mito). La seconda: siamo certi che alcune delle cose
esemplari che Dell’Acqua racconta non siano patrimonio di un gruppo
più vasto di operatori? Non ricorrere alla contenzione, ascoltare e
rispettare i pazienti, ricostruire biografie, fornire potenza per
processi identari?
Va
benissimo fare storia di un movimento anti istituzionale,
importantissimo per i suoi risvolti scientifici, etici, politici.
Attenzione però, lo dico davvero sommessamente, alla cifra della
esemplarietà; perché può essere letta da alcuni come
deresponsabilizzante : “ a Trieste sì che fanno bene le cose…qui
da noi non si può”, o con altra variante non meno delegante “ non
ce lo fanno fare”. Vorrei riuscire a non essere frainteso, adoro le
cose fatte e scritte da dell’Acqua. Lo preferisco però quando lo
vedo meno arroccato su posizioni identitarie e lo ascolto in simposi
alla WAPR o incontro Mezzina in workshop della SIEP. Per dirla con uno
slogan: “ Meno arroccamenti ( categorie?) e più dimensionalità
delle esperienze e pratiche ( con alleanze di Società scientifiche in
continuità dimensionali che non alterino le specificità)”.
Strategie e tattiche per arricchire soggettività e utilizzare
pratiche discorsive e costrutti scientifici che potenzino.
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