"La
vita non è che un'ombra che cammina
"
-
note sul cinema di Carmelo Bene -
"Non c'è set che mi comprenda": questa, in sintesi,
è la risposta che, qualche tempo fa, Carmelo Bene diede a
chi gli chiedeva, ancora una volta, le ragioni dell'improvviso (e
definitivo) interrompersi del suo cinema, racchiuso in poco più
di cinque anni (tra il 1968 e il 1972) e in cinque lungometraggi
di forte impatto, apparsi e subitaneamente scomparsi nel panorama
italiano.
Ed
è proprio da qui, da quest'impossibilità di essere
contenuto in una qualsiasi scena che conviene partire, nell'intento
di rileggere e ripensare il cinema di Carmelo Bene, ripensare al
suo cinema a partire dal vuoto che esso ha lasciato dal momento
della sua interruzione lasciandoci, certo, opere cinematografiche
di un'intensità unica ma anche, e forse soprattutto, la nostalgia
per l'audacia solitaria di un film come Nostra Signora dei Turchi
(1968), quasi impensabile come film degli anni sessanta tanto
era forte la sua carica eversiva di immagini davvero mai viste (e
mai più viste, da allora, in trenta anni di cinema italiano).
Un cinema, quello di Carmelo Bene, che fin dall'inizio sembra essere
permeato dalla possibilità (e, forse, dall'inevitabilità)
della sua stessa sparizione, che accetta l'eventualità dell'eliminazione
di sé, del proprio corpo, ovvero della cancellazione di immagini
che, alla fine, appaiono quasi senza significato.
Tutto il percorso filmico di Bene, allora, appare come una ricerca
instancabile e insanabile verso l'al di là del cinema, verso
la negazione del cinema, attraverso la consapevolezza che il cinema
può (o deve) concludersi: ecco che allora il primissimo momento
filmico di Carmelo Bene, Hermitage (1967), con la sua documentazione
esaltata (e, a tratti, insensata) del corpo di Bene e del suo doppio,
la voce, sembra già contenere un dopo, ovvero la fine del
suo cinema, il sottrarsi alla (sua) immagine.
Questa sorta di auto-immolazione dell'artista (attore e regista)
Carmelo Bene è rappresentata da Salomè (1972),
dove il dissolversi dell'immagine del corpo di Erode (e il permanere
della sola phonè) si fa emblema del disfacimento di
tutta la pellicola, inquietante anticipo della sospensione di tutto
il suo cinema.
Ma il vero e proprio film ultimo di Carmelo Bene non è Salomè,
bensì Un Amleto di meno (1973), e questo fatto non
appare casuale: non solo perché l'Amleto è la figura
costante nella sua opera e nella sua vita (Bene stesso si definisce
"Amleto del Novecento"), ma anche perché l'Amleto,
nel suo rappresentare la cessazione del suo cinema, in fondo lo
riassume e lo sintetizza.
Attraversando
il teatro, il cinema e, infine, la televisione, l'autore/attore
Carmelo Bene si è annullato a favore di un fluire senza ostacoli
della phonè. Tuttavia è un annullamento che può
essere visto o percepito dall'occhio: la composizione di Bene non
ha niente a che fare con un'interpretazione priva di originalità,
semmai si potrebbe definire come una messa in musica della parola,
un concerto della voce.
Bene ci presenta la visione di una versificazione che si trasforma
in impulso vocale, che precipita nel corpo dell'attore il quale
si muta esso stesso in una composizione poetica: di fronte alla
prevalenza dell'immagine (cinema, televisione) Carmelo Bene ci fa
partecipi del (suo) teatro come non - luogo, dove è proprio
lo spettacolo a mancare, dove si invoca l'ascolto come testimonianza
di una scena (ormai) vuota.
"
Sarà
tra poco, l'intervallo è mio.
E la vita di un uomo
Non è che il tempo di dire 'uno'
V'è una speciale provvidenza nella caduta di un
passero.
Se è ora, non è a venire;
Se è a venire, non sarà ora;
Se non è ora, pure sarà.
Star pronti è tutto,
ché se nessuno sa quello che lascia,
cosa importa lasciar prima del tempo?
Lascia andare."
(W. Shakespeare, "Amleto")
Autore:
Valentino
Faticanti
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