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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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OLTRE LA DIAGNOSI

 

 

 Recensione di Pietro Nigro* del n.357/2013 di Aut Aut su "La diagnosi in psichiatria"

 


 


357copertina

(*) Pietro Nigro, coordinatore SIRP Puglia, psichiatra DSM ASL Bari. Si interessa dell'efficacia degli interventi psicosociali, con particolare attenzione al loro utilizzo nella pratica dei servizi. In tale ottica, recentemente, cerca di occuparsi di "recovery", "early psychosis" e impatto della crisi economica sulla organizzazione dei servizi e salute mentale

            

 

 

  

 

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

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Silvio G. Cusin, "Sessualità e conoscenza"

A cura di/Edited by:  A. Cusin & G. Leo

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Collana/Collection: Biografie dell'Inconscio

Anno/Year: 2013 

Pagine/Pages: 476

ISBN:  978-88-97479-03-1

 Prezzo/Price: € 39,00

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AA.VV., "Psicoanalisi e luoghi della riabilitazione", a cura di G. Leo e G. Riefolo (Editors)

 

A cura di/Edited by:  G. Leo & G. Riefolo

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Collana/Collection: Id-entità mediterranee

Anno/Year: 2013 

Pagine/Pages: 426

ISBN: 978-88-903710-9-7

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AA.VV., "Scrittura e memoria", a cura di R. Bolletti (Editor) 

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, A. Arslan, R. Bolletti, P. De Silvestris, M. Morello, A. Sabatini Scalmati.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Collana: Cordoglio e pregiudizio

Anno/Year: 2012 

Pagine/Pages: 136

ISBN: 978-88-903710-7-3

Prezzo/Price: € 23,00

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AA.VV., "Lo spazio  velato.   Femminile e discorso psicoanalitico"                             a cura di G. Leo e L. Montani (Editors)

Writings by: A. Cusin, J. Kristeva, A. Loncan, S. Marino, B. Massimilla, L. Montani, A. Nunziante Cesaro, S. Parrello, M. Sommantico, G. Stanziano, L. Tarantini, A. Zurolo.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Collana: Confini della psicoanalisi

Anno/Year: 2012 

Pagine/Pages: 382

ISBN: 978-88-903710-6-6

Prezzo/Price: € 39,00

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AA.VV., Psychoanalysis and its Borders, a cura di G. Leo (Editor)


Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jimenez, O.F. Kernberg,  S. Resnik.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Collana/Collection: Borders of Psychoanalysis

Anno/Year: 2012 

Pagine/Pages: 348

ISBN: 978-88-974790-2-4

Prezzo/Price: € 19,00

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AA.VV., "Psicoanalisi e luoghi della negazione", a cura di A. Cusin e G. Leo
Psicoanalisi e luoghi della negazione

Writings by:J. Altounian, S. Amati Sas, M.  e M. Avakian, W.  A. Cusin,  N. Janigro, G. Leo, B. E. Litowitz, S. Resnik, A. Sabatini  Scalmati,  G.  Schneider,  M. Šebek, F. Sironi, L. Tarantini.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Collana/Collection: Id-entità mediterranee

Anno/Year: 2011 

Pagine/Pages: 400

ISBN: 978-88-903710-4-2

Prezzo/Price: € 38,00

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"The Voyage Out" by Virginia Woolf 

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-97479-01-7

Anno/Year: 2011 

Pages: 672

Prezzo/Price: € 25,00

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"Psicologia dell'antisemitismo" di Imre Hermann

Author:Imre Hermann

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-903710-3-5

Anno/Year: 2011

Pages: 158

Prezzo/Price: € 18,00

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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo (editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A. Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y. Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M. Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-2-8

Anno/Year: 2010

Pages: 520

Prezzo/Price: € 41,00

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"Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi" di Giuseppe Leo 

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Edizione: 2a

ISBN: 978-88-903710-5-9

Anno/Year: 2011

Prezzo/Price: € 34,00

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OTHER BOOKS

"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini

ISBN: 978-88-340155-7-5

Anno/Year: 2009

Pages: 224

Prezzo/Price: € 20,00

 

"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi Confini" 

Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.

Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas, Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.

Publisher: Schena Editore

ISBN 88-8229-567-2

Price: € 15,00

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Comincia con una scena. A scriverla è Mario Colucci, e sembra quasi la prosecuzione di scene psichiatriche descritte da Foucault  nel “potere psichiatrico” . Si chiama “ Un caffè con Fabrizio”, ci ritorneremo.

Premessa, il numero di Aut Aut  su “ La diagnosi in psichiatria” è lavoro straordinario per  ricchezza di contenuti e scelta dei temi. In genere, due elementi sono sufficienti per indurci a leggere qualcosa: la bibliografia e gli autori.

Colucci  ha curato il numero in questione proponendo interventi di Saraceno, Dell’Acqua, Migone, Frances, Minard, Lingiardi, Gonon, Beneduce, Degano Kieser, Gallio, Bertani, Marone, Schiacchitano, Stoppa, Rovatti e Di Vittorio.

Si parla di moltissimi temi nei vari articoli. La nota di Pier Aldo Rovatti, in premessa, sintetizza nel modo più chiaro le direttrici di ricerca. Un tema apparentemente specialistico, quello della “diagnosi in psichiatria” affrontato con sguardi: “storico-genealogici, di analisi comparativa tra le culture, di sondaggio sullo stato di salute della psichiatria dominante, di nuovi dispositivi istituzionali, di valutazione delle buone pratiche”.

Il dibattito degli ultimi anni relativo alla pubblicazione della quinta edizione del DSM riecheggia in alcuni passaggi. Penso, tuttavia, che tutto il ragionamento intorno al sistema DSM svolga semplicemente una funzione metonimica. Si parla per un bel po’ di DSM e ICD ma in realtà l’oggetto di indagine è altro, si tratta del rapporto tra psichiatria e salute mentale, per lo meno, e di quello che segue ad astrazioni teoriche e implicazioni pragmatiche più ampie ( tra queste la biopolitica e il neoliberalismo, of course).

Un avvertimento, se qualcuno cercasse nei vari articoli facili ricette pro o contro la diagnosi, nel rinnovarsi di un vecchio cliché “repressione vs. liberazione”, resterebbe deluso. Il livello di analisi è più sofisticato, meno lineare, a tratti complesso e con sovrapposizioni di piani.

L’orizzonte teorico della ricerca proposta, in cui possono situarsi anche le problematiche più specialistiche e circoscritte, è definito, a mio avviso, dalle considerazioni di Pierangelo di Vittorio, cui seguono su un piano diverso quelle di Mario Colucci. Per inciso, Mario e Pierangelo, qualche anno fa, hanno pubblicato una splendida monografia su Basaglia e da tempo si confrontano con poste teoriche inaugurate da Foucault.

Riporto il passaggio di P. Di Vittorio che per me rappresenta il core teorico del lavoro in questione: “ Si può considerare la riforma della psichiatria come un processo storico che si è biforcato in due direzioni diverse, persino opposte: da un lato c’è la modernizzazione che, prendendo spunto dalla crisi del manicomio come dispositivo di prevenzione contro i pericoli della malattia mentale, si sviluppa nella direzione, prima di un potenziamento della psichiatria come scienza della protezione biologica della specie, poi di una gestione medico-politica delle popolazioni finalizzata al miglioramento del loro “capitale umano”; dall’altro c’è la trasformazione che, facendo leva sulle contraddizioni della psichiatria cristallizzate nel manicomio, investe la società della responsabilità politica di tutelare e promuovere la salute mentale dei cittadini. Il problema è che questi due movimenti hanno finito per convergere nella comune tendenza ad andare oltre la psichiatria, verso la salute mentale. Tendenza perciò rafforzata, ma al prezzo di una fondamentale opacità: quando parliamo di salute mentale, ci riferiamo sempre, confondendole, a due opposte “filosofie” della salute mentale. In questo modo, non solo la differenza, ma anche il rapporto di forza esistente tra loro tende a scomparire, con tutte le conseguenze che ne derivano”.

Un bel colpo alle visioni progressiste. Insomma, c’è poco da stare allegri a voler promuovere salute mentale: “ Se il patologico nel senso dell’alienismo tende a eclissarsi, d’altra parte la medicalizzazione dell’anormale tende a patologizzare una serie di comportamenti diffusi che, pur non essendo codificati come malattie, sono giudicati pericolosi per la vita e la salute della società” ( Di Vittorio, 2013).

Le osservazioni di Pierangelo Di Vittorio meritano riflessioni e analisi ulteriori. Mi scuso per una autocitazione, qualche tempo fa, suggerivo il seguente schema: “ Castel si proponeva di assiomatizzare il sistema dei dati che costituiscono una ” politica della salute mentale”, articolando un numero finito di elementi:  un  codice teorico (per esempio, nel XIX secolo, le nosografie classiche); una tecnologia d’intervento ( per esempio il “trattamento morale”), un dispositivo istituzionale ( per esempio il manicomio); un corpo di professionisti ( per esempio i medici primari), uno statuto dell’utente ( per esempio l’alienato definito come minore assistito dalla legge del 1838 in Francia)

Semplificando:  al manicomio stava la dementia praecox e la privazione dei diritti civili degli internati.

Nell’alveo di tale concettualizzazione, oggi, dovremmo far corrispondere al modello della vulnerabilità una politica della salute mentale di comunità ed una attenzione ai diritti civili: cittadinanza, inclusione, integrazione ( in sintesi: dalla legge di riforma 180 alla Convenzione di Oviedo, alla legge sull’Amministrazione di sostegno).

 Se a un cambiamento in un “elemento” non corrispondono mutamenti negli altri, anche le riforme più avanzate possono essere riassorbite e neutralizzate” ( Nigro, 2011).

Tra le cose scritte, benissimo, da Mario Colucci  mi soffermerei su due aspetti. In primo luogo sulla differenza che pone, via Foucault de “Il potere psichiatrico”, tra diagnosi assoluta e diagnosi differenziale. La psichiatria come scienza di cesura, che ripete in una coazione infinita l’operazione di suddividere i soggetti in sani o malati. La diagnosi differenziale quasi un residuo, una ambizione teorica che a partire da Kraepelin impegna i ricercatori. Da questa condivisibile osservazione translittera comunque ipotizzando che la diagnosi categoriale del DSM in realtà riproponga questo meccanismo. Vero in parte, ma in contraddizione con l’altra ipotesi che vede nella proliferazione di categorie diagnostiche del DSM l’apripista ad una patologizzazione sempre più estesa della popolazione. L’altro punto importante della sua analisi risiede nel tracciare elementi per un descrizione storica della psichiatria italiana a partire dall’uso della diagnosi: “ operatori “volenterosi” riescono a mettere tra parentesi la diagnosi facendosi promotori di pratiche di liberazione. Ma questi operatori, che sembrano non prestare attenzione alla clinica e alle nosografie, fanno davvero un buon lavoro? Pratiche di buona volontà, ma pretenziose e scientificamente retrive. Vecchia/nuova polemica che nella sua ultima versione è arrivata persino a stravolgere la negazione dell’istituzione psichiatrica in negazione della razionalità scientifica. Si è fatta valere una divisione tra “quelli delle pratiche” da un lato, che tuteleranno pure i diritti dei pazienti ma che sono “superficiali e ignoranti”, e “quelli che fanno scienza” dall’altro, che sono invece “seri e preparati” e per i quali questi pazienti sono innanzitutto oggetto di studio e di terapia (vengo omesse le contenzioni e le porte chiuse).

Quello che non viene detto è che nella pratica tutti indistintamente fanno diagnosi. Anche “quelli delle pratiche” non possono certo sottrarsi a un inquadramento nosografico: semmai ci sarebbe da domandarsi, da parte di “quelli che fanno scienza”, come questo venga concretamente costruito, attraverso quali codici nella realtà quotidiana dell’incontro clinico e con quanta consapevolezza che in ogni caso nella loro operazione diagnostica mescoleranno, a dosi differenti, pretesi fatti con misconosciute opinioni” ( Colucci, 2013).

Sin qui bene, forse però è giunto il tempo di pensare strategie per la salute mentale e dunque di rinvenire genealogie storiche più produttive.

Sulla diagnosi, sul DSM non possiamo che dire “ è un sistema di classificazione. Ceci est un DSM!”. Il problema che si pone consiste nel riconoscere che la sola diagnosi psichiatrica è insufficiente  non solo a descrivere un soggetto ma anche a formulare progetti di cura o prospettare prognosi. E’ patrimonio diffuso quello di riconoscere la povertà delle diagnosi categoriali vs. quelle dimensionali ed ancora quello di utilizzare negli studi di esito altre variabili oltre, non dico la diagnosi, ma la sola dimensione psicopatologica. Si utilizzano, lo sappiamo tutti, altri indicatori

( funzionamento sociale, qualità di vita, soddisfacimento dei bisogni).

Sono accadute un po’ di cose nel panorama della salute mentale. Cronicità e difettualità, per molti decenni del novecento, hanno rappresentato elementi essenziali del paradigma kraepeliniano della schizofrenia. Gli studi epidemiologici sui decorsi ed esiti  delle sindromi schizofreniche, a partire dagli anni ’70,  falsificando il concetto di cronicità e difettualità hanno rivoluzionato il tradizionale modello della schizofrenia.

Un altro filone di ricerca, a partire dallo stesso periodo, che ha notevolmente contribuito al  cambiamento di paradigma interpretativo sulla sindrome schizofrenica, è stato rappresentato dal cosiddetto modello della vulnerabilità (Zubin e Spring 1977, Nuechterlein e Dawson 1984, Kapur 2010).

Alla luce dei risultati di questi studi empirici e di questo nuovo quadro di riferimento non è più possibile assimilare schizofrenia a cronicità. La schizofrenia non è una malattia cronica il cui organizzatore psicopatologico è rappresentato dalla ingravescente demenzialità, ma non è nemmeno riducibile alla "sindrome di Schneider" e cioè ad una costellazione di sintomi acuti e produttivi che di fatto compaiono in talune fasi del percorso schizofrenico (Rossi Monti e Stanghellini 1999).

Gli studi sull’esito clinico e sociale della schizofrenia sono assai numerosi (Ruggeri e Lasalvia 2003) e ricchi di dati, a partire dagli studi longitudinali retrospettivi di “ prima generazione” ( Bleuler 1974, Huber et al. 1975,  Ciompi 1980, Winokur e Tsuang 1975)  che evidenziavano, in studi catamnestici  assai prolungati nel tempo ( 23 anni, nello studio di M. Bleuler, e 37 anni in quello di Ciompi)  la presenza di diversi pattern di decorso e differenti pattern di esito.

In particolare, nello studio di M. Bleuler risultavano individuati otto diversi pattern di decorso e quattro differenti pattern di esito: esito favorevole nel 20% dei casi (remissione completa della sintomatologia e presenza di un soddisfacente funzionamento sociale nel corso degli ultimi cinque anni); remissione incompleta dei sintomi associata a un adeguato funzionamento per il 32% dei soggetti; nel 24% dei casi una remissione incompleta dei sintomi in presenza di un funzionamento adeguato solo in alcune aree, e un esito sfavorevole ( caratterizzato da sintomatologia persistente, ritiro sociale ed incapacità lavorativa) nel restante 24%.

Nello studio di Ciompi venivano descritti otto diversi pattern di decorso, tra i più frequenti quello caratterizzato da esordio acuto, andamento fasico, esito con remissione o disturbi lievi ( 25% ), un secondo contraddistinto da esordio cronico, evoluzione semplice, esito con disturbi moderati o gravi ( 24% ) e uno con esordio cronico e andamento fasico nel 15% dei casi; e quattro pattern di esito: remissione completa della sintomatologia nel 27% dei soggetti, condizione di lieve deterioramento nel 22% dei casi, deterioramento moderato nel 24% ed una condizione di grave deterioramento nel restante 18% dei soggetti  ( Ruggeri e Lasalvia 2003 ). Le dimensioni cliniche e sociali dei decorsi e degli esiti seguono percorsi che configurano modelli a sistemi aperti, dotati di relativa autonomia (Eaton et al. 1998).

Un vasto insieme di ricercatori ha contribuito all’elaborazione del concetto di vulnerabilità.  Nel 1977, Zubin e Spring proposero un modello della vulnerabilità, in cui sostenevano che: “ i sintomi schizofrenici emergono quando soggetti vulnerabili sono sottoposti ad accadimenti stressanti soprasoglia di origine esogena (eventi esterni) o endogena (eventi biochimici)” (Zubin e Spring 1977).

Analogamente, Nuechterlein e Dawson nel 1984 descrissero un modello vulnerabilità/stress per lo studio dello sviluppo di episodi schizofrenici. Caratteristiche di vulnerabilità individuale ( quali riduzione della capacità di elaborazione, iperreattività del sistema nervoso autonomo agli stimoli stressanti, deficit della competenza sociale ed adattabilità) interagendo con stimoli ambientali stressanti possono dar luogo ad episodi schizofrenici (Nuechterlein e Dawson 1984). Nello stesso periodo e provenendo da tradizione psichiatrica differente, Ciompi proponeva un modello di vulnerabilità nel quale assumevano importanza gli schemi logico-affettivi di riferimento (Ciompi 1982). Al concetto di vulnerabilità individuale sono state rivolte ricerche da parte di Carlo Perris. Nel modello di Perris si assume che la vulnerabilità individuale non sia esclusivamente di tipo biologico, ma sia il risultato di interazioni continue tra fattori biologici e psicosociali, che avvengono nel corso dello sviluppo ( anche nel contesto di relazioni precoci) e determinano l’interiorizzazione di modelli operativi interni di sé e delle relazioni con gli altri più  o meno adattivi ( Perris 1989 ). Interessante risulta il tentativo, operato da Stanghellini, di confrontare il modello della vulnerabilità con quello dei sintomi ( o fenomeni) base elaborato dalle scuole tedesche (Stanghellini 1997).

Al di là della dicotomia acuzie-cronicità si situa il concetto di vulnerabilità secondo il quale ciò che perdura nel tempo sono tratti preesistenti e persistenti identificati come esperienze disturbanti dal soggetto stesso, a partire dalle quali possono svilupparsi - in particolari condizioni di sollecitazione ambientale - fenomeni psicotici conclamati (Rossi Monti e Stanghellini 1999).

Recovery e early psychosis

Due filoni di ricerca, in particolare, a mio avviso, meritano attenzione nella fase attuale. Quello del recovery e quello degli interventi precoci nelle psicosi.

Il tema della guarigione (recovery) sta assumendo un peso considerevole nella letteratura scientifica internazionale e, in molti Paesi, le politiche per l’assistenza psichiatrica hanno iniziato a prevedere in modo esplicito le strategie per garantire un’assistenza recovery-oriented (CSIP et al. 2007). Questo rilievo nella letteratura e nelle politiche è anche una prima risposta alle sollecitazioni in tal senso che sono venute dalle organizzazioni dei familiari e degli utenti, che non accettano che l’efficacia dei trattamenti offerti venga disgiunta dalla presenza di aspettative favorevoli e di strategie di empowerment.

Nella letteratura scientifica una ricca mole di dati evidenzia che intervenire precocemente negli esordi psicotici, riducendo la DUP (Durata di psicosi non trattata), predice il miglioramento degli esiti, che vi è un periodo critico compreso tra due e cinque anni dall’esordio in cui è importante utilizzare interventi psicosociali oltre a quelli farmacologici, che i miglioramenti realizzati con tali interventi intensivi, presso servizi dedicati, possono essere conservati se si continuano a erogare interventi psicosociali anche di minor intensità (Harrison 2001, Marshall 2005, Yung 2012, McGorry 2013, Bertelsen 2008, Norman 2011).

Numerosi dati di ricerca evidenziano che quanto più precoce è l’intervento nelle psicosi all’esordio tanto migliore è l’esito, sia sulle dimensioni cliniche che sul funzionamento psicosociale e che i risultati conseguiti con trattamenti psicosociali intensivi  nei primi anni vengono conservati nel tempo, quando si garantisca la prosecuzione di cure di mantenimento ( Marshall 2005, Opus trial 2008, Norman 2011, Yung 2012).

  In particolare, la meta-analisi condotta da Marshall e coll.  evidenzia il ruolo della DUP sugli outcomes, sottolineando che quanto minore è la DUP tanto migliori risultano gli esiti misurati su diversi assi: psicopatologia, funzionamento psicosociale e qualità di vita.

Bertelsen e coll. hanno condotto in Danimarca  un trial  RCT (OPUS trial)  per valutare l’efficacia di interventi early psychosis verso interventi standard,  su una coorte di 547 pazienti seguiti per due anni. Gli interventi evidence based utilizzati erano l’assertive community treatment (ACT), la psicoeducazione familiare e il social skills training. Gli interventi intensivi precoci, al follow-up di due anni, mostravano, verso quelli standard, outcome migliori, in particolare, consentendo più efficace remissione sintomatologica e  più elevati livelli di funzionamento sociale

Al termine dei due anni, gli interventi intensivi, nello studio di Bertelsen, vennero sospesi. Al follow-up a cinque anni i risultati conseguiti risultavano quasi tutti persi, non riscontrandosi alcuna differenza tra i due gruppi  early psychosis /vs standard, tranne per alcune dimensioni ( come per es. il riuscire a vivere autonomamente senza ricorrere a supported housing, anche a cinque anni, per i soggetti della coorte early psychosis).

Tale dato ha sollecitato ulteriori ricerche, al fine di poter programmare interventi intensivi, per un certo periodo, seguiti da interventi estensivi, con lo scopo di conservare i risultati conseguiti per periodi prolungati, anche dopo la cessazione degli interventi intensivi.

Il gruppo canadese di Norman e coll., in tal senso ha condotto una ricerca in cui si evidenzia che i risultati conseguiti a due anni, dopo l’erogazione di interventi intensivi, vengono conservati a cinque anni,  purchè,  allo scadere del periodo intensivo segua una fase estensiva con erogazione di interventi a minore intensità, ma pur sempre presenti e strutturati.

 

Proposte per dibattiti e pratiche

In qualche parte di “Sorvegliare e punire” Foucault afferma che “ la disciplina è un’anatomia politica del dettaglio” e un po’ oltre “ Non basta aver il gusto dell’architettura. Bisogna conoscere il taglio delle pietre”.

Penso perciò che quando si parla di interventi precoci nelle psicosi, al fine di sfatare il problema della somministrazione  farmacologica a falsi positivi, sarebbe bene ricordare che l’uso di antipsicotici non è previsto come prima scelta; per i pazienti UHR  ( ultra high risk) si tratta di progettare  interventi psicosociali che evitino la transizione in psicosi.

Cercando però di riassumere la mia proposta di discussione, la riformulerei in tali termini. Il potere esiste, disciplina e produce, i meccanismi biopolitici pervadono e strutturano le nostre esistenze; come rinvenire spazi di produttività e liberazione dunque? In salute mentale per lo meno ( resto fedele alla microfisica ). Credo ci sia bisogno per lo meno di alleanze o progetti tra operatori con una visione recovery-oriented e, va da sé con utenti e società civile ( mi piace di più che associazioni familiari. Il rapporto tra psichiatria e famiglie non è stato poi sempre così progressista).

Qualche spunto ulteriore vorrei trarlo dalle osservazioni di Benedetto Saraceno. Direttore del Dipartimento di salute Mentale e abuso di sostanze dell’OMS dal 1999 al 2010, autore di numerosissimi paper per l’OMS e dello splendido testo dal sapore blanchottiano “La fine dell’intrattenimento” ( e in cui esordiva dicendo di appartenere a quella comunità di psichiatri che mescolavano letture di studi di esito a saggi di Foucault e Deleuze e poi intitolava il libro, almeno a mio avviso, sulla scia de “ L’infinito intrattenimento” di Blanchot). Saraceno, dopo aver fatto notare che nel mondo su cento persone  che soffrono di un disturbo mentale solo quaranta sono destinate a incontrare un medico, e solo quindici uno psichiatra, osserva “ man mano che il modello biomedico della psichiatria ha dovuto, in coincidenza con la nascita del welfare, confrontarsi con modelli organizzativi diversi, ipotesi eziologiche diverse, spinte culturali  extramediche, istanze sociali e mutamenti politici, invece che porsi in uno stato di crisi e auto interrogazione ( in quello stato epocale in cui Basaglia  l’aveva salutarmente costretta), gli psichiatri si sono limitati ad “ aggiungere”. Includere nuovi ambiti di osservazione e nuove competenze, senza elaborare l’inevitabile trasformazione epistemologica e metodologica che ogni inclusione comportava. In tal modo il nucleo centrale della “questione psichiatrica” è venuto allo scoperto: ci si è cominciati a chiedere fino a che punto questa disciplina possa continuare a esistere come una branca della medicina, o se invece, nel momento in cui assume come oggetto di osservazione e intervento aspetti sempre più lontani dal suo campo tradizionale di applicazione, cessi di esistere come specialità medica e diventi qualcosa d’altro: qualcosa di indefinito e forse da definire. Anche rispetto alla diagnosi la cultura additiva si è limitata a prendere atto dell’insufficienza dei precedenti strumenti, aggregando sempre nuove informazioni. L’impressione è che gli psichiatri non sappiano o non vogliano prendere atto che il contenitore non è infinito. Da qui anche l’inutilità del dibattito pro o contro la diagnosi. La questione andrebbe piuttosto formulata nel modo seguente: fino a che punto la diagnosi continua a essere un informatore efficace se le variabili che utilizziamo come informatori parziali si moltiplicano e si sommano, ed entro quali limiti questa somma di informazioni serve a rendere la diagnosi più articolata e ricca, o ( anche) a metterla in discussione e invalidarne il potere informativo. Se la comunità scientifica produceva diagnosi differenziate, la comunità dei curanti in pratica le ignorava, dato che no proponevano alcuna differenziazione di natura prognostica o di strategia di intervento. Da alcuni decenni la comunità scientifica e la comunità dei curanti hanno un interesse in comune che prima non avevano: differenziare la diagnosi. Questo tuttavia è vero solo parzialmente; se da un lato le offerte terapeutiche e gli “ scenari” dell’intervento si sono articolati e diffusi, in modo da favorire la progressiva individualizzazione dei percorsi di cura e la differenziazione degli esiti, dall’altro le strategie di intervento, cioè i trattamenti, sono a tuttora fortemente standardizzati, poveri di strumenti e di contenuti, e poco o per nulla modulati sui bisogni dei singoli individui. In altre parole, la separazione fra comunità scientifica e comunità dei curanti, che è palese quando esistevano i manicomi, tutto sommato permane anche fuori dai manicomi. E mentre la comunità scientifica vive nell’illusione ( e mistificazione) della diagnosi come strumento altamente differenziato, la comunità dei curanti continua a praticare terapie standardizzate che non “ vedono” le differenze, mantenendo i propri pazienti all’interno di una indifferenziazione ( e indifferenza) clinica e morale”.

In sintesi, condividendo l’osservazione di Beneduce sulla debolezza epistemologica della diagnosi a fronte della sua forza performativa, penso che dovremmo definire meglio il concetto di “comunità di curanti”, pensandola meno contrapposta alla “comunità scientifica”. Insomma, “quelli delle pratiche” sono anche quelli che debbono avere know how molto aggiornato e debbono abituarsi a produrre dati scientifici. Perciò ritengo importante mettere in comune conoscenze  recovery oriented.

L’ho detto all’inizio, mi è piaciuta molto, nello scritto di Mario Colucci, la scena di apertura “ Un caffè con Fabrizio”. Fabrizio è legato al letto di un SPDC, alla domanda del giovane psichiatra sul perché ciò possa accadere il collega anziano risponde lapidario: “ Perché è schiZZofrenico, Colucci!Figlio di schizzofrenica e fratello di schizzofrenica”.  Bene, suppongo nella stessa città ove ipotizzo si sia svolta la scena venti anni fa del “ Perché è schiZZofrenico”, recentemente un ricercatore, scientificamente molto valido, si è rivolto ad un centro per gli interventi precoci negli esordi, chiedendo “ tra i vostri ragazzi vi sono schizofrenici?”, risposta della psicoterapeuta: “ cerchiamo di non farli diventare”.

 

P.s.: Gli altri articoli, trattano poi ambiti più specialistici. Esemplare, ad es. l’articolo di Minard nel tracciare una sorta di genealogia del sistema DSM mostrandone le direttrici di ricerca delle diverse task force ( a partire dalla iniziale impostazione psicoanalitica del DSM-I alla più nota formulazione ateoretica del DSM-III di Bob Spitzer) e aspetti di contesto di importanza notevolissima; ci riferiamo  alla lotta degli omosessuali americani che porterà alla derubricazione come categoria diagnostica  dell’omosessualità nel DSM-III ( lo era nel DSM-II del 1968) e alla lotta dei veterani del Vietnam per il riconoscimento nel DSM-III del PTSD.

E poi, articoli di Allen Frances, direttore della task force del DSM-IV, per chi voglia entrare più in dettaglio sul dibattito “prossima uscita del DSM5”, e Migone e Lingiardi per uno sguardo sulla diagnosi, a partire dal sistema DSM, verso la psicoanalisi (PDM e SWAP).

Piccola nota su Peppe Dell’Acqua. Articolo bellissimo che si dipana tra violenze istituzionali,

esperienze anti istituzionali, metodi di lavoro alieni da tecnicismi. Due osservazioni, la prima: a furia di smarcarsi dalle tecniche ( la psicofarmacologia, le psicoterapie, la riabilitazione, la fenomenologia ) si ha l’impressione di osservare una psichiatria allo stato nascente, perennemente fondativa  (pineliana, almeno come mito). La seconda: siamo certi che alcune delle cose esemplari che Dell’Acqua racconta non siano patrimonio di un gruppo più vasto di operatori? Non ricorrere alla contenzione, ascoltare e rispettare i pazienti, ricostruire biografie, fornire potenza per processi identari?

Va benissimo fare storia di un movimento anti istituzionale, importantissimo per i suoi risvolti scientifici, etici, politici. Attenzione però, lo dico davvero sommessamente, alla cifra della esemplarietà; perché può essere letta da alcuni come deresponsabilizzante : “ a Trieste sì che fanno bene le cose…qui da noi non si può”, o con altra variante non meno delegante “ non ce lo fanno fare”. Vorrei riuscire a non essere frainteso, adoro le cose fatte e scritte da dell’Acqua. Lo preferisco però quando lo vedo meno arroccato su posizioni identitarie e lo ascolto in simposi alla WAPR o incontro Mezzina in workshop della SIEP. Per dirla con uno slogan: “ Meno arroccamenti ( categorie?) e più dimensionalità delle esperienze e pratiche ( con alleanze di Società scientifiche in continuità dimensionali che non alterino le specificità)”. Strategie e tattiche per arricchire soggettività e utilizzare pratiche discorsive e costrutti scientifici che potenzino.

 

 

 

 


   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
   

 

 

 

   
 
 

 

 

 

 

 

 

         

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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